De Oratore, I, 16

Etenim si constat inter doctos, hominem ignarum astrologiae ornatissimis atque optimis versibus Aratum de caelo stellisque dixisse; si de rebus rusticis hominem ab agro remotissimum Nicandrum Colophonium poetica quadam facultate, non rustica, scripsisse praeclare, quid est cur non orator de rebus eis eloquentissime dicat, quas ad certam causam tempusque cognorit? Est enim finitimus oratori poeta, numeris astrictior paulo, verborum autem licentia liberior, multis vero ornandi generibus socius ac paene par; in hoc quidem certe prope idem, nullis ut terminis circumscribat aut definiat ius suum, quo minus ei liceat eadem illa facultate et copia vagari qua velit. Nam quod illud, Scaevola, negasti te fuisse laturum, nisi in meo regno esses, quod in omni genere sermonis, in omni parte humanitatis dixerim oratorem perfectum esse debere: numquam me hercule hoc dicerem, si eum, quem fingo, me ipsum esse arbitrarer. Sed, ut solebat C. Lucilius saepe dicere, homo tibi subiratus, mihi propter eam ipsam causam minus quam volebat familiaris, sed tamen et doctus et perurbanus, sic sentio neminem esse in oratorum numero habendum, qui non sit omnibus eis artibus, quae sunt libero dignae, perpolitus; quibus ipsis si in dicendo non utimur, tamen apparet atque exstat, utrum simus earum rudes an didicerimus: ut qui pila ludunt, non utuntur in ipsa lusione artificio proprio palaestrae, sed indicat ipse motus, didicerintne palaestram an nesciant, et qui aliquid fingunt, etsi tum pictura nihil utuntur, tamen, utrum sciant pingere an nesciant, non obscurum est; sic in orationibus hisce ipsis iudiciorum, contionum, senatus, etiam si proprie ceterae non adhibeantur artes, tamen facile declaratur, utrum is, qui dicat, tantum modo in hoc declamatorio sit opere iactatus an ad dicendum omnibus ingenuis artibus instructus accesserit.

Infatti poichè è noto fra i dotti che un uomo ignaro di astrologia, Arato, trattò del cielo e delle stelle con versi ottimi e molto eleganti; che un uomo, lontanissimo dalla campagna, Nicandro di Colofone, scrisse mirabilmente con una certa capacità poetica, non rustica, sull’agricoltura, perchè l’oratore non deve poter trattare con molta eloquenza di quegli argomenti, che avrà conosciuto per una determinata questione e occasione? Infatti il poeta è affine all’oratore, un poco più vincolato alle leggi ritmiche, ma più libero nell’uso delle parole, certamente compagno e quasi alla pari in molte specie di ornamenti; certamente quasi uguale almento in questo, perchè non circoscrive nei termini nè limita la sua giurisdizione, in modo che non gli sia lecito aggirarsi dove voglia con quel medesimo ingegno e facondia. Quanto poi a ciò che tu, Scevola, dicevi che non avresti potuto tollerare quella mia affermazione, se non fossi nel mio territorio, perchè avevo detto che l’oratore deve essere perfetto in ogni tema di conversazione, in ogni ramo di cultura: giammai in fede mia direi una tale cosa, se ritenessi che io stesso sono quell’oratore che mi fingo. Ma, come spesso soleva dire C. Lucilio, un po’ in collera con te, e proprio per quella ragione mio amico meno di quanto avrebbe voluto, ma tuttavia erudito e di molto buon gusto, così giudico che nessuno sia da annoverare fra gli oratori, se non sia raffinato in tutte quelle dottrine, che sono degne di un uomo libero; e anche se non usiamo di esse nel parlare, tuttavia è evidente e spicca che siamo ignari o che non le abbiamo studiate. Come quelli che giocano a palla non si servono nello stesso gioco delle regole della palestra, ma gli stessi movimenti indicano se hanno imparato la ginnastica o se non la sanno, e coloro che plasmano qualche cosa, benchè non usino per nulla il disegno, pur tuttavia si vede bene se sanno o non sanno disegnare, così in questi stessi discorsi dei tribunali, delle concioni, del senato, anche se di proposito non sono usate le rimanenti discipline, tuttavia senza dubbio si capisce se l’oratore si sia esercitato in questo lavoro di declamazione o se si sia accostato all’eloquenza nutrito di tutte le dottrine liberali.