Confessiones, IV, 8 (“Il piacere dell’amicizia”)

Non vacant tempora nec otiose volvuntur per sensus nostros: faciunt in animo mira opera. ecce veniebant et praeteribant de die in diem, et veniendo et praetereundo inserebant mihi spes alias et alias memorias, et paulatim resarciebant me pristinis generibus delectationum, quibus cedebat dolor meus ille; sed succedebant non quidem dolores alii, causae tamen aliorum dolorum. nam unde me facillime et in intima dolor ille penetraverat, nisi quia fuderam in harenam animam meam diligendo moriturum acsi non moriturum? maxime quippe me reparabant atque recreabant aliorum amicorum solacia, cum quibus amabam quod pro te amabam, et hoc erat ingens fabula et longum mendacium, cuius adulterina confricatione corrumpebatur mens nostra pruriens in auribus. sed illa mihi fabula non moriebatur, si quis amicorum meorum moreretur. alia erant quae in eis amplius capiebant animum, conloqui et conridere et vicissim benivole obsequi, simul legere libros dulciloquos, simul nugari et simul honestari, dissentire interdum sine odio tamquam ipse homo secum atque ipsa rarissima dissensione condire consensiones plurimas, docere aliquid invicem aut discere ab invicem, desiderare absentes cum molestia, suscipere venientes cum laetitia: his atque huius modi signis a corde amantium et redamantium procedentibus per os, per linguam, per oculos et mille motus gratissimos, quasi fomitibus conflare animos et ex pluribus unum facere.

Non passa invano il tempo e non gira a vuoto sui nostri sentimenti: ha strani effetti sull’anima. E venivano i giorni e passavano uno dopo l’altro, e venendo e passando mi insinuavano dentro altre speranze, altri ricordi: e a poco a poco mi restituivano agli antichi piaceri, e a questi il mio dolore ormai cedeva il passo. Ma gli succedevano, se non altri dolori, altre cause di dolore. E del resto perché quello era penetrato in me tanto facilmente e tanto in profondità, se non perché avevo fondato l’anima sulla sabbia, affezionandomi a un uomo destinato a morte come se non dovesse mai morire. Soprattutto mi aiutava a riprendermi il conforto di altri amici: con loro amavo ciò che amavo in vece tua, cioè una sterminata favola e una lunga bugia, che con le sue lusinghe e seduzioni ci solleticava le orecchie e ci corrompeva la mente. E quella favola non mi moriva: era sopravvissuta alla morte di uno dei miei amici. Altre erano le cose che sempre più mi stringevano a loro: il riso e il conversare insieme, e le reciproche affettuose cortesie, e il fascino dei libri letti insieme, gli scherzi e i nobili svaghi comuni, e il dissentire a volte, ma senza rancore, come succede con se stessi, e con questi rarissimi dissensi fare più intenso il gusto dei molti consensi, e l’insegnare e l’imparare a turno, la nostalgia impaziente per chi manca, le festose accoglienze a chi ritorna: son questi o simili, i segni che dal cuore di chi ama ed è riamato giungono tramite il volto, la bocca, gli occhi e mille graziosissimi gesti, quasi ad alimentare il fuoco che divampa e fonde molte anime in una.