Guerra e pace tra Romani e Sabini

Novum bellum a Sabinis in Romanos geritur, neque prius indicitur quam committitur. Dolus enim consilio additur: Sp. Tarpeio, duci Romanae arcis, filia erat virgo, nomine Tarpeia. Tatius Sabinus rex Tarpeiam auro corrumpit et armatis arcem capit. Tarpeia a Sabini mercedem petit armillas aureas gemmatosque anulos, quos in laevo brachio habebant, sed Sabini virginem scutis, quae laevo brachio gerunt, obruunt atque interficiunt. Sabini arcem tenent, Romani iniquo loco pugnare coguntur. Tunc Romulus rex cum globo animosorum iuvenum Mettium Curtium, Sabinorum principem, petit ac fundit. Sabini autem in media convalle duorum montium redintegrant proelium: acriter cruenteque pugnatur. Tum Sabinae mulieres, quod bellum propter iniuriam ludorum gerebatur, inter gladios ac tela se interponunt ac supplices orant uno tempore patres et viros: “Si adfinitatem inter vos recusatis, si conubium reicitis, in nos vertite iras; nos a causa belli, nos causa vulnerum ac caedium viris ac parentibus sumus; e vita excedemus potius quiam sine alteris vestrum viduae aut orbae vivemus”. Et multitudo militum et duces commoventur; duces tandem non solum bellum componunt, sed etiam regnum consociant et civitatem unam ex duabus faciunt.

Dai Sabini viene mossa una nuova guerra contro i Romani e, prima di essere attaccata, non viene dichiarata. Infatti alla decisione si aggiunge un inganno: Spurio Tarpeo, capo della roccaforte romana, aveva una figlia vestale, di nome Tarpea. Il re sabino Tazio corrompe col denaro Tarpea e con milizie armate conquista la roccaforte. Tarpea chiede ai Sabini come ricompensa i braccialetti d’oro e gli anelli ricoperti di gemme, che portavano sul braccio sinistro, ma i Sabini soffocano la ragazza con gli scudi, che avevano con sé nel braccio sinistro, e l’ammazzano. I sabini occupano la rocca, i Romani sono costretti a combattere in una posizione sfavorevole. Allora re Romolo con un manipolo di giovani coraggiosi si dirige da Mezio Curzio, capo dei Sabini, e lo sconfigge. Ma i Sabini in mezzo ad una valle comune tra due montagne riprendono il combattimento: si combatte duramente e sanguinosamente. Allora le donne sabine, poiché la guerra era mossa a causa dell’offesa dei “ludi”, si intromisero tra le spade e i dardi e come supplici pregano contemporaneamente padri e mariti: “Se rifiutate una parentela tra di voi, se respingete un’unione, abbattete contro di noi le ire; noi siamo motivo di guerra, motivo di ferite e di uccisioni per i mariti e parenti; moriremo piuttosto che vivere da vedove o orfane senza uno di voi”. Sia la moltitudine dei soldati sia i comandanti si commuovono; infine i comandanti non soltanto pongono fine alla guerra, ma mettono in comune il regno, e da due popoli ne creano uno solo.

“Le oche del Campidoglio”

Galli Romanos in proelio vincunt, deinde Romam properant atque cives profligant et fugant. Inde Capitolium, urbis arcem, obsidione claudunt. A paucis Romanorum civibus eximia virtute Capitolium tenetur. Per noctis silentia Galli montis ascensionem temptant et in Capitolii rupem scalis adventant. Omnes homines dormiunt sed non omnia animalia: nam vigiles anseres, deae Iunoni sacri, alto clangore et alarum iactione Marcum Manlium, Capitolii custodem, e somno excitant. Romanus vir hostes amovet et de rupe praecipitat. Ita a Iunonis avibus urbs servatur. Postea anserem argenteum Romani in Capitolio collocant et ab omnibus civibus Manlio honor tribuitur.

I Galli vincono in battaglia i Romani, poi si dirigono in fretta a Roma e sbaragliano e mettono in fuga i cittadini. Quindi cingono d’assedio il Campidoglio, rocca della città. Il Campidoglio è difeso da pochi cittadini Romani con straordinario valore. I Galli tentano la scalata durante i silenzi della notte e si avvicinano alla rupe del Campidoglio con le scale. Tutti gli uomini dormono ma non tutti gli animali: infatti le vigili oche, sacre alla dea Giunone, con un forte schiamazzo e l’agitazione delle ali svegliano Marco Manlio, custode del Campidoglio. L’uomo romano respinge i nemici e li getta giù dalla rupe. Così la città è salvata dagli uccelli di Giunone. In seguito i Romani pongono un’oca d’argento sul Campidoglio e da tutti i cittadini è tributato onore a Manlio.

Epitome de Tito Livio, I, 1 (12-13)

12 – Sed cum pari robore frequentibus proeliis utrique comminuerentur, misso in compendium bello, Horatiis Curiatiisque, trigeminis hinc atque inde fratribus, utriusque populi fata permissa sunt. Anceps et pulchra contentio exituque ipso mirabilis. Tribus quippe illinc volneratis, hinc duobus occisis, qui supererat Horatius addito ad virtutem dolo, ut distraheret hostem, simulat fugam singulosque, prout sequi poterant, adortus exsuperat.
13 – Sic rarum alias decus unius manu parta victoria est, quam ille mox parricidio foedavit. Flentem spolia circa se sponsi quidem, sed hostis, sororem viderat. Hunc tam inmaturum amorem virginis ultus est ferro. Citavere leges nefas, sed abstulit virtus parricidam et facinus infra gloriam fuit. Nec diu in fide Albanus.

12 – Ma poiché con pari forza si erano indeboliti in frequenti battaglie, fu deciso di concludere la guerra con un compromesso: fu affidato ai tre fratelli Orazi, da una parte, e ai tre fratelli Curiazi, dall’altra, il destino dei rispettivi popoli. Fu una contesa incerta e bellissima, con un esito che suscitò meraviglia. Infatti, mentre tre degli Orazi erano feriti, due dei Curiazi erano morti, e Orazio, l’unico rimasto, per raggiungere la vittoria, mise in atto un inganno, simulando la fuga e attaccando poi i nemici singolarmente, quando questi cercavano di inseguirlo.
13 – Così, la vittoria, che era stata conquistata con una sola mano, divenne una gloria effimera, quando Orazio la macchiò poco dopo con un atto di parricidio. Egli vendicò con la spada la sorella, che piangeva intorno ai trofei del suo fidanzato, ma che aveva visto il nemico. Anche se la legge condannava tale crimine, la virtù di Orazio superò tale ingiustizia e il suo crimine rimase al di sotto della sua gloria. Tuttavia, non molto tempo dopo, l’Albano si dimostrò infedele alla sua alleanza.

Liberalità dell’ateniese Cimone

Fuit Cimon, Miltiadis filius, Atheniensis tanta liberalitate, cum compluribus locis praedia hortosque haberet, ut numquam in eis custodem posuerit fructus servandi gratia, ne quis impediretur, quo minus eius rebus quibus quisque vellet frueretur. Semper eum pedisequi cum nummis sunt secuti, ut, si quis opis eius indigeret, haberet quod statim daret, ne differendo videretur negare. Saepe, cum aliquem offensum forte fortuna videret minus bene vestitum, suum amiculum dedit. Cotidie sic cena ei coquebatur, ut, quos invocatos vidisset in foro, omnes ad se vocaret, quod facere nullo die praetermittebat. Nulli fides eius, nulli opera, nulli res familiaris defuit; multos locupletavit, complures pauperes mortuos, qui unde efferrentur non reliquissent, suo sumptu extulit. Sic se gerendo minime est mirandum, si et vita eius fuit secura et mors acerba.

Cimone, figlio di Miltiade, ateniese, fu di una tale liberalità che, avendo molte proprietà e giardini in diverse località, non ha mai messo un custode per la loro conservazione, al fine di non impedire a nessuno di godere delle cose che gli appartenevano. Lo seguivano sempre alcuni servitori con denaro, in modo che se qualcuno avesse bisogno del suo aiuto, avesse subito qualcosa da dare, per evitare che sembrasse di negare aiuto ritardando. Spesso, se vedeva qualcuno sfortunato e vestito male, gli dava il suo mantello. Ogni giorno cucinava cena in modo tale che, vedendo chiunque fosse in piazza, li invitava tutti a casa sua, cosa che non mancava mai di fare. Nessuno fu mai tradito da lui, nessuno fu mai ignorato da lui, e aiutò molti a diventare ricchi e sollevò molti poveri che, quando morirono, non avevano lasciato nulla per il loro funerale, a proprie spese. Con un comportamento del genere, non è affatto sorprendente che la sua vita sia stata felice e la sua morte amara.

Il re Codro

Ultimus Athenarum rex fuit Codrus, Melanthi filius, vir memorabilis rara virtute. A Lacedaemoniis gravi bello premebantur Attici et eorum regio ferro ignique vastabatur. Quare Athenienses Apollinem Pythium interrogaverant et deus sic responderat: “Victorum dux ab hoste occidetur”. Cum responsum cognovit, Codrus deposuit vestem regiam, cultum pastoralem induit et se immiscuit hostibus in castris. Ibi rixam de industria suscitavit et, quia imprudenter agebat, hostes eum occiderunt. Tali modo Codrus sua morte Atheniensibus victoriam dedit et sibi immortalem gloriam obtinuit.

Ultimo re degli Ateniesi fu Codro, figlio di Melanto, un uomo memorabile per la sua rara virtù. Gli Ateniesi erano oppressi duramente nella guerra dai Lacedemoni e la loro regione era devastata dal ferro e dal fuoco. Perciò gli Ateniesi consultarono Apollo Pizio e il dio rispose così: “Il leader dei vincitori sarà ucciso dal nemico”. Quando Codro apprese la risposta, depose gli abiti reali, indossò l’abito di un pastore e si mescolò tra i nemici nel loro accampamento. Lì provocò una rissa di proposito e, poiché agiva in modo imprudente, i nemici lo uccisero. In questo modo, con la sua morte, Codro diede la vittoria agli Ateniesi e ottenne per sé una gloria immortale.

“Gli uomini primitivi” (2)

Priscis hominibus nec domus nec certae sedes erant: ii enim in obscuris speluncis vitam agebant ubi sibi tutum refugium parabant a fulminibus, ab imbrium vi atque hiemis algoribus. Aestivis noctibus in specubus vel sub procerarum quercuum ramis quiescebant; quod ferarum impetus et serpentium insidias reformidabant, interdum etiam in arborum ramis somnum capiebant. Feram agrestemque vitam agebant quia nec agriculturae studebant nec mercaturam exercebant; cotidie enim per silvas saltusque errabant, piscibus vel beluarum carne vel terrae fructibus vel quercuum glandibus famem sedabant. Nullum vestitum gerebant sed corpora ferarum pellibus tegebant. Postea paulatim homines tam ferum vitae genus reliquerunt: nam, procedente tempore, casas parvasque domos fluminibus vel lacubus proximas aedificaverant, agros colere et greges pascere didicerant. Deinde primos vicos constituerant et eos armis cuncti a beluarum incursu et ab hostium tribuum insidiis protegebant.

Gli uomini primitivi non avevano né case né sedi fisse: essi, infatti, vivevano in buie caverne dove si procuravano un sicuro rifugio dai fulmini, dalla violenza delle piogge e dai freddi dell’inverno. Nelle notti d’estate dormivano nelle caverne o sotto i rami di alte querce; poiché temevano gli attacchi delle belve e l’agguato dei serpenti, talvolta si addormentavano anche sui rami degli alberi. Conducevano una vita selvaggia e agreste, poiché non si dedicavano all’agricoltura né praticavano il commercio; infatti ogni giorno vagavano per i boschi e per le gole, placavano la fame con pesci o con la carne di animali o con i frutti della terra o le ghiande delle querce. Non portavano alcun indumento ma coprivano i corpi con le pellicce degli animali. Poi, a poco a poco, gli uomini abbandonarono una condotta di vita tanto selvatica: infatti, col passare del tempo, avevano costruito case e piccole abitazioni vicine ai fiumi o ai laghi, avevano imparato a coltivare i campi e a pascolare le greggi. Poi avevano costituito i primi villaggi e tutti li proteggevano con le armi dall’attacco degli animali e dall’agguato delle tribù nemiche.

“La vita degli uomini primitivi”

Pristini homines agrorum cultum non exercebant, sed terrae fructus manibus carpebant, agrestium animalium carnem et beluarum pelles arcubus sagittisque sibi parabant. Domos non aedificabant, itaque in recessibus, procul a ferarum incursionibus, dormiebant. Aliquando hostium fulminumque metu in obscuris specubus nocte quiescere praeoptabant. Temporis decursu homines vitam mutaverunt: agros colere ac animalia educare inceperunt vicosque in locis fluminibus vel lacubus proximis condiderunt. Neque leges neque magistratus habebant, sed in tribubus patres omnes discordias iudicabant.

Gli uomini antichi non praticavano la coltivazione dei campi, ma prendevano con le mani i frutti della terra, si procuravano la carne degli animali selvatici e, con archi e frecce, le pelli delle fiere. Non costruivano case, e così dormivano in rifugi, lontano dagli assalti delle bestie feroci. Talvolta, per paura dei nemici e dei fulmini, preferivano riposare di notte in oscure caverne. Con il passare del tempo gli uomini cambiarono vita: cominciarono a coltivare i campi e allevare gli animali e fondarono i villaggi in luoghi vicini ai fiumi e ai laghi. Non avevano leggi nè magistrati ma, all’interno delle tribù, gli anziani giudicavano le controversie.

“Sosia il contadino”

Tranquillus vivebat in agris Sosia, magnae patientiae industriaeque agricola. Aestate cotidie prima luce laborare incipiebat, nec ante noctem in studio suo cessabat. Filii auxilium patri dabant nec in agro opus erat eis molestum. Meridie filiae prandium in agrum ferebant. Nocte ad villam suam omnes revertebant. Hieme saepe Sosia, uxor, filii et filiae ante culinae focum manebant et pater pulchras fabulas narrabat. Sosiae familia sine curis vivebat nec fortunam adversam timebat.

Sosia, contadino di grande pazienza ed energia, viveva tranquillo nei campi. Ogni giorno d’estate cominciava a lavorare alle prime luci (dell’alba) e non indugiava nel suo impegno prima di notte. I figli davano aiuto al padre ma il lavoro nel campo era per loro fastidioso. A mezzegiorno le figlie portavano il pranzo nei campi. Di notte tutti ritornavano alla sua casa di campagna. In inverno spesso Sosia, la moglie, i figli e le figlie restavano davanti al focolare della cucina e il padre raccontava piacevoli favole. La famiglia di Sosia viveva senza preoccupazioni e non temeva l’avversa sorte.

“Valicare le Alpi: una missione possibile”

Hannibal, Carthaginiensium imperator, post longum et difficile iter ab hispania per galliam, ad Alpes cum militibus suis perveniebat. Magna nivis copia in editis montibus erat et omnes milites, iam gravibus laboribus fessi, novas difficultates novaque pericula timebant: multi etiam iter pergere recusabant. Tum Hannibal ex Alpium cacumine pulchras Italiae terras atque locupletes urbes militibus suis ostendebat et sic animos adflictos recreabat. Postridie profectionis signum dabat: fortis ducis imperio omnes obtemperabant. Sed locorum asperitate atque frigore nonnulli in itinere mortem inveniebant. Nix enim omnia tegebat et homines et elephanti cum gravibus sarcinis in altas voragines praecipitabant. Iam omnes de salute desperabant, sed Hannibalis animum nec preces nec lacrimae movebant. Tum milites omnibus viribus iter a nive purgabant et superstites denique in Italiam descendebant.

Annibale, comandante supremo dei Cartaginesi, dopo un lungo e difficile viaggio dalla Spagna attraverso la Gallia, giugeva alle Alpi con i sui soldati. C’era grande quantità di neve nei monti elevati e tutti i soldati, già stanchi per le grandi fatiche temevano nuove difficoltà e nuovi pericoli: molti anche rifiutavano di proseguire il cammino. Allora Annibale mostrava dalla cima delle Alpi le belle terre dell’Italia e le ricche città ai suoi soldati così rianimava gli animi afflitti. Il giorno dopo dava il segnale della partenza: tutti obbedivano al comando del forte comandante. Ma per il cattivo stato dei luoghi ed il freddo, nel viaggio molti trovavano la morte. La neve infatti nascondeva ogni cosa e gli uomini e gli elefanti con bagagli pesanti precipitavano in profonde voragini. Ormai tutti non avevano speranza nella salvezza, ma né le suppliche né le lacrime commuovevano l’animo di Annibale. Allora tutti i soldati ripulivano il tragitto dalla neve e i superstiti infine scendevano in Italia.

“Malinconica fine di una carriera politica”

In Cornelia gente P. Cornelius Scipio valde clarus fuit, et eloquentia et litterarum studiis et virtute militari. Scipio patri in Hispania adhuc iuvenis successit. Hic Hasdrubalem vicit et Carthaginienses paravit. Tum Carthaginienses mox Hannibalem ducem ex Italia revocaverunt. Apud Zamam, Numidiae urbem, legiones Romanorum splendidam victoriam comparaverunt et Chartaginiensium vires omnino deleverunt. At magnae victoriae praemia non percepit infelix Scipio. Nam multi inter patres conscriptos Scipionem repetundarum accusaverunt. Tum Scipio a publicis negotiis secessit et Literni, in Campana villa, vitam tranquillam ac quietam traduxit. Splendidis facinoribus in Africae terris cognomen Africanum meruit Scipio.

Tra la gens Cornelia Cornelio Scipione fu molto famoso, sia per eloquenza che per studi di letteratura e valore militare. Scipione successe ancora giovane al padre in Spagna. Egli vinse Asdrubale e prese accordi con i Cartaginesi. Allora i Cartaginesi subito richiamarono Annibale dall’Italia. Presso Zama, città della Numidia, le legioni romane ottennero una splendida vittoria e distrussero completamente le forze cartaginesi. Ma lo sfortunato Scipione non prese i premi della grande vittoria. Infatti molti tra i senatori accusarono Scipione di concussione. Allora Scipione si allontanò dai pubblici affari e si ritirò a Literno, nella villa campana, alla vita tranquilla e quieta. Scipione per le splendide imprese nelle terre d’Africa meritò il soprannome di Africano.

“La morte di Marco Aurelio”

Imperator Marcus Aurelius, cum bellum gereret cum Marcomannis, Sarmatis Quadisque, gentibus barbaris bellicosisque, imperio Romano admodum infestis, in castris apud Vindobonam gravi morbo oppressus est. Cum vis morbi augeret, filium Commodum advocavit atque monuit ut bellum continuaret ne proditor rei publicae a civibus existimaretur. Sed filius, vir animi turpis ignavique, qui officio incolumitatem suam anteponebat, consilia paterna neglexit. Ad amicos qui deplorabant eius calamitatem, Marcus Aurelius, qui res humanas irridebat atque mortem contemnebat, dixit: «Cur de fortuna mea fletis et non magis de pestilentia et communi periculo cogitatis?». Deinde abstinuit victu potuque, mortem maturare optans. Milites quoque, postquam de imperatoris mala valetudine cognoverant, vehementer dolebant, quia eum unice amaverant. Septimo die, cum morbus ingravesceret, in tabernaculum solum filium admisit, sed statim dimisit, ne eum contagione corrumperet. Cum filium dimisisset, caput operuit et media nocte animam efflavit.

L’imperatore Marco Aurelio, mentre combatteva contro i Marcomanni, i Sarmati e i Quadi, popolazioni barbare e bellicose, molto pericolose per l’impero Romano, nell’accampamento nei pressi di Vindobona venne colpito da una grave malattia. Poiché la violenza del morbo si aggravava, convocò il figlio Commodo e lo incitò a continuare la guerra per non essere considerato dai cittadini un traditore dello Stato. Ma il figlio, uomo dall’indole ignobile e vile, che anteponeva al dovere la propria incolumità, trascurò i consigli paterni. Agli amici che deploravano la sua disgrazia, Marco Aurelio, che irrideva le vicende umane e disdegnava la morte, disse: «Perché piangete per la mia sorte e piuttosto non pensate al contagio e al pericolo comune?». Poi si astenne dal cibo e dalle bevande, desiderando accelerare la morte. Anche i soldati, dopo aver saputo dell’infermità dell’imperatore, erano molto addolorati, perché lo avevano amato straordinariamente. Il settimo giorno, poiché la malattia si aggravava, accolse nella tenda solo il figlio, ma lo congedò subito, per non nuocergli con il contagio. Dopo aver allontanato il figlio, si coprì il capo e morì a mezzanotte.

“Mercurio e Vulcano”

Cum multis aliis diis antiqui Graeci et Romani Mercurium et Vulcanum colebant. Mercurius deus viarum et mercaturae, divitiarum et furti erat. Multa erant officia Mercurii: in Olympo mensas deorum parabata et epulas ministrabat. Quia nuntius erat, portabat in terram dicta, mandata, iussa deûm. Magnā virgā umbras mortuorum ad Inferos adducebat Mercurius. Non solum amabat palaestras et ludos, sed etiam mercaturam et eloquentiam et iucundum sonum lyrae. Vulcanus faber erat, cum suis operaiis in officina Aetnae vivebat, ubi metalla tractabat, arma et scuta diis fabricabat.

Gli antichi Greci e Romani adoravano di pari passo con le altre divinità Mercurio e Vulcano. Mercurio era il dio delle vie e del commercio, della ricchezza e del furto. Molti erano i compiti di Mercurio: preparava nell’Olimpo le mense degli dèi ed organizzava il banchetto. Dato che era l’ambasciatore, portava sulla terra le parole, gli incarichi, gli ordini degli dèi. Mercurio con una grande verga trascinava agli inferi le ombre dei morti. Non amava solo le palestre ed i giochi, ma anche il commercio, l’eloquenza ed il piacevole suono della lira. Vulcano era un fabbro, viveva con i suoi operai nell’officina dell’Etna, dove lavorava i metalli, fabbricava gli scudi e le armi per le divinità.

“Le matrone romane”

Mulierum quoque virtutes reipublicae Romanorum profuerunt et in secundis et in adversis rebus. Nam Romanae matronae semper dignas se praebuerunt fide atque existimatione omnium civium. Castae et temperantes domi vivebant, labori et familiae intentae, earumque praecipua laus haec fuit: prudenter et parce rem familiarem genere et liberis maritisque inservire. In adversis quoque rebus, fidei ac pietatis erga patriam insigna et varia exempla ediderunt. Secundo bello Punico enim, post Cannensem cladem, cum salutis spes iam non erat, matronae Romanae omnes ornatus aureos reipublicae donare non dubitaverunt. Ita senatus Romanus exercitui commeatus suppeditare potuit. Ita mulierum quoque vitrutes rempublicam Romanam servaverunt.

Anche le virtù delle mogli della repubblica dei Romani giovano sia nelle circostanze favorevoli che avverse. Infatti le matrone romane sono degne della fiducia e stima di tutti i cittadini. Vivevano caste e moderate in casa, intente al lavoro e alla famiglia, e il loro pregio principale fu questo: servire prudentemente e parcamente la famiglia, i figli e il marito. Anche nelle circostanze avverse, diedero nobili esempi di fede e rispetto nei confronti della patria. Infatti durante la seconda guerra punica, dopo la sconfitta di Canne, quando non c’era più speranza di salvezza, le matrone romane non dubitarono di donare tutti gli ori (di cui erano ornate) alla repubblica. Così il senato romano potè fornire le vettovaglie all’esercito. Così anche le virtù delle donne salvarono lo stato romano.

“Governanti e governati”

Semper primores, qui civitatibus praesunt, debent curare ut prosint civibus sui nec cuiquam in civitate sua obsint. Nam inter bonum et malum civitatis rectorem hoc interest quod alter commoda civium procurat, alter sibi ipsi prodesse studet. Boni cives autem, etiam cum a patria absunt, ei prodesse student et inter externas gentes bonam famam suae civitatis servare omni ratione curant. Cum autem in patria sunt, numquam suis officiis desunt, semper illis, qui legitimis magistratibus praesunt, obtemperant. Etiam imperatores efficere debent ut patriae et civibus suis prosint neque umquam officio,quod militibus praestare debent,desint. Caesar semper in acie cum militibus aderat: nunc peditibus cohortatione et exemplo proderat, nunc inter equites pedes certabat, semper rebus dubiis et periculis intererat ne ulli sua praesentia deesset sed in omnium animis fiducia ducis inesset

Sempre i primi, che sono a capo delle città, devono preoccuparsi di giovare ai loro concittadini e di non nuocere a nessuno nella loro città. Infatti tra il buono ed il cattivo governatore di città c’è questa differenza, che l’uno provvede alla felicità dei cittadini, l’altro aspira a giovare a se stesso. Invece i buoni cittadini, anche quando sono lontani dalla patria, desiderano giovare ad essa e tra le popolazioni straniere si dedicano a conservare la buona reputazione della loro città in ogni modo. D’altra parte, quando sono in patria, non vengono mai meno ai loro doveri, obbediscono sempre a coloro che sono a capo delle magistrature. Anche i comandanti devono agire in modo tale da giovare alla patria ed ai loro concittadini e da non venire mai meno al dovere, che devono assicurare ai soldati. Cesare era sempre presente in linea di battaglia con i soldati: ora giovava ai fanti con l’esortazione e l’esempio, ora combatteva da fante tra i cavalieri, partecipava alle situazioni dubbie ed ai pericoli affinché a nessuno mancasse la sua presenza, ma negli animi di tutti ci fosse fiducia verso il comandante.

“Annibale, grande nemico di Roma”

Hannibal, magnus Romae hostis, etiam puer aeternum odium contrae Romanos iuravit. Pater Hamilcar eum in Hispaniam duxit, ubi Hannibal, iam adulescens, militum imperium sumpsit et Romanis bellum indixit. Deinde cum multis elephantis in Italiam per Alpium montes venit. In paeninsula nostra Carthaginiesium dux audacia sua etiam atque Romanis magnas clades paravit, sed postea Capuam tendit, ubi inertia virtutem militium eius enervavit. Plurimae victoriae Punicorum senatorum invidiam Hannibali comparaverunt: quare ii in patriam eum revocaverunt. Tum Hannibal in Africam classe revertit, ubi Scipio, Romanorum strenuus dux, eum profligavit.

Annibale, grande nemico di Roma, ancora bambino giurò odio eterno verso i Romani. Il padre Amilcare lo portò in Spagna, dove Annibale, ormai adolescente, assunse il comando dei soldati e dichiarò guerra ai Romani. Quindi con molti elefanti arrivò in Italia attraverso i monti delle Alpi. Nella nostra penisola il comandante dei Cartaginesi con la sua audacia procurò ai Romani anche e più volte grandi disfatte, ma in seguito si stabilì a Capua, dove per l’inattività dei soldati fiaccò il loro ardore bellico. Le numerose vittorie procurarono ad Annibale l’invidia dei senatori cartaginesi: perciò essi lo richiamarono in patria. Allora Annibale riportò la flotta in Africa, dove Scipione, valoroso comandante dei Romani, lo sconfisse.

“Le guerre civili”

Marius, Sulla, Caesar, Pompeius certe magni viri fuerunt acie ingenii et gloria belli, sed potentiae cupidine et mutuis simultatibus innumeros luctus ac denique perniciem rei publicae paraverunt. Post nova instituta mariana milites evaserunt; iam non rei publicae magistratibus parebant et fidem servabant suis tantum imperatoribus, spe magni stipendii et copiosae praedae. Sulla duris legibus et crudelibus proscriptionibus iras et cupiditates excitavit; multi enim rem familiarem aut vitam amiserunt, alii indiciis et impunitate ingentes divitias comparaverunt. Tantis malis nulla remedii spes erat. In rebus adversis amicorum fides dubia erat; propinqui propinquos spe lucri accusabant; boni cives peribant, homines perdit rem familiarem scelere augebant.

Mario, Silla, Cesare, Pompeo furono sicuramente grandi uomini per acutezza di ingegno e vittorie militari, ma per brama di potere e rivalità reciproche cagionarono innumerevoli lutti e infine la rovina dello stato. Dopo la le nuove regole introdotte (nell’esercito) da Mario, i soldati sfuggirono (al controllo); ormai non obbedivano ai magistrati della repubblica e rimanevano fedeli solo ai loro comandanti, nella speranza di una ricca paga e di abbondante bottino. Silla, con leggi severe e crudeli proscrizioni, accese gli odi e le avidità; molti, infatti, persero i patrimoni o la vita, altri si procurarono immense ricchezze con le delazioni e l’impunità. Non vi era alcuna speranza di rimedio a tanto grandi sciagure. La lealtà degli amici, nelle disgrazie, non era sicura; i parenti denunciavano i parenti nella speranza di guadagno; morivano i cittadini onesti; gli uomini perversi si arricchivano con il crimine.

“Un tiranno saggio”

Solon in magna veneratione apud Athenienses erat: etenim insigni prudentia Athenas administraverat populique postulatu novas dederat leges. Is, ut concordiam rei publicae restitueret, civium discordias composuerat. Postea urbem reliquit, in Aegyptum Cyprumque navigavit et post longa itinera per Asiae oppida domum remeavit. Interim Pisistratus, civis dives et callidus, Athenarum principatum optabat et saepe dolosis verbis corporis custodes petiverat. Solon autem, ut patriae libertas servaretur, populum de occultis Pisistrati consiliis monuerat, iterumque civibus dixerat: << Si Pisistratus corporis custodes obtinuerit, tyrannidem Athenis instituet >>. Athenienses vero, Solonis consiliorum immemores rerumque novarum cupidi, Pisistrati precibus postulationibusque annuerunt. Ita Pisistratus cum paucis sociis dolo arcem occupavit tyrannidemque Athenis instituit. Ille tamen sapiens fuit: ut Athenae illustrarentur, ab eo magnificis aedificiis ornatae sunt multaque templa e marmore aedificata sunt. Praeterea Pisistrati ductu agricultura, industria atque mercatura summopere viguerunt. Athenis, in magnifica domo, occubuit urbisque principatum filiis reliquit.

Solone era presso gli Ateinesi in grande venerazione: poichè aveva amministrato Atene con insigne prudenza e aveva dato nuove leggi a richiesta del popolo. In seguito lasciò la città, navigò in Egitto e Cipro e dopo un lungo vaggio per le città dell’Asia, tornò in patria. Nel frattempo Pisistrato, cittadino ricco e furbo, chiese il principato degli Ateniesi e spesso chiese le guardie del corpo con dolose parole. Solone tuttavia, affinchè la libertà della patria fosse salva, aveva ammonito il popolo sui segrati piani di Pisistrato, e spesso diceva ai cittadini: “Se Pisistrato otterrà le guardie del corpo, istituirà la tirannide ad Atene”. Gli Ateniesi in verità, immemori dei consigli di Solone e desiderosi di cose nuove, annuirono alle preghiere e richieste di Pisistrato. Così Pisistrato occupò la rocca e instituì ad Atene la tirannide. Quello tuttavia fu saggio: per rendere celebri le cose di Atene, furono ornati da quello con magnifiche opere e furono edificati molti tempi di marmo. Inoltre sotto il comando di Pisistrato l’agricoltura, l’industria e il commercio rinvigorirono grandemente. Ad Atene, nella magnifaca casa, morì e lasciò il principato della città al figlio.

“Un medico straordinario”

Aesculapius in Graecia vitam degebat et medicinam cum diligentia exercebat. Ad aesculapium lapium totum annum magna aegrotorum turba veniebat et medicamenta magna cum pertinacia petebat. Aesculapius non solum morbos summa peritia curabat, sed interdum etiam mortuos in vitam revocabat mira sua scientia. Sed hoc dis displicebat, quia vir naturae ordinem turbabat. Tum Iuppiter inverecundum medicum punire statuit et ignea saggitta occidit.

Il medico Esculapio viveva in Grecia ed esercitava diigentemente l’arte medica. Per tutto l’anno una gran folla di malati, con molti fanciulli e vecchi, si recava da Esculapio, e chiedeva le sue sue cure. Esculapio non solo curava le malattie con grandissima perizia, ma talora, richiamava anche in vita i morti, con la sua mirabile scienza. Ma ciò riusciva sgradito agli dei, poichè l’uomo sconvolgeva l’ordine della natura. Allora Giove decise di punire lo spudorato medico e lo uccise con una saetta infuocata.

“Da fabbro a imperatore”

Brevissium imperium Marii, viri robustissimi ac strenuissimi ducis, fuit. Tradunt interemptorem, dum eum mortifere vulnerat, exclamavisse: “Hic est gladius quemipse fecisti”. Marii imperatoris contio prima talis fuit: “Scio, commilitones, posse mihi obici artem pristinam. Sed dicat quisque quod vult. Ego tamen malo ferrum exercere quam luxuria corrumpi, ut alii imperatores. Vos fecistis imperatorem me qui numquam quiquam scivi tractare nisi ferrum; faciam igitur ut omnes Germani ceteraeque nationes imperio Romano finitimae, pluribus cladibus acceptis, putent populum Romanum ferratam gentem esse”.

Fu un brevissimo impero quello di Mario, uomo assai forte e strenue comandante. Si narra che l’assassino mentre lo aveva ferito a morte, abbia affermato: “Questa è la spada che lui stesso fece”. La prima arringa del comandante Mario fu la seguente: “Lo so, o compagni d’armi, di proporre l’arte antica. Ma ognuno sostenga ciò che vuole. Tuttavia io preferisco usare la spada che esser corrotto dalla lussuria, come altri comandanti. Voi mi avete eletto comandante che mai ho saputo trattare cosa alcuna se non con la spada, farò dunque in modo che tutti i Germani e le altre nazioni confinanti all’impero romano, ricevute molte sconfitte, ritengano che il popolo romano sia un popolo armato di ferro.

“Ottaviano signore unico di Roma”

Post Caesaris necem Octavianus claris operibus vitaeque integritate civium romanorum admirationem exercitabat. Marcus Antonius Alexandriae domicilium constituerat atque molliter vivebat cum Cleopatra, Aegypti regina. Praeterea, Cleopatrae amore atque impulsu, interitum parabat Romano imperio. Senatus igitur, Octaviani hortatu, bellum indixit Antonio Aegyptique reginae. Ideo mense Septembri in sinu maris Actiaci, duumvirorum copiae bellum navale gesserunt. Exercitus classesque pares erant magnaque cum virtute pugnaverunt. Belli exitus adhuc anceps erat, sed subito Cleopatra veloci navigio domum remeavit. Tunc Antonius, imperatoris officii immemor, ad Alexandriam velificavit. Octavianus magna cum celeritate in Aegyptum contendit. Post aemuli mortem, Romam properavit cum ingenti captivorum numero.

Dopo l’assassinio di Cesare Ottaviano suscitava l’ammirazione dei cittadini romani con opere famose e con l’onestà della (sua) vita. Marco Antonio aveva stabilito il domicilio ad Alessandria e viveva fiaccamente con Cleopatra, regina d’Egitto. Da allora, per amore e per incitamento di Cleopatra, preparava la distruzione dell’impero romano. Perciò il senato, per consiglio di Ottaviano, dichiarò guerra ad Antonio e alla regina d’Egitto. Percui nel mese di Settembre nel golfo del mar di Azio, le milizie nemiche combatterono una guerra navale. Gli eserciti e le flotte erano pari e combatterono con grande valore. L’esito della guerra fu lungamente incerto ma all’improvviso Cleopatra con un’imbarcazione veloce ritornò a casa. Allora Antonio, dimentico del suo incarico di comandante, navigò verso Alessandria. Ottaviano con grande velocità si diresse in Egitto. Dopo la morte del nemico, si affrettò verso Roma con un grande numero di prigionieri.

“Ottaviano e Antonio: scontro finale”

Exercitus classesque pares erant militumque manus magna cum virtute pugnaverunt. Belli exitus adhunc anceps erat, sed subito Cleopatra pugnae locum reliquit ac veloci navigio domum remeavit. Tunc Antonius, imperatoris officii immemor, ab Actiaci maris oris Alexandriam velificavit. Post Cleopatrae Antonique fugam, octavianus magna cum celeritate in Aegyotum contendit. Post aemuli mortem, Romam properavit cum ingenti captivorum numero. Romani cives victoris triumphum magnis plausibus honoribusque celebraverunt.

L’esercito e la flotta erano equivalenti e combattevano con grande virtù. Fin qui l’esito della battaglia era incerto, ma subito Cleopatra lasciò il luogo della battaglia e con delle barche veloci remò verso casa. Quindi Antonio, immemore del dovere di comandante, veleggiò dalle bocche del mare di Azio ad Alessandria. Dopo la fuga di Antonio e Cleopatra, Ottaviano con grande velocità si diresse in Egitto. Dopo la morte del nemico, si affrettò verso Roma con un grande numero di prigionieri al seguito. I cittadini di Roma celebrarono il trionfo del vincitore con grandi applausi e onori.

“La battaglia navale tra Ottaviano e Antonio” (“La battaglia di Azio”)

Post crebas contentiones Octavianus et Antonius foedus patraverunt: Octavianus Italiam Hispaniamque obtinuit, Antonio Orientes regionum imperium contigit. Antonius Alexandriae domicilium constituerat et cum Cleopatra, Aegypti regina, molliter vivebat. Praeterea, Cleopatrae amore atque impulsu, Romano imperio interitum parabat. Senatus igitur, Octaviani hortatu, bellum duumvirum copiae bellum navale gesserunt; exercitus classesque pares erant magnaque cum virtute pugnaverunt. Belli exitus diu anceps fuit, sed subito Cleopatra veloci navigio fugam occupavit et domum remeavit. Tunc Antonius quoque, imperatoris officii immemor, Alexandriam velificavit. Desertoris Antonii militibus, victis animoque fractis, Octavianus vitam veniamque promisit.

Dopo aspre contese Ottaviano ed Antonio stipularono un’alleanza: Ottaviano ottenne l’Italia e la Spagna, ad Antonio toccò il comando delle regioni dell’Oriente. Antonio aveva stabilito la sua sede ad Alessandria e viveva dissolutamente con Cleopatra, regina d’Egitto. Da allora, per amore e su istigazione di Cleopatra preparava la fine dell’impero romano. Il Senato dunque, per esortazione di Ottaviano dichiarò guerra ad Antonio e alla regina d’Egitto. Per cui, nel mese di settembre, nel golfo di Azio, le truppe dei duumviri condussero una battaglia navale. Gli eserciti e le flotte erano pari e combatterono con grande valore. L’esito della guerra fu a lungo incerto, ma, all’improvviso Cleopatra si volse in fuga con una nave veloce e se ne tornò in patria. Allora anche Antonio, dimentico dei doveri di un comandante, fece vela verso Alessandria. Ottaviano promise la vita ed il perdono ai soldati del disertore Antonio, vinti e completamente demoralizzati.

“I Galli entrano a Roma”

Galli tam bellicosi erant ut, Brenni ductu, in Padi planitem irruperint et omnia ferro ignique vastaverint. Cum Brennus Romam capere vellet, per Etruriam trasiit agros urbesque incendens et, cum duos Romanorum exercitus profligavisset atque fugavisset, at Urbem accedit atque castra apud Tiberim posuit. Deinde Galli tanto impetu Romam petiverunt ut maximam urbis partem, praeter Capitolii arcem, occupaverint. Tum Romani cum liberis et uxoribusque, urbe relicta, in montes urbi propinquos confugerunt. Patres tantum Romae manserunt et animo sic firmo fuerunt ut hostium adventum in Curia expectaverint, ubi plerique trucidati sunt. Nocte quadam evenit ut, cum Galli iam moenia arcis ascendissent atque Capitolium occupaturi essent, anseres, Iunoni sacri, tanto clangore obstreperent ut e somno excitaverint Manlium, arcis custodem, qui statim commilitones ad arma vocavit. Universi in eius auxilium accurrerunt et tanta vitrute puganverunt ut Galli fugati sin tac Capitolium servatum (sit). Deinde, cum Camillus quoque cum exercitu supervenisset, barbari profligati sunt.

I Galli erano talmente bellicosi che, sotto il comando di Brenno, invasero la pianura del Po e saccheggiarono tutto col ferro e col fuoco. Brenno, volendo conquistare Roma, attraverso l’Etruria oltrepassò, marciando, campi e città e, dopo aver sconfitto e messo in fuga due eserciti dei Romani, si avvicinò a Roma e pose l’accampamento presso il Tevere. In seguito, i Galli attaccarono Roma con un impeto così grande che occuparono una grandissima parte della città, tranne la rocca del Campidoglio. Allora i Romani con i figli e le mogli, abbandonata la città, si rifugiarono sui monti vicini alla città. Restarono a Roma soltanto i patrizi ed ebbero un animo così saldo che attesero l’arrivo dei nemici nel Senato, dove moltissimi furono trucidati. Una notte accadde che, dopo che i Galli erano già saliti sulle mura della Rocca e stavano per occupare il Campidoglio, le oche, sacre a Giunone, schiamazzarono con tanto stridore al punto da destare dal sonno Manlio, custode della rocca, il quale subito chiamò i compagni alle armi. Tutti insieme accorsero in suo aiuto e combatterono con tanto valore che i Galli furono messi in fuga e il Campidoglio fu salvato. Poi, essendo sopraggiunto anche Camillo con un esercito, i barbari furono sconfitti.

“La preghiera del sacerdote Crise ad Apollo”

Graeci urbem diripuerant et omnes virgines secum abduxerant; in his Chryseidem, filiam Chrisae, Apollinis sacerdotis. Maestrus igitur pater puellae in castra Graecorum venit, ut filiam redimeret, sed frustra oravit ducem Agamemnonem, qui non solum captivam servavit, sed gravibus minis sacerdotem terruit. Chryses igitur celeriter e castris discessit, sed cum procul fuic sit Apollinem oravit: “Deus, qui geris arcum argenteum et Tenedi incolis imperas, si semper tuum sacellum coronis ornavi et pingues haedos tibi immolavi, Graeci tuis sagittis poenas suis sceleris persolvant”. Statim Apollo preces auduvut sacerdotis, ex Olympo descendit. Sed cum Agamemnom causam irae Apollinis cognovit filiam patri reddidit et etiam hecatombe Apollinis iram placavit. Tum Apollo pestilentiam sedavit et aegros omnes sanavit viros.

I Greci avevano distrutto la città ed avevano portato con loro tutte le fanciulle; tra esse Criseide, figlia di Crise, sacerdote di Apollo. Pertanto, triste, il padre della fanciulla si recò nell’accampamento dei Greci, per riscattare la figlia, ma invano pregò il comandante Agamennone, il quale, non soltanto, custodì la prigioniera, ma spaventò il sacerdote con gravi minacce. Crise, dunque, si allontanò rapidamente dall’accampamento, ma non appena fu un po’ lontano così pregò Apollo: “Dio, che porti l’arco d’argento e domini sugli abitanti di Tenedo, se ho ornato sempre il tuo tempietto e ti ho immolato grasse vittime, i Greci paghino le pene per le loro scelleratezze con le tue frecce!”. Subito Apollo ascoltò le preghiere del sacerdote, scese dall’Olimpo. Ma quando Agamennone conobbe la causa dell’ira di Apollo, restituì la figlia al padre e placò l’ira di Apollo persino con un’ecatombe. Allora Apollo arrestò la pestilenza e risanò tutti gli uomini malati.

“La vita dei marinai”

Olim Syracusis periti nautae vivebant et per multas terras errabant. A fabris scaphae extruebantur et naviculae celeriter undas sulcabant. Nautae et in diurnis et in nocturnis horis navigabant, magno cum animo in altum contendebant. Ad vesperam enim nautae studio astra observant sic cursum diligenter tenebunt. Ex Sicilia multi nautae in Africae oras aut in Greciae emporia procedebant et lucrosam mercaturam faciebant. Aliquando propter ventum in vadum navigium impingebant aut in loco tuto in ancoris consistebant. Piratae maxime nautis inimici erant. In nautarum scaphas impetum saepe faciebant: nautas cibo, aqua, pecunia et armis spoliabant, viros necabant et flammis naviculam penitus delebant. Etiam Syracusarum incolae piratas timebant: saepe a viris familiae divitiaeque armis defendebantur et a matronis pretiosae gemmae in amphoris condebantur.

Un tempo a Siracusa vivevano esperti marinai ed erravano attraverso molte terre. Dai fabbri erano costruiti gli scafi e le piccole navi solcavano velocemente le onde. I marinai navigavano di giorno e di notte e con molto coraggio si spingevano in alto mare. A sera infatti i marinai con impegno osservano le stelle così scrupolosamente che mantengono la rotta. Dalla Sicilia molti marinai si dirigevano verso le imboccature dei porti dell’Africa e verso i mercati della Grecia e facevano lucrosi affari. Talora a causa del vento, le navicelle erano spinte nell’insenatura o in un luogo sicuro e gettavano le ancore. I pirati erano grandissimi nemici dei marinai. Spesso si scagliavano contro gli scafi e rubavano cibo, acqua, denaro ed armi, uccidevano gli uomini e distruggevano interamente la barca con il fuoco. Anche gli abitanti di Siracusa temevano i pirati. Spesso dagli uomini le ricchezze erano difese con le armi e dalle donne le pietre preziose erano nascoste nelle anfore.

“La congiura di Catilina”

M.Tullio Cicerone C.Antonio consulibus facta est Romae coniuratio. Praeerat L. Sergius Catilina, iuvenis nobilis generis, sed perditis moribus, qui constituerat consules aliosque magistratus iterficere, urbem incendio delere, rerum potiri. Adlexerat blanditiis iuvenes imperitos et cupidos divitiarum et voluptatum, praeterea omnium qui rerum novarum cupiditate flagrabant, promittens magna lucra magnsque quaestus. M.Cicero, gravitatem periculi considerans, motum sine mora repressit. Coniurati qui in urbe manserant comprehensi et interfecti sunt. Sed Catilina, qui iam Roma effugerat, exercitu collecto, cum copiis M.Antonio conflixit. Apud Pistorium profligatus est et morte strenue pugnans appetivi.

Sotto il consolato di M. Tullio Cicerone e C. Antonio a Roma fu fatta una congiura. Ne era a capo L. Sergio Catilina giovane di nobile stirpe, ma di dissoluti costumi, il quale aveva deciso di uccidere i consoli e gli altri magistrati, di distruggere la città con un incendio e impadronirsi del potere. Aveva attirato a sè con lusinghe giovani inesperti e desiderosi di ricchezze soprattutto quelli che ardevano dal desiderio di cose nuove promettendo grandi guadagni e grandi vantaggi. M. Cicerone rendendosi conto della gravità del pericolo represse senza indugio il movimento politico. I congiurati che erano rimasti in città furono catturati ed uccisi. Ma Catilina, che già si era allontanato da Roma, dopo avere riunito l’esercito si scontrò con le milizie di Antonio. Fu sconfitto presso Pistoia e combattendo strenuamente andò verso la morte.

“Alcuni esempi della forza d’animo degli Spartani”

Lacefdamonius quidam, ab ephoris damnatus, cum ad mortem duceretur, vultu hilari atque laeto erat. Civi ei dicenti: “Contemnisne leges Lycurgi?”, respondit: “Ego vero illi mazimam gratiam habeo, qui me ea poena me multaverit, quam sine ulla impensa possem dissolvere”. Eodem animo Lacedaemoniii in Thermopylis occiderunt. Quid ille eorum dux Leonidas dixit? “Pergite, milites, amino forti; hodie apud inferos fortasse cenabimus”. Fuit haes gens fortis, dum Lycurgi leges vigebant. Cum ante pugnam hostis quidam in colloquio gloriose dixiset: “Solem prae iaculorum et sagittarum multitudine non videvitis”, Lacedaemonius miles: “In umbra igitur” – inquit – “pugnabimus”. Non solum Lacedaemoniorum viros commemorare possum, sed etiam feminas. Tradunt enim Lacaenam quandam, cum filium in proelio interfectum esse audivisset, “Idcirco” – inquit – “eum genueram, ut pro patria mortem occumbere non dubitaret”.

Uno spartano, condannato dagli Efori, essendo condotto a morte, era con volto ilare e lieto. Al cittadino che gli diceva: disprezzi forse le leggi di Licurgo, risponde: “Io invero sono riconoscente a quello perchè mi ha punito con questa pena che potrei dissolvere senza alcuna spesa”. Con lo stesso animo i Lacedemoni uccisero nelle Termopili. Cosa disse il loro comandante Leonida? “Volgete, soldati, con animo forte, oggi ceneremo presso gli inferi”. Fu questa gente forte finchè vigevano le leggi di Licurgo. Avendo detto gloriosamente prima della battaglia un nemico in colloquio: “Non avete visto il sole per la moltitudine di dardi e giavellotti. Un soldato spartano: “Combatteremo, dunque, nell’ombra”. Non solo posso commemorare gli uomini Spartani, ma anche le donne. Dicono infatti che una spartana, avendo sentito che il figlio era stato ucciso in combattimento, disse: “Per questo motivo lo ho generato perchè non esitasse a soccombere alla morte per la patria”.

“I Romani alle Forche Caudine”

Spurius Postumius consul, a quo bellum adversus Samnites gerebatur, a Pontio duce hostium in insidias inductus est. Nam simulati trasfugae ad hoc officium missi erant, qui Romani dicerent Luceriam, Apuliae urbem, a Samnitibus obsideri. Consul, ne Lucerini, boni ac fideles socii, desererentur, exercitum movit; sed, cum in angustias se insinuavissent, Quae Caudinae dicebantur, sensit repente exercitum suum ab hostibus deprehensum et clausum esse, atque bomnem spem invadendi adeptam esse. Milites, undique superiora loca a Samnitibus obsessa bomnesque angustiarum exitus obstructos cernentes, diu immobiles silent; deinde erumpunt in querelas adversus duces, quorum temeritate in eum locum adducti erant. Postero die,Romani legatos miserunt ut pacem peterent. Pax concessa est ea lege ut omnes, consules consules primi, deinde singuli milites sub iugum traducerentur. Romanis, cum a saltu evasissent, libertas morte tristior fuit:pudor fugere colloquia et coetus hominum cogebat.

Il console Spurio Postumio, dal quale era condotta la guerra contro i Sanniti, fu spinto in un agguato da Ponzio comandante dei nemici. Infatti furono inviati come falsi disertori per questo compito, che i Romani dicessero che Lucera, città della Puglia, era presidiata dai Sanniti. Il console Spurio affinchè gli abitanti di Lucera, buoni e fedeli alleati, non fossero abbandonati, spostò l’esercito; ma essendosi introdotto in dei luoghi angusti, che erano detti Forche Caudine, intuì immediatamente che il suo esercito era stato sorpreso e catturato e che ogni speranza di scampare all’assedio era morta. I soldati vedendo chiaramente che le alture facevano da ostacolo dappertutto e che tutte le vie di uscita del luogo angusto erano bloccate dai sanniti, rimasero in silenzio a lungo, poi scoppiarono in rimproveri contro i comandanti, dalla cui imprudenza furono portati in quei luoghi. Il giorno dopo, i Romani mandarono gli ambasciatori per chiedere la pace. La pace fu concessa a questo patto, che tutti, per primi i consoli, poi i singoli soldati, fossero fatti passare sotto il giogo. Uscendo dal luogo boscoso, la libertà per i Romani fu più triste della morte: la vergogna spingeva ad evitare i colloqui e le riunioni tra gli uomini.

“L’invasione dei Galli coinvolge anche Roma”

Celtae, quos Romani appellabant Gallos, cum in Italiam per Alpes transcendissent, suo impetu Ligures et Etruscos everterunt et magnam partem eorum finium occupaverunt. Galli Insubres Mediolanum condiderunt, Cenomani, ubi nunc Brixia ac Verona urbes sunt, loca tenuerunt, Boii Lingonesque, cum iam inter Padum atque Alpes omnia loca obtinerentur, Pado ratibus traiecto, non modo Etruscorum sed etiam Umbrorum agros occupaverunt. Denique Galli Senones, recentissimi advenarum, ad Aesim flumen pervenerunt. Satis constat hanc gentem Clusium, opulentum Etruscorum oppidum, petivisse et inde Romam venisse. Clusini, multitudine barbarorum exterriti, cum et formas hominum invisitatas et novum armorum genus cernerent audirentque saepe ab iis magnos hostium exercitus profligatos esse, legatos Romam miserunt, qui auxilium a senatu peterent. Statim a Romanis legati missi sunt, qui cum Gallis agerent ne, a quibus nullam iniuriam acceperant, socios populi Romani atque amicos oppugnarent.

I Celti, che i Romani chiamavano Galli, quando discesero in Italia, con il loro impeto annientarono i Liguri e gli Etruschi, ed occuparono gran parte dei loro confini. I Galli Insubri fondarono Milano, i Cenomani, dove ora si trovano le città di Brescia e Verona, diminuirono le regioni, i Boi e i Lingoni, quando già avevano occupato tutti i territori tra il Po e le Alpi, passato il Po con le zattere, occuparono i campi non solo degli Etruschi, ma anche degli Umbri. E poi, i Galli Senoni, gli ultimi arrivati, giunsero presso il fiume Esino. E’ cosa ben nota che questo popolo si fosse diretto a Chiusi, ricca città degli Etruschi, e che di lì fosse giunto a Roma. Gli abitanti di Chiusi, atterriti dal gran numero di barbari, poiché non li avevano mai visti e poichè avevano notato il nuovo genere di armi, ed avevano sentito che spesso da loro erano stati sbaragliati grandi eserciti di nemici, inviarono ambasciatori a Roma che richiedessero un aiuto da parte del senato. Furono subito inviati gli ambasciatori da parte dei Romani, che trattarono con i Galli affinché non attaccassero gli alleati e gli amici del popolo Romano, che non avevano subito alcuna violenza.

“Cesare e gli Elvezi”

Caesar copias in proximum collem subduxit, equitatum contra hostes misit, exercitum in colle instruxit. Helvetii, ut viderunt, impetum in equitatum fecerunt et ad castra nostra appropinquaverunt. Milites Romani ex colle pila mittebant, ut hostium phalangem perfringèrent; postea, cum hostes proximus viderunt, gladios destrinxerunt et impetum fecerunt. Diu atque acrìter Helvetii per magnam noctis partem pugnaverunt, sed nostrum impetum sustinere non potuerunt, ita ut Romani impedimenta et castra barbarorum occupaverint. Helvetiorum superstites qui fugerunt per montium saltus, in fines Lingonum pervenerunt ut Gallorum auxilium peterent. Romani propter vulnera militum et propter sepolturam occisorum fugam hostium impedire non potuerunt.

Cesare spostò le truppe sul vicino colle, mandò la cavalleria contro i nemici, schierò l’esercito sul colle. Gli Elvezi, quando videro, fecero impeto contro la cavalleria e si avvicinarono al nostro accampamento. I soldati Romani lanciavano giavellotti dal colle per infrangere la falange dei nemici; poi, quando videro i nemici vicini, sguainarono le spade e attaccarono. Gli Elvezi combatterono duramente e a lungo per gran parte della notte, ma non riuscirono a sostenere il nostro impeto, cosicché i Romani si impadronirono delle salmerie e dell’accampamento dei barbari. I superstiti degli Elvezi che fuggirono attraverso i valichi dei monti, giunsero nei territori dei Lingoni per chiedere l’aiuto dei Galli. I Romani per le ferite dei soldati e la sepoltura degli uccisi, non poterono impedire la fuga dei nemici.