Pharsalia, I, 1, 402-498

Solvuntur flavi longa statione Ruteni;
mitis Atax Latias gaudet non ferre carinas
finis et Hesperiae, promoto limite, Varus;

405
quaque sub Herculeo sacratus nomine portus
urguet rupe cava pelagus: non Corus in illum
ius habet aut Zephyrus, solus sua litora turbat
Circius et tuta prohibet statione Monoeci:
quaque iacet litus dubium quod terra fretumque

410
vindicat alternis vicibus, cum funditur ingens
Oceanus vel cum refugis se fluctibus aufert.
ventus ab extremo pelagus sic axe volutet
destituatque ferens, an sidere mota secundo
Tethyos unda vagae lunaribus aestuet horis,

415
flammiger an Titan, ut alentes hauriat undas,
erigat Oceanum fluctusque ad sidera ducat,
quaerite, quos agitat mundi labor; at mihi semper
tu, quaecumque moves tam crebros causa meatus,
ut superi voluere, late. tum rura Nemetis

420
qui tenet et ripas Atyri, qua litore curvo
molliter admissum claudit Tarbellicus aequor,
signa movet, gaudetque amoto Santonus hoste
et Biturix longisque leves Suessones in armis,
optimus excusso Leucus Remusque lacerto,

425
optima gens flexis in gyrum Sequana frenis,
et docilis rector monstrati Belga covinni,
Arvernique, ausi Latio se fingere fratres
sanguine ab Iliaco populi, nimiumque rebellis
Nervius et caesi pollutus foedere Cottae,

430
et qui te laxis imitantur, Sarmata, bracis
Vangiones, Batavique truces, quos aere recurvo
stridentes acuere tubae; qua Cinga pererrat
gurgite, qua Rhodanus raptum velocibus undis
in mare fert Ararim, qua montibus ardua summis

435
gens habitat cana pendentes rupe Cebennas.

441
tu quoque laetatus converti proelia, Trevir,
et nunc tonse Ligur, quondam per colla decore
crinibus effusis toti praelate Comatae,
et quibus inmitis placatur sanguine diro

445
Teutates horrensque feris altaribus Esus
et Taranis Scythicae non mitior ara Dianae.
vos quoque, qui fortes animas belloque peremptas
laudibus in longum vates dimittitis aevum,
plurima securi fudistis carmina, Bardi.

450
et vos barbaricos ritus moremque sinistrum
sacrorum, Dryadae, positis repetistis ab armis.
solis nosse deos et caeli numina vobis
aut solis nescire datum; nemora alta remotis
incolitis lucis; vobis auctoribus umbrae

455
non tacitas Erebi sedes Ditisque profundi
pallida regna petunt: regit idem spiritus artus
orbe alio; longae, canitis si cognita, vitae
mors media est. certe populi quos despicit Arctos
felices errore suo, quos ille timorum

460
maximus haut urguet leti metus. inde ruendi
in ferrum mens prona viris animaeque capaces
mortis, et ignavum rediturae parcere vitae.
et vos, crinigeros Belgis arcere Caycos
oppositi, petitis Romam Rhenique feroces

465
deseritis ripas et apertum gentibus orbem.

Caesar, ut inmensae conlecto robore vires
audendi maiora fidem fecere, per omnem
spargitur Italiam vicinaque moenia conplet.
vana quoque ad veros accessit fama timores

470
inrupitque animos populi clademque futuram
intulit et velox properantis nuntia belli
innumeras solvit falsa in praeconia linguas.
est qui tauriferis ubi se Mevania campis
explicat audaces ruere in certamina turmas

475
adferat, et qua Nar Tiberino inlabitur amni
barbaricas saevi discurrere Caesaris alas;
ipsum omnes aquilas conlataque signa ferentem
agmine non uno densisque incedere castris.
nec qualem meminere vident: maiorque ferusque

480
mentibus occurrit victoque inmanior hoste.
hunc inter Rhenum populos Albimque iacentes
finibus Arctois patriaque a sede revolsos
pone sequi, iussamque feris a gentibus urbem
Romano spectante rapi. sic quisque pavendo

485
dat vires famae, nulloque auctore malorum
quae finxere timent. nec solum volgus inani
percussum terrore pavet, sed curia et ipsi
sedibus exiluere patres, invisaque belli
consulibus fugiens mandat decreta senatus.

490
tum, quae tuta petant et quae metuenda relinquant
incerti, quo quemque fugae tulit impetus urguent
praecipitem populum, serieque haerentia longa
agmina prorumpunt. credas aut tecta nefandas
corripuisse faces aut iam quatiente ruina

495
nutantes pendere domos, sic turba per urbem
praecipiti lymphata gradu, velut unica rebus
spes foret adflictis patrios excedere muros,
inconsulta ruit.

I biondi Ruteni vengono liberati dal presidio romano, che da lungo tempo risiedeva sul loro territorio. Sono lieti di non dover più sopportare le navi latine il mite Àtace e il Varo, divenuto frontiera d’Italia per l’avanzamento dei confini; ci si rallegra dove il porto consacrato sotto il nome di Ercole incombe sul mare con le sue cave rupi (né il coro né lo zefiro possono qualcosa su di esso: soltanto il circio sconvolge le sue spiagge e tien lontane le navi dal sicuro approdo a Monaco) e dove si trova l’incerto lido, che la terra e il mare rivendicano a sé con successione alterna, quando il grande Oceano avanza o indietreggia con i flutti che si ritirano. Se si tratti di un vento che, soffiando dall’estremo orizzonte, sconvolga il mare e poi lo abbandoni o se sia il flutto della vagante superficie, spinto da un corpo celeste, a gonfiarsi durante il periodo lunare o se sia l’infuocato sole, per assorbire le onde che gli servono di nutrimento, a far innalzare l’Oceano e a portarne i flutti alle stelle -, questo ricercatelo voi, che vi preoccupate di indagare il lavorio del mondo: per me rimani sempre nascosta, o causa, qualunque tu sia, che provochi movimenti così frequenti, seguendo la volontà degli dèi. Allora muovono le insegne i soldati che occupavano la zona dei Nemèti e le rive dell’Atùrio, là dove la curva spiaggia dei Tarbelli racchiude il mare che vi si insinua dolcemente, e sono felici per l’allontanamento del nemico i Sàntoni, i Biturìgi e gli agili Suessiòni dalle lunghe armi, i Lèuci e i Remi abilissimi nello scagliare i giavellotti, i Sèquani espertissimi nel maneggio e nelle evoluzioni a cavallo e i Belgi che hanno imparato molto bene a guidare il carro da guerra escogitato dai Britanni e gli Arverni che ebbero l’ardire di definirsi fratelli dei Latini, come gente discesa dalla medesima stirpe troiana, e i Nervii spesso ribelli e coloro che si macchiarono del massacro di Cotta, infrangendo il patto, e i Vangìoni che ti imitano, o Sàrmata, con le larghe brache, e i truci Batàvi, che sono eccitati dal suono stridulo della tromba dal bronzo ricurvo; e là dove scorre il Cinga, dove il Rodano con veloci onde trascina in mare l’Àrari e dove una popolazione, alta sui monti, abita le impervie Cevenne, bianche di neve.
[I Pìttoni esenti da tributi coltivano i loro campi e gli accampamenti romani non circondano più gli erranti Tùroni. Gli Andi, stanchi di ammuffire fra le tue nebbie, o Meduana, ormai riprendono lena nei placidi flutti della Lòira. L’illustre Gènabo si libera delle truppe di Cesare]. Anche voi, o Trèviri, siete lieti che la guerra vada da un’altra parte e voi, Liguri, ora rasati e che eravate un tempo i guerrieri forniti di più abbondante capigliatura in tutta la Gallia chiomata, e quelli che placano con orrendi sacrifici di sangue il crudele Teutàte e il tremendo Eso sugli spaventevoli altari e Tàrani, il cui culto non è meno orribile di quello tributato alla scitica Diana. Anche voi, bardi, poeti che con le vostre lodi tramandate nei secoli le anime degli eroi caduti in guerra, recitaste, resi più sicuri, i vostri carmi, sempre più numerosi, e voi, o druidi, tornaste a ripetere i vostri riti barbarici e la sinistra consuetudine dei sacrifici, abbandonati al momento in cui avevate deposto le armi. A voi soltanto è concesso di conoscere gli dèi e le potenze del cielo o affermarle inconoscibili; voi abitate boschi profondi in remote foreste sacre. Secondo quanto voi sostenete, le ombre non scendono nelle silenziose sedi dell’Èrebo e nei pallidi dominî del profondo Dite: il medesimo spirito governa il nostro corpo in un altro mondo; se voi esprimete cose di cui siete ben sicuri, la morte rappresenta il punto mediano di una lunga vita. Popolazioni, queste, che vivono nel nord, felici della loro illusione, che non sono angosciate dalla paura della morte, il più grande dei timori: di qui la totale disponibilità per quegli uomini a gettarsi sul ferro nemico e gli spiriti disposti ad accogliere la morte e il ritenere viltà far grazia ad una vita che dovrà tornare. Anche voi, posti a tener lontani dalla guerra i Caìci zazzeruti, vi dirigete alla volta di Roma ed abbandonate le selvagge rive del Reno e un mondo ormai aperto alle incursioni.
Cesare, non appena il suo immenso esercito, fusosi in un sol blocco, gli infonde l’ardire di osare imprese maggiori, penetra attraverso l’intera Italia e ne occupa le città più prossime. Inoltre una falsa diceria si aggiunge ai timori reali e fa breccia nell’animo della gente, arrecando il presagio della disfatta futura e, rapida messaggera della guerra incombente, spinge innumerevoli voci ad annunci menzogneri. C’è chi riferisce che – là dove si estende la piana di Mevània produttrice di tori – squadroni di cavalleria si precipitano audacemente in battaglia e che, alla confluenza del Nera con il Tevere, reparti cesariani a cavallo scorrazzano barbaramente; e che lo stesso Cesare, trascinando tutte le aquile e le insegne, avanza con numerose schiere a marce forzate. Non lo scorgono come lo ricordavano: si presenta ai loro spiriti più grande, più feroce e più crudele del nemico vinto. Si mormora che gli tengan dietro, strappati alle terre nordiche e alle patrie sedi, i popoli stanziati fra il Reno e le Alpi: a quelle feroci popolazioni è stato ordinato di saccheggiare l’Urbe sotto gli occhi degli stessi Romani. Così ciascuno alimenta con il suo timore le dicerie e tutti temono quel che hanno inventato, senza che vi sia alcunché di vero. E non soltanto il volgo è in preda ad un violento, quanto ingiustificato, terrore, ma anche la curia e gli stessi senatori saltano giù dai loro scanni ed il Senato in fuga affida ai consoli gli ingrati provvedimenti concernenti la guerra. Allora, incerti verso quali luoghi sicuri dirigersi e quali invece, ritenuti pericolosi, evitare, incalzano la turba che fugge disordinatamente là dove l’impeto della rotta spinge ognuno: traboccano lunghe, ininterrotte schiere di cittadini. Crederesti o che sacrileghe fiaccole abbiano appiccato fuoco alle case o che gli edifici, sotto una squassante percossa, siano sul punto di crollare: così la folla, fuggendo come impazzita a precipizio attraverso la città, si precipita fuori sconsideratamente come se l’unica via di scampo alla situazione perigliosa fosse quella di uscire dalle patrie mura.