“Plinio il giovane ricorda una sua orazione in difesa di Giulio Basso”

Causam per hos dies dixit Iulius Bassus, homo laboriosus et adversis suis clarus. Sortitusque Bithyniam rediit reus, accusatus non minus acriter quam fideliter defensus. Egit contra eum Pomponius Rufus, vir paratus et vehemens; Rufo successit Theophanes, unus ex legatis, fax accusationis et origo. Respondi ego. Nam mihi Bassus iniunxerat, totius defensionis fundamenta iacerem, Eundem me voluerat occurrere crimini quo maxime premebatur. Hoc illum onerabat quod homo simplex et incautus quaedam a provincialibus ut amicus acceperat – nam fuerat in eadem provincia quaestor -. Haec accusatores furta ac rapinas, ipse munera vocabat. Sed lex munera quoque accipi vetat. Hic ego quid agerem, quod iter defensionis ingrederer? Negarem? Verebar ne plane furtum videretur, quod confiteri timerem. Praeterea rem manifestam infitiari augentis erat crimen non diluentis, praesertim cum reus ipse nihil integrum advocatis reliquisset. Multis enim atque etiam principi dixerat, sola se munuscula dumtaxat natali suo aut Saturnalibus accepisse et plerisque misisse. Veniam ergo peterem? Iugulassem reum, quem ita deliquisse concederem, ut servari nisi venia non posset. Tamquam recte factum tuerer? Non illi profuissem, sed ipse impudens exstitissem. In hac difficultate placuit medium quiddam tenere: videor tenuisse. Actionem meam, ut proelia solet, nox diremit.

Giulio Basso, personaggio tormentato e noto per le sue disavventure, in questi giorni ha presentato la sua difesa in tribunale. E, ottenuta in sorte la Bitinia, ne ritornò sotto accusa, ed è stato accusato con accanimento non minore della lealtà con cui è stato difeso. Sostenne l’accusa contro di lui Pomponio Rufo, uomo preparato e vigoroso; prese il posto di Rufo Teofane, uno dei legati, istigatore ed origine dell’accusa. Ribattei io: infatti Basso mi aveva conferito l’incarico di gettare le fondamenta dell’intera difesa. Aveva poi voluto che io medesimo affrontassi l’accusa che maggiormente l’opprimeva. Questo pesava su di lui, che cioè, da persona semplice ed incauta, aveva accettato dai provinciali alcuni regali, come (loro) amico: infatti nella medesima provincia era stato questore. Gli accusatori (chiamavano) queste cose furti e rapine, egli le definiva doni. Ma la legge proibisce di accettare anche i doni. A questo punto, che cosa avrei potuto fare? Quale linea difensiva avrei dovuto adottare? Dovevo negare? Avevo il timore che ciò che esitavo ad ammettere apparisse fuor di dubbio una ruberia. Oltre a ciò contestare un fatto manifesto era piuttosto proprio di chi aggrava un’accusa che di chi cerca di sminuirla, tanto più che l’accusato stesso non aveva lasciato ai (suoi) difensori nulla di concreto. Infatti egli aveva raccontato a molti, ed anche all’imperatore, di avere accettato unicamente dei piccoli doni, e unicamente al compleanno o ai Saturnali, e di averne inviati ai più. Avrei dovuto chiedere perdono? Avrei tagliato la gola all’imputato, che avrei ammesso aver commesso colpe tali da non poter essere salvato che dal perdono. Dovevo difenderlo come se si fosse comportato legittimamente? Non gli avrei giovato, ed sarei risultato io stesso impudente. In questa difficoltà, decisi di tenermi in un certo modo nel mezzo: mi pare di essermici tenuto.
La notte interruppe il mio discorso, come suole (interrompere) le battaglie