Metamorfosi, IV, 34-35

34 – Sed monitis caelestibus parendi necessitas misellam Psychen ad destinatam poenam efflagitabat. Perfectis igitur feralis thalami cum summo maerore sollemnibus toto prosequente populo vivum oducitur funus et lacrimosa Psyche comitatur non nuptias, sed exequias suas. Ac dum maesti parentes et tanto malo perciti nefarium facinus perficere cunctantur, ipsa illa filia talibus eos adhortatur vocibus: “Quid infelicem senectam fletu diutino cruciatis? Quid spiritum vestrum, qui magis meus est, crebris eiulatibus fatigatis? Quid lacrimis inefficacibus ora mihi veneranda foedatis? Quid laceratis in vestris oculis mea lumina? Quid canitiem scinditis? Quid pectora, quid ubera sancta tunditis? Haec erunt vobis egregiae formonsitatis meae praeclara praemia? Invidiae nefariae letali plaga percussi sero sentitis. Cum gentes et populi celebrarent nos divinis honoribus, cum novam me Venerem ore consono nuncuparent, tunc dolere, tunc flere, tunc me iam quasi peremptam lugere debuistis. Iam sentio, iam video solo me nomine Veneris perisse. Ducite me et cui sors addixit scopulo sistite. Festino felices istas nuptias obire, festino generosum illum maritum meum videre. Quid differo, quid detrecto venientem, qui totius orbis exitio natus est?”

35 – Sic profata virgo conticuit ingressuque iam valido pompae populi prosequentis sese miscuit. Itur ad constitutum scopulum montis ardui, cuius in summo cacumine statutam puellam cuncti deserunt, taedasque nuptiales, quibus praeluxerant, ibidem lacrimis suis extinctas relinquentes deiectis capitibus domuitionem parant. Et miseri quidem parentes eius tanta clade defessi, clausae domus abstrusi tenebris, perpetuae nocti sese dedidere. Psychen autem paventem ac trepidam et in ipso scopuli vertice deflentem mitis aura molliter spirantis Zephyri, vibratis hinc inde laciniis et reflato sinu sensim levatam suo tranquillo spiritu vehens paulatim per devexa rupis excelsae, vallis subditae florentis cespitis gremio leniter delapsam reclinat.

34 – Ma la necessità di ubbidire agli ordini del cielo premeva la misera Psiche a subire al più presto la pena destinata. Ultimate pertanto in mezzo a una gran tristezza le solenni cerimonie delle funebri nozze, si mette in moto, seguito da tutto il popolo, quel funerale d’una persona viva che accompagna Psiche piangente non alle nozze ma alle esequie. E mentre gli stessi genitori, colpiti da tanta sventura, esitano a mandare a effetto quest’azione incredibile, la loro stessa figlia li incoraggia con queste parole: “Perché affliggere con tante lagrime la vostra vecchiaia? Perché stancate il vostro cuore, che è anche mio, con tanti lamenti? Perché sfigurate con lagrime impotenti il vostro volto che è venerando? Perché macerate coi vostri occhi i miei occhi? Perché vi picchiate il petto, perché, madre, il seno che santamente mi nutrì? Ecco il premio che ve ne viene dalla mia famosa bellezza. Troppo tardi vi risentite del colpo fatale che vi ha dato l’ignobile invidia! Quando popolazioni e nazioni mi tributavano onori divini, quando a una voce tutti mi chiamavano una seconda Venere, allora bisognava dolersi, allora rammaricarsi, allora piangermi come morta. Ormai lo sento, lo vedo che la mia rovina è stata questo nome di Venere. Portatemi dunque sulla rupe che mi ha destinato la sorte e lasciatemi lì. Sono impaziente di celebrare queste felici nozze e di vedere questo mio nobile marito. Perché indugiare? Perché evitare l’incontro con colui che è nato perla dannazione del mondo intero?”.

35 – Cosi’ disse la vergine, poi tacque, e con passo sicuro si uni’ alla processione del popolo che le si mise dietro. Vanno alla rupe designata dell’alto monte, e sulla sommita’ abbandonano tutti la faniulla predestinata, e qui, lasciate, avendole spente con le lacrime, le tede nuziali con cui avevano accompagnata la fanciulla, si avviao a testa bassa verso casa. I miseri genitori di lei, schiacciati da tanta sciagura, insieme nelle tenebre della chiusa casa si votarono a perpetua notte. Ma Psiche, paurosa e tremante, mentre piange sulla cima della rupe, una mite aura di zefiro sente spirare molleente che le fa svolazzare le vesti, ne gonfia i lembi, poi la solleva insensibilmente e col suo placido soffio la porta via per il pendio dell’alta rupe, la fa scivolare dolcemente per posarla tra i cespugli fioriti d’una valle segreta.