Historiarum Alexandri Magni, III, 2

At Dareus nuntiata Memnonis morte haud secus quam par erat motus omissa omni alia spe statuit ipse decernere: quippe quae per duces suos acta erant, cuncta damnabat, ratus pluribus curam, omnibus afuisse fortunam. Igitur castris ad Babylona positis, quo maiore animo capesserent bellum, universas vires in conspectum dedit, et, circumdato vallo quod decem milium armatorum multitudinem caperet, Xerxis exemplo numerum copiarum iniit. Orto sole ad noctem agmina, sicut discripta erant, intravere vallum; inde emissa occupaverant Mesopotamiae campos, equitum peditumque propemodum innumerabilis turba, maiorem quam pro numero speciem ferens. Persarum erant centum milia, in quis eques XXX milia inplebat, Medi decem equitum, quinquaginta peditum habebant. Barcanorum equitum duo milia fuere, armati bipennibus levibusque scutis cetrae maxime speciem reddentibus: peditum decem milia equitatum pari armatu sequebantur; Armenii quadraginta miserant peditum, additis septem milibus equitum. Hyrcani egregiorum equitum, ut inter illas gentes, sex milia expleverant, additis equitibus militatura idem vicies quadraginta milia peditum armati erant; pluribus haerebant ferro praefixae hastae, quidam lignum igni duraverant; hos quoque duo milia equitum ex eadem gente comitata sunt. A Caspio mari octo milium pedester exercitus venerat, ducenti equites. Cum iis erant ignobiles aliae gentes: duo milia peditum, equitum duplicem paraverant numerum. His copiis triginta milia Graecorum mercede conducta, egregiae iuventutis, adiecta. Nam Bactrianos et Sogdianos et Indos ceterosque Rubri maris accolas, ignota etiam ipsi gentium nomina, festinatio prohibebat acciri. Nec quicquam illi minus quam multitudo militum defuit. Cuius tum universae aspectu admodum laetus, purpuratis solita vanitate spem eius inflantibus, conversus ad Charidemum Atheniensem belli peritum et ob exilium infestum Alexandro,””quippe Athenis iubente eo fuerat expulsus,””percontari coepit satisne ei videretur instructus ad obterendum hostem. At ille et suae sortis et regiae superbiae oblitus: “Verum”, inquit, “et tu forsitan audire nolis, et ego, nisi nunc dixero, alias nequiquam confitebor. Hic tanti apparatus exercitus, haec tot gentium et totius Orientis excita sedibus suis moles finitimis potest esse terribilis: nitet purpura auroque, fulget armis et opulentia, quantam, qui oculis non subiecere, animis concipere non possunt. Sed Macedonum acies, torva sane et inculta, clipeis hastisque immobiles cuneos et conferta robora virorum tegit. Ipsi phalangem vocant, peditum stabile agmen. Vir viro, armis arma conserta sunt; ad nutum monentis intenti, sequi signa, ordines servare didicerunt; quod imperatur, omnes exaudiunt. Obsistere, circumire, discurrere in cornu, mutare pugnam, non duces magis quam milites callent. Ac ne auri argentique studio teneri putes, adhuc illa disciplina paupertate magistra stetit: fatigatis humus cubiculo est; cibus, quem occupati parant, satiat; tempora somni artiora quam noctis sunt. Iam Thessali equites et Acarnanes Aetolique, invicta bello manus, fundis, credo, et hastis igne duratis repellentur! Pari robore opus est: in illa terra quae hos genuit auxilia quaerenda sunt; argentum istud atque aurum ad conducendum militem mitte.” Erat Dareo mite ac tractabile ingenium, nisi etiam naturam plerumque fortuna corrumperet. Itaque, veritatis inpatiens, hospitem ac supplicem, tunc cum maxime utilia suadentem, abstrahi iussit ad capitale supplicium. Ille ne tum quidem libertatis oblitus: “Habeo”, inquit, “paratum mortis meae ultorem: expetet poenas mei consilii spreti is ipse, contra quem tibi suasi. Tu quidem, licentia regni tam subito mutatus, documentum eris posteris homines, cum se permisere fortunae, etiam naturam dediscere.” Haec vociferantem, quibus imperatum erat, iugulant. Sera deinde paenitentia subiit regem, ac vera dixisse confessus sepeliri eum iussit.

Nel frattempo Dario, all’annunzio della morte di Memnone, turbato così come quella di un suo pari, abbandonata ogni altra speranza, decise di condurre la guerra in prima persona: infatti egli disapprovava tutte le azioni condotte dai suoi generali, convinto che alla maggior parte di essi fosse venuta meno la perizia, a tutti la fortuna. Quindi, stabilito l’accampamento presso Babilonia, dispiegò tutte le sue milizie alla vista di tutti, in modo che affrontassero la guerra con animo più rinfrancato e, dopo aver fatto costruire attorno al campo un fossato che poteva contenere diecimila armati, fece effettuare la conta dei suoi soldati, secondo l’esempio di Serse. Dal sorger del sole fino a notte le truppe entrarono nel vallo, ai posti che loro erano stati assegnati. Da qui eruppero all’esterno, occupando i campi della Mesopotamia, come una innumerabile moltitudine di fanti e di cavalieri, dando l’impressione di essere in numero maggiore di quanti in effetti fossero.

I Persiani erano centomila, tra i quali trentamila cavalieri. I Medi contavano diecimila cavalieri e cinquantamila fanti, i Barcani duemila cavalieri, armati di asce bipenni e di scudi leggeri, somiglianti a piccoli ripari di cuoio. Gli Armeni avevano inviato quarantamila fanti, in aggiunta a settemila cavalieri. Gli Ircani formavano seimila abili cavalieri, come è d’uso presso quelle genti, in aggiunta a mille cavalieri Tapuri. I Dervisci avevano armato quarantamila fanti: la maggior parte di essi avevano le lance di bronzo o di ferro, alcuni avevano indurito il legno con il fuoco; li accompagnavano anche duemila cavalieri della stessa gente. Dal mar Caspio era giunto un esercito di ottomila uomini di fanteria e duecento cavalieri. Assieme a loro vi erano altre meno conosciute popolazioni: avevano allestito duemila fanti e un numero doppio di cavalieri. A queste truppe si aggiungevano trentamila giovani mercenari greci.

Infatti la fretta impediva che fossero fatti venire gli abitanti di Battra, i Sogdiani, gli Indi e gli altri vicini abitanti della regione attorno al Mar Rosso, nomi di popoli sconosciuti anche allo stesso Dario. Nulla mancava a Dario, tranne il numero di soldati. E mentre egli appariva oltremodo soddisfatto al vedere tale moltitudine e mentre i suoi cortigiani, con la consueta piaggeria, ne solleticavano la speranza, rivoltosi verso l’ateniese Caridemo, esperto stratega e avverso ad Alessandro, causa del suo esilio, in quanto su suo ordine era stato espulso da Atene, cominciò ad informarsi se appariva abbastanza preparato a distruggere il nemico. Ma costui, dimentico della propria sorte e della fierezza del re, rispose: “Ti dirò la verità, che tu forse non vuoi sentire e che io, se non te la dirò oggi, la dirò invano un’altra volta. Questo grande apparato militare, questa massa di tante genti e di tutto l’Oriente, fatta venir qui dalle proprie sedi, può essere terribile per i popoli confinanti: risplende di porpora e d’oro, rifulge di armi e di ricchezze, quante non possono immaginare coloro che non le hanno viste di persona. Ma l’esercito macedone, terribile e selvaggio, cela dietro una selva di scudi e di lance, reparti ben saldi e una forza compatta di uomini.

Chiamano questa formazione “˜falange’, un serrato schieramento di fanti: tutti i soldati sono a stretto contatto, armi contro armi, e ad un cenno del loro comandante hanno imparato diligentemente a tener dietro alle insegne, mantenendo l’ordine nei ranghi. Tutti eseguono gli ordini come un sol uomo: resistere al nemico, aggirarlo, portarsi sulle ali, cambiare fronte di battaglia, sono operazioni familiari ai soldati non meno che ai loro comandanti. E non credere che sia la brama di oro o di argento a tenerli assieme: finora la disciplina della povertà è stata la loro maestra: la terra è il loro giaciglio quando sono stanchi, il primo cibo che trovano li sfama, la durata del loro sonno non è mai pari a quella di una notte. E suppongo che la cavalleria tessala, gli Acarnani e gli Etoli, che non hanno mai conosciuto sconfitta in guerra, possano esser respinti da fionde e da lance indurite al fuoco! Ti è necessaria una forza pari alla loro. Devi chiedere rinforzi proprio nella terra in cui essi sono nati, mandando oro ed argento per arruolare soldati.” Dario era di carattere mite e malleabile, ma la sorte a volte muta anche la migliore indole, e così, adirato per la verità prospettatagli dal suo ospite e supplice, che pur gli dava consigli utili, ordinò che fosse messo a morte. Allora Caridemo, non dimèntico neppure allora del suo spirito libero, disse: “Ho già chi vendicherà la mia morte: trarrà vendetta dei miei consigli disprezzati colui stesso contro il quale ti ho messo in guardia. Tu poi, che sei cambiato tanto rapidamente per il capriccio del potere, sarai di esempio ai posteri, che gli uomini, quando si affidano al caso, dimenticano anche la loro stessa natura.” Mentre pronunciava queste parole, venne sgozzato da quelli a cui era stato ordinato. Presto, però, il re si pentì e, riconoscendo che egli aveva detto la verità, ordinò di seppellirlo.