Pharsalia, I, 1, 100-200

Qualiter undas
qui secat et geminum gracilis mare separat Isthmos
nec patitur conferre fretum, si terra recedat,
Ionium Aegaeo frangat mare, sic, ubi saeva
arma ducum dirimens miserando funere Crassus

105
Assyrias Latio maculavit sanguine Carrhas,
Parthica Romanos solverunt damna furores.
plus illa vobis acie, quam creditis, actum est,
Arsacidae: bellum victis civile dedistis.
dividitur ferro regnum, populique potentis,

110
quae mare, quae terras, quae totum possidet orbem,
non cepit fortuna duos. nam pignora iuncti
sanguinis et diro ferales omine taedas
abstulit ad manes Parcarum Iulia saeva
intercepta manu. quod si tibi fata dedissent

115
maiores in luce moras, tu sola furentem
inde virum poteras atque hinc retinere parentem
armatasque manus excusso iungere ferro,
ut generos soceris mediae iunxere Sabinae.
morte tua discussa fides bellumque movere

120
permissum ducibus. stimulos dedit aemula virtus.
tu, nova ne veteres obscurent acta triumphos
et victis cedat piratica laurea Gallis,
Magne, times; te iam series ususque laborum
erigit inpatiensque loci fortuna secundi;

125
nec quemquam iam ferre potest Caesarve priorem
Pompeiusve parem. quis iustius induit arma
scire nefas: magno se iudice quisque tuetur;
victrix causa deis placuit sed victa Catoni.
nec coiere pares. alter vergentibus annis

130
in senium longoque togae tranquillior usu
dedidicit iam pace ducem, famaeque petitor
multa dare in volgus, totus popularibus auris
inpelli plausuque sui gaudere theatri,
nec reparare novas vires, multumque priori

135
credere fortunae. stat magni nominis umbra,
qualis frugifero quercus sublimis in agro
exuvias veteris populi sacrataque gestans
dona ducum nec iam validis radicibus haerens
pondere fixa suo est, nudosque per aera ramos

140
effundens trunco, non frondibus, efficit umbram,
et quamvis primo nutet casura sub Euro,
tot circum silvae firmo se robore tollant,
sola tamen colitur. sed non in Caesare tantum
nomen erat nec fama ducis, sed nescia virtus

145
stare loco, solusque pudor non vincere bello.
acer et indomitus, quo spes quoque ira vocasset,
ferre manum et numquam temerando parcere ferro,
successus urguere suos, instare favori
numinis, inpellens quidquid sibi summa petenti

150
obstaret gaudensque viam fecisse ruina,
qualiter expressum ventis per nubila fulmen
aetheris inpulsi sonitu mundique fragore
emicuit rupitque diem populosque paventes
terruit obliqua praestringens lumina flamma:

155
in sua templa furit, nullaque exire vetante
materia magnamque cadens magnamque revertens
dat stragem late sparsosque recolligit ignes.

hae ducibus causae; suberant sed publica belli
semina, quae populos semper mersere potentis.

160
namque, ut opes nimias mundo fortuna subacto
intulit et rebus mores cessere secundis
praedaque et hostiles luxum suasere rapinae,
non auro tectisve modus, mensasque priores
aspernata fames; cultus gestare decoros

165
vix nuribus rapuere mares; fecunda virorum
paupertas fugitur totoque accersitur orbe
quo gens quaeque perit; tum longos iungere fines
agrorum, et quondam duro sulcata Camilli
vomere et antiquos Curiorum passa ligones

170
longa sub ignotis extendere rura colonis.
non erat is populus quem pax tranquilla iuvaret,
quem sua libertas inmotis pasceret armis.
inde irae faciles et, quod suasisset egestas,
vile nefas, magnumque decus ferroque petendum

175
plus patria potuisse sua, mensuraque iuris
vis erat: hinc leges et plebis scita coactae
et cum consulibus turbantes iura tribuni;
hinc rapti fasces pretio sectorque favoris
ipse sui populus letalisque ambitus urbi

180
annua venali referens certamina Campo;
hinc usura vorax avidumque in tempora fenus
et concussa fides et multis utile bellum.

iam gelidas Caesar cursu superaverat Alpes
ingentisque animo motus bellumque futurum

185
ceperat. ut ventum est parvi Rubiconis ad undas,
ingens visa duci patriae trepidantis imago
clara per obscuram voltu maestissima noctem
turrigero canos effundens vertice crines
caesarie lacera nudisque adstare lacertis

190
et gemitu permixta loqui: ‘quo tenditis ultra?
quo fertis mea signa, viri? si iure venitis,
si cives, huc usque licet.’ tum perculit horror
membra ducis, riguere comae gressumque coercens
languor in extrema tenuit vestigia ripa.

195
mox ait ‘o magnae qui moenia prospicis urbis
Tarpeia de rupe Tonans Phrygiique penates
gentis Iuleae et rapti secreta Quirini
et residens celsa Latiaris Iuppiter Alba
Vestalesque foci summique o numinis instar

200
Roma, fave coeptis.

Come il sottile istmo, che taglia le acque e separa i due mari e non consente che i flutti si fondano (se la terra si ritirasse, lascerebbe infrangere il mare Ionio nell’Egeo), così, non appena Crasso – che teneva separate le crudeli armi dei capi – con la sua miseranda morte macchiò di sangue latino l’assiria Carre, il disastro partico scatenò il furore romano. O Arsàcidi, con quella battaglia avete ottenuto più di quanto crediate: avete dato ai vinti la guerra civile. Il dominio è diviso con le armi e la sorte di un popolo potente, che è padrone del mare, della terra e di tutto il mondo, non permise che ci fossero due contendenti. Infatti Giulia, rapita anzi tempo dalla crudele mano delle Parche, recò nel regno dei morti il pegno dell’unione del sangue e le torce nuziali divenute funeste con un sinistro presagio. Che se il destino ti avesse concesso un più lungo periodo di vita, soltanto tu avresti potuto trattenere da un lato il marito, dall’altro il padre, entrambi impazziti, ed unire le loro mani armate, dopo aver strappato ad essi il ferro, come le Sabine, gettatesi nel mezzo della mischia, unirono i generi ai suoceri. Con la tua morte invece la lealtà venne spazzata via e fu consentito ai capi di muover guerra. Il valore, che spingeva a rivaleggiare, fornì la spinta: tu, o Grande, temi che le nuove imprese dell’avversario oscurino i tuoi antichi trionfi e che la gloria conseguita nella guerra contro i pirati sia superata da quella derivante dalla conquista delle Gallie; tu, invece, sei sollecitato dalla lunga consuetudine con le fatiche della guerra e dalla Fortuna che non tollera di occupare il secondo posto: né Cesare può sopportare che qualcuno venga prima di sé né Pompeo che qualcuno gli stia accanto. Non è lecito sapere chi dei due abbia dato di piglio alle armi per motivi più giusti: ciascuno adduce a propria giustificazione un giudice importante: la causa del vincitore piacque agli dèi, quella del vinto a Catone. Né vennero l’un contro l’altro sullo stesso piano: l’uno, mentre gli anni declinavano verso l’età tarda, reso più pacato dalla consuetudine con l’attività civile, aveva disimparato con la pace l’arte del condottiero e, bramoso di fama, dava molto al volgo, si lasciava trascinare completamente dall’umore del popolo e godeva dell’applauso del suo teatro, senza allestire nuove forze, dal momento che faceva invece grande affidamento sulla fortuna di un tempo. S’innalza, ombra di un grande nome, come una quercia imponente in un campo fecondo, recante le spoglie di un popolo antico e i doni sacri dei capi e, non riuscendo più ad aderire con forti radici al terreno, sta in piedi solo con il suo peso: effondendo nell’aria i rami nudi, fa ombra con il tronco, non con le fronde, e, sebbene ondeggi, minacciando di crollare al primo soffio dell’euro e si innalzino intorno tanti alberi dal solido tronco, purtuttavia solo essa è venerata. In Cesare non era soltanto il nome o la fama del condottiero, ma un valore incapace di riposo e la sola vergogna vincere senza combattere: aspro e indomabile, scatenava la sua violenza dovunque lo chiamasse la speranza o l’ira, non risparmiava mai le sue armi impugnate empiamente, incalzava da presso i suoi trionfi, forzava la benevolenza accordatagli dagli dèi, scagliandosi contro tutto ciò che fosse di ostacolo al suo desiderio di dominio totale e soddisfatto di aprirsi la via con la rovina. Così il fulmine, provocato dai venti attraverso le nubi, brilla con il risuonare dell’etere percosso e con il fragore dell’universo, fende il giorno e atterrisce i popoli sgomenti, costringendoli a chiuder gli occhi con la sua fiamma obliqua: infuria nel cielo e, dal momento che nulla è di ostacolo al suo sprigionarsi, provoca, precipitando e risollevandosi, stragi per gran tratto e ricompone gli sparsi fuochi.
Queste le cause per i capi; ma anche fra i cittadini lavoravano nascostamente i germi della guerra, che hanno travolto da sempre i popoli potenti. Infatti – allorquando la Fortuna, sottomesso il mondo, recò eccessive ricchezze e i costumi si corruppero di fronte all’abbondanza e alla prosperità e il bottino di guerra, ottenuto ai danni dei nemici, spinse al lusso – non ci fu più limite all’oro e ai palazzi e la fame disprezzò le mense di un tempo; gli uomini indossarono abbigliamenti, che a stento era ammissibile che portassero le giovani; si fuggì la povertà ricca di eroi e si fece venire da ogni angolo del mondo ciò per cui tutti i popoli periscono. Allora unirono insieme un gran numero di campi ed allargarono, servendosi di coloni stranieri, tutti quei terreni che un tempo erano stati arati dal duro vomere di Camillo e lavorati dalle antiche zappe dei Curii. Non era più quel popolo, che traeva giovamento da una tranquilla pace e che si nutriva della propria libertà, mentre le armi tacevano. Di qui le facili ire; fu ritenuto una leggera infrazione, quello a cui potesse spingere l’indigenza, e un grande onore, da ricercare con le armi, riuscire ad avere un potere superiore a quello della patria: la violenza era ormai la misura del diritto. Di qui i plebisciti e le leggi coartate ed infrante e i tribuni che, insieme con i consoli, sovvertivano la legalità, di qui i fasci ottenuti con la corruzione e il popolo che vendeva all’asta il suo favore e i brogli elettorali, esiziali per Roma, che rinnovavano ogni anno le lotte nel venale Campo. Di qui l’usura divoratrice e l’interesse avido nelle scadenze e la lealtà spazzata via e la guerra vantaggiosa per molti.
Ormai Cesare aveva superato con grande rapidità le gelide Alpi e aveva deciso grandi sommovimenti e la guerra futura. Non appena giunse sulla riva del piccolo Rubicone, apparve al condottiero la grande immagine della Patria in ansia, luminosa nella notte oscura, tristissima nel volto e con i bianchi capelli che cadevano dal capo turrito; essa, con la chioma scarmigliata e le braccia nude, così parlò, mescolando i gemiti alle parole: «Dove procedete ancora? Dove recate le mie insegne, o soldati? Se venite nel rispetto della legge o come cittadini, vi è consentito giungere fin qui». Allora l’orrore scosse le membra del condottiero, gli si drizzarono le chiome e, costretto da un improvviso torpore, ristette sul limitare della riva. Ma subito disse: «O Tonante, che proteggi dall’alto della rupe Tarpea le mura dell’Urbe, o Penati Frigi della stirpe Giulia e mistero di Quirino assunto in cielo e Giove Laziare, che hai la tua sede in Alba alta, e fuochi di Vesta e Roma, somma divinità, favorite la mia impresa!