“Epicuro”

Videbat Epicurus bonis adversa semper accidere, qualia paupertatem, labores, exilia, carorum amissionem; malos, contra, beatos esse; videbat scelera homines impune committere, videbat sine ordine ac discrimine annorum saevire mortem et alios ad senectutem pervenire, alios infantes ex vita cedere, alios iam robustos expirare, alios in primo adolescentiae flore immaturis funeribus deficere; in bellis fortes perire. Omnia haec Epicurus cogitans, existimavit nullam esse providentiam.

Epicuro vedeva sempre succedere qualcosa di negativo ai buoni, quale la povertà, le fatiche, la perdita dei cari; al contrario vedeva che i malvagi erano beati, vedeva che gli uomini commettevano impunemente delitti, vedeva che senza ordine e distinzione di età si abbandonavano alla morte e altri giungere alla vecchiaia, alcuni giovani morire, alcuni forti spirare, altri mancare dal fiore della giovinezza immaturamente, uomini forti morire nelle guerre. Epicuro pensando tutte queste cose ritenne che non vi fosse alcuna provvidenza.

“Un favore ricambiato”

Olim in silva fortis leo dormiebat. Parvus mus forte leonis nasum offendit atque beluam e somno excitavit. Statim fera pede incutum apprehendit. Sed mus, humilis clamavit: “Leo, animalium nobilis rex, libera me! Tibi sempiternam gratiam habebo!”. Tum leo facilem et inermem praedam liberavit. Post paucos menses, leo in crudelium venatorum laqueos incidit: silvam terribilibus lamentis suis implebat. Parvus mus beluam audivit, celer ed leonem accurrit atque statim acribus dentibus laqueorum difficiles nodos rosit. Sic bestiola gratiam rettulit.

Una volta un leone coraggioso dormiva nella foresta. Un piccolo topo per caso urtò il naso del leone e svegliò la belva dal sonno. Subito la fiera afferrò con la zampa l’incauto. Ma il topo, umile, gridò: “Leone, re degli animali nobili, liberami! Avrò per te eterna gratitudine!”. Allora il leone favorevole e inerme liberò la preda. Dopo pochi mesi, il leone cadde nella trappola del crudele cacciatore: riempiva la foresta dei suoi terribili lamenti. Il piccolo topo udì la belva, accorse velocemente dal leone e subito con i denti aguzzi rosicchiò i difficili nodi della rete. Così la bestiola restituì la grazia.

“Il regno di romolo”

Postquam civitatem condidit quam ex suo nomine Romane appellavit. Romulus multos annos reganvit. Multitudinem finitimorum in civitatem recepit, ex quibus centum cives senes legit, qui propter aetatem senatores nominati sunt. Senatorum consilio omnia negotia agebantur. Sed quia Romani feminas non habebant, rex invitavit ad spectaculum ludorum gentes quae vicinae urbi Romae erant. Tunc grave bellum commotum est, in quo Caenineses Crustumini Fidenates Veintes qui socii Sabinorum erant victi sunt. Tandem Sabini pacem cum Romanis facerunt, qui virgines raptas in matrimonium duxerunt. Romulus qui multos annos regnaverat post foedam tempestatem non comparuit et inter deos honoratus est. Post romulum Numa Pompilius regnavit cui non bellum sed iustitia et religio laudem paraverunt.

Dopo che ebbe fondato la città, che chiamò Romana dal suo nome, Romolo regnò per molti anni. Accolse nella città la moltitudine dei popoli confinanti, tra i quali scelse cento uomini anziani che furono nominati senatori a causa dell’età. Tutti i doveri venivano effettuati per mezzo della decisione dei senatori. Ma, poiché i Romani non avevano mogli, il sovrano invitò ad uno spettacolo di giochi le popolazioni che erano vicine alla città di Roma. Allora fu scatenata gravemente una guerra, durante la quale i Ceninensi, i Crustumini, i Fidenati ed i Veienti, che erano alleati dei Sabini, furono sconfitti. Tuttavia i Sabini fecero la pace con i Romani, che condussero le vergini rapite al matrimonio. Romolo, che aveva regnato per molti anni, dopo l’infausta tempesta non ricomparve e fu onorato tra gli dei. Dopo Romolo regnò Numa Pompilio, cui non la guerra ma la giustizia ed il timore degli dei procurarono la lode.

“Il supplizio di Tantalo”

Tantalus, Lydorum rex, diis deabusque carus erat ideoque Iuppiter saepe eum in Olympum invitabat et ad deorum mensam admittebat. Sed Tantalus in convivio Iovis deorumque sermones audiebat et postridie eorum verba hominibus referebat; olim etiam nectaris ambrosiaeque furtum facerat. Tum Iuppiter, ob tanta facinora iratus, Tantalum ex Olympo pellere atque in Inferis saeva poena eum punire statuit: “Tu, Tantale, in palude Stygia in aeternum stabis, sed fame sitique excruciaberis: nam si os ad aquam appropinquabis, aqua statim recedet; multi rami cum iucundis pomis ante oculos tuos pendebunt, sed, si brachia ad ea levabis,ventus arborum ramos ad caelum tollet. Praeterea magnum saxum super caput tuum semper impendebit”. Itaque miser Tantalus hoc saevum supplicium in perpetuum fert.

Tantalo re dei Lidi era caro agli dei e alle dee e pertanto Giove spesso lo invitava nell’Olimpo e lo accoglieva alla mensa degli dei. Ma Tantalo ascoltava nel convivio tutti i discorsi di Giove e degli dei e il giorno dopo riferiva le loro parole agli uomini; un giorno aveva fatto anche un furto di nettare e ambrosia. Allora Giove, adirato per tanto grandi misfatti, stabilì di scacciare Tantalo dall’Olimpo e punirlo con una terribile pena. “Tu Tantalo starai in eterno nella palude Stigia, ma sarai tormentato dalla fame e dalla sete: infatti se avvicinerai la bocca all’acqua, l’acqua subito si ritrarrà; molti rami con frutti penderanno deliziosamente davanti ai tuoi occhi ma se alzerai le braccia verso di loro, il vento solleverà i rami dell’albero verso il cielo. Inoltre un enorme sasso incomberà sempre sulla tua testa”. Pertanto il povero Tantalo sopporterà in eterno questo crudele supplizio.

“Il poeta Tibullo”

Tibullus, clarus poeta Romanus, totum annum in agris suis vitam tranquillam agere amabat; negotia, Forum militiamque vitabat. Aestate frigidae agrorum aurae poetam recreabant, autumno pratorum silvarumque silentia et amoenorum rivorum voces eum delectabant. Tibullus in carminibus suis vitae rusticae gaudia canebat et agricolis dicebat: “Agrorum silvarumque deas deosque pie colite: ii dona vestra accipient, agros vestros armentaque protegent, morbos fugabunt, familias vestras adiuvabunt; laeti in vicis vestris sine curis vivetis”.

Tibullo, famoso poeta Romano, per tutto l’anno amava trascorrere una tranquilla vita nei suoi campi; evitava gli affari, il foro e la vita militare. In estate i freschi venti dei campi ristoravano il poeta, in autunno il silenzio dei prati e dei bosci e gli scroscii dei ruscelli ameni lo dilettavano. Tibullo cantava nei suoi carmi le gioie della vita rustica e diceva agli agricoltori: “Venerate piamente le dee e gli dei dei campi e dei boschi: essi riceveranno i vostri doni, proteggeranno i vostri campi, scacceranno le malattie, aiuteranno le vostre famiglie; vivete felici nei vostri villaggi senza preoccupazioni”.

“Una visita di istruzione”

Palatium, ut scitis, discipuli, est collis ubi Romulus Urbem condidit. Mirifica templa, splendida aedificia montem ornant. Illie multi clari viri domicilia habuerunt. Si Roma recte caput mundi appellamus, Platinum montem iure umbilicum Urbis dicimus. Antiquis temporibus Palatinus mons sedes Evandri regis fuit. Multis post annis Romulus hic urbem Romam condidit et muro circumdedit. Apud Capitolium Ara Maxima Herculis et Templum Victoriae deae erant. Apud semitas quae ex colle ad Forum ducebant, antiqui Romae incolae colebant Lupercal, speluncam ubi lupa lacte geminos nutrivit, et Tugurium Faustoli, ubi Romulus cum fratre Remo adolevit. In Palatino ubi nunc templum lovis Propugnatoris est, Romulus etiam casam suam eadificavit. Cras collem lustrabimus et intellegetis quomodo in saeculos Maiores nostri Palatinum exornaverint.

Il Palatino, come sapete, o fanciulli, è il colle dove Romolo fondò Roma. Magnifici templi, splendidi edifici ornano il monte. Qui molti uomini illustri ebbero domicilio. Se chiamiamo giustamente Roma, capitale del mondo, diciamo giustamente il Palatino ombelico di Roma. Anticamente il monte Palatino fu la sede del re Evandro. Molti anni dopo Romolo fondò qui Roma e la circondò con un muro. Presso il campidoglio vi erano l’altare massimo di Ercole e il tempio della vittoria. Presso sentieri che conducevano dal colle al foro, gli antichi abitanti di Roma onoravano il lupercale, spelonca dove la lupa nutrì i gemelli con il latte, e il tugurio di Faustolo, dove Romolo crebbe con il fratello Remo. Sul Palatino ora vi è il tempio di Giove propugnatore, Romolo edificò anche la sua casa. Domani illustreremo il colle e capirete in che modo avranno ornato il Palatino i nostri antenati.

“De Tullii villa”

Tullius et Terentia cum magna familia in villa non longe a Velitris vivunt. Tulii villa magna et pulchra est. Servi herbidum pratum circa aedificium curant, spineas et erbas secant, frigidus rivus fluit inter floridas ripas. Piri frondosae, cerasi et mali virent et uminda mala et rubra cerasa producent. Rosae violae et lilia sunt in areolis et hedera aedificii mura tegit. Statuae et fontes (fontane) ornant semitas. Saepe Tullius in viridario cum amicis ambulat et de philosophia disputat vel in platanorum umbra epistulas filio Marco scribit. Post aedificium sunt domus villici, stabula, granaria et pistrinum.

Tullio e Terenzia vivono con la famiglia numerosa in una casa di campagna non lontano da Velletri. La casa di campagna di Tullio è grande e bella. I servi curano il prato erboso attorno all’edificio, tagliano le spine e le erbacce. Tra le fiorenti rive scorre un freddo ruscello. Verdeggiano folti peri, cigliegi e meli e prontamente producono pere succose, mele gustose e rosse cigligie. Nelle aiuole ci sono rose, viole e lillà e l’edera copre le mura dell’ edificio. Ornano le entrate statue e fontane. Spesso Tullio passeggia con gli amici nel giardino e discorre di filosofia o scrive, all’ombra dei platani, lettere al figlio Marco. Dietro all’edificio ci sono la casa del fattore, le stalle, i granai e il mulino.

“Arianna abbandonata da Teseo”

Theseus, Agei filius, Athenis ad insulam Cretam venit et ab Ariadna, venusta Minois filia, adamatur. In insula labyrintho Minotaurus vivit. Monstrum adulescentulos puellasque vorat. Theseus Minotaurum occidit et Ariadna labyrinthi effugium Theseo monstrat. Deinde puella cum Theseo patriam Cretam relinquit sed postea Naxi a viro in sommo relinquitur. Maesta puella pelagus spectat et flet: Thesei navigium non videt. Deindeper insulae oram currit sed alta harena puellae pedes tardat. Ariadna in desertam oram cadit et umida harena ec purpura peplum foedat. Ariadna virum clamat: ” Theseus!” vir non respondet: Ariadna in insula sola est. Puella, pavida, insulam ecplorat: ubicumque pelagus scopulique sunt. Nivea luna in caelo splendet, splendidae stellae caelum illuminant. Procul ab insula candidae, liberae gaviae ad caelum advolant. Interea Theseus procul ab insula celeriter navigat: nam Athenas remeare statuit. Tum Ariadna vela videt et magna cum tristitia flet: totam insulam cingit pelagus. At postea Bacchus, vini deus, Ariadnae lamentaaudit er puellae auxilio venire statuit. Puellae formam laudat et puellam in coniugium ducit. Ita Ariadna cum deis deabusque vivit.

Teseo, figlio di Egeo, viene da Atene nell’ isola, ed è amato da Arianna, la bella figlia di Minosse. Nell’isola vi è un labirinto: nel labirinto vive il Minotauro. Il mostro divora giovani e fanciulle. Teseo uccide il Minotauro ed Arianna mostra a Teseo l’uscita del labirinto. Poi la fanciulla con Teseo lascia la patria, Creta, ma successivamente viene abbandonata dall’uomo a Nasso. La fanciulla, sconsolata, osserva il mare e non vede l’imbarcazione di Teseo. Poi corre per la spiaggia dell’isola, ma la sabbia alta rallenta i piedi della giovane. Arianna cade sulla spiaggia deserta e l’umida sabbia sporca la veste di porpora. Arianna chiama l’uomo: “Teseo!” – l’uomo non risponde. Arianna è sola sull’isola. La fanciulla, impaurita, esplora l’isola: il mare e gli scogli sono ovunque. La candida luna splende in cielo, stelle luminose illuminano il cielo. Lontano dall’isola, candidi, liberi gabbiani volano verso il cielo. Nel frattempo Teseo naviga velocemente lontano dall’isola: infatti ha deciso di tornare ad Atene. Allora Arianna vede le vele e piange con grande tristezza: il mare circonda tutta l’isola. Ma in seguito Bacco, dio del vino, ode i lamenti di Arianna e decide di venire in aiuto alla fanciulla. Loda la bellezza della giovane e la sposa. Così Arianna vive con gli dei e le dee.

“Un’arguta battuta”

Narrant Aristippum philosophum obviam ivisse Dionysio, Syracusarum tyranno, in via cum satellitibus procedenti et magna voce exclamavisse: “Te oro, Dionysie, ut fratrem meum e vinc.ulis dimittas”. Frater Aristippi enim cum paucis civitatis princibus contra tyrannum conspiraverat et, coniuratione patefacta, in carcerem coniectus erat. Sed Dionysius eius preces non audivit neque iter intermisit. Tum philosophus ad pedes tyranni se proiecit et osc.ulo vestem contigit sperans se eius animum penitus (avv.) commoturum esse. Etenim Dionysius, tanto obsequio commotus, fratrem Aristippi e carcere produci iussit. Sed cives quidam, cum rem vidissent, tam servile obsequium exprobrantes, id viro libero ac sapienti indignum esse dixerunt. Tum Aristippus, leniter subridens iis respondit: “Cur me obiurgatis? Non mea est culpa, sed DIonysii: nam ei aures in pedibus sunt!”.

Narrano che il filosofo Aristippo sia andato incontro a Dionisio, tiranno di Siracusa, che procedeva per la strada con le guardie del corpo ed avesse esclamato a gran voce: “Ti prego, o Dionisio, di lasciare uscire mio fratello dal carcere”. Il fratello di Aristippo, infatti, aveva cospirato contro il tiranno con pochi capi della città e, una volta scoperta la congiura, era stato mandato in prigione. Ma Dionisio non ascoltò le sue preghiere né interruppe il cammino. Allora il filosofo si lanciò ai piedi del tiranno e toccò l’abito con le labbra sperando che avrebbe profondamente commosso il suo animo. Difatti Dionisio, mosso da tanto ossequio, ordinò che il fratello di Aristippo fosse scarcerato. Ma alcuni cittadini, avendo visto la cosa, rimproverandogli un ossequio così servile, dissero che esso non era degno di un uomo libero e sapiente. Allora Aristippo rispose loro sorridendo: “Perché mi rimproverate? Non è mia la colpa, ma di Dionisio: infatti egli ha le orecchie nei piedi!”.

“Un oracolo ambiguo”

Exiguus numerus troianorum urbem ardentem reliquerat et in collese finitimus confugerat. Ubi aeneas cum patre sene et parvo filio paucisque comitibus convenit atque brevem sed acrem orationem habuit ut omnium animos confirmaret: “Troiani, patria nostra a grecis capta incensasque est, tamen ne desperaveritis de salute vestra: diis adiuvantibus, novam troiam in aliis terris condemus”. Troiani cum aeneae verba laeti accepissent, classem comparaverunt ut terras ignotas peterent. Primum cum naves ascendissent, ad thraciam cursum direxerunt. Ibi aeneas comitibus imperavit ut novae urbis moenia aedificarent. Sed accidit ut immane portentum troianorum duci tantum terrorem afferrent ut sine mora statuerit terram inhospitalem delinquere et ad insulam delum navigare, consulturus oraculum dei apollinis. Cum in insulam pervenisset et ad apollinis templum ascendisset deum sic rogavit: “Ubi considere debent troiani? Quo imperas ut pergamus?”. Deus dubium responsum edidit: “Troiani, antiquam matrem quaerite”. Aeneas oraculum non intellexit, sed pater Anchises exclamavit: “Ego oraculum intellego. Antiqua mater Troianorum est insulam Creta; nam ex Creta Teucer, gentis Troianae progenitor, in Asiam pervenit. Deus Apollo igitur nos monet ut in insula Creta considamus. Ad Cretam igitur festinemus!”.

Un esiguo numero di Troiani aveva lasciato la citta che bruciava e si era rifugiata nei colli confinanti. Qui Enea giunse con il padre vecchio e con il piccolo figlio e con pochi compagni e tenne un discorso breve ma duro per rafforzare gli animi di tutti: “O Troiani, la nostra patria è stata presa e incendiata dai Greci, tuttavia non disperatevi della vostra salvezza: con l’aiuto degli dei, fonderemo una nuova troia in altre terre”. I Troiani avendo appreso lieti le parole di Enea, prepararono la flotta per cercare terre sconosciute. Per primo avendo issato le navi, diressero il corso verso la Tracia. Qui Enea comandò ai suoi compagni che edificassero nuove mura della città. Ma accadde che uno strano prodigio portasse tanto terrore tra i Troiani che senza indugio stabilì di mancare una terra inospitale e di navigare verso l’isola di Delo, per consultare l’oracolo di Delfi. Essendo giunti nell’isola e entrati nel tempio di Apollo così interrogò il dio: “Dove devono accamparsi i Troiani? Come consigli di procedere?”. Il dio diede un incerto responso: “O Troiani, cercate una madre antica”. Enea non capì l’oracolo, ma il padre Anchise esclamò: “Io capisco l’oracolo, l’antica madre dei Troiani è l’isola di Creta, infatti da Creta in Asia deriva Teucro, progenitore della stirpe troiana. Il dio Apollo dunque ci ammonisce di accamparci presso l’isola di Creta. Dunque affrettiamoci verso Creta!”.

“Le peripezie di Ulisse”

Circes, solis filiae, hortatu, Ulixes ad inferos descendit ut Tiresiam, veridicum vatem, consuleret. Ibi invenit Elpenorem, quem apud pulchram deam reliquerat. Elpenor ebrius nocte per scalam cecidit et cervices fregit, itaque ad inferos pervenerat. Tum ulixem oravit ut corpus adsepulturam traderet et in tumulto gubernaculum poneret. Deinde Ulixi Tiresias appropinquavit et finem eius errationis reditumque domum praenuntiavit. Inter inferorum animas Ulixes Agamennonem, graecorum ducem, cum Achille et Aiace, recognavit, et multis cum lacrimis anticleam matrem salutavit. Cum autem ad Circen redisset, primum corpus infelicis Elpenoris sepoltura honoravit, deinde, cum navem solvisset, a dea monitus, sirenum blanditias vitavit, et scyllae scopulum, nautis infestum effugit. Denique cum in insulam siciliam pervenisset, comitibus imperavit ne boves solis violarent. Tamen ii, Ulixe dormiente, fame coacti, sacrum armentum involaverunt; ideoque Iuppiter, ira sceleris incensus, dum ad ithacam navigant, navem fulmine percussit et omnes, praeter Ulixem, fluctibus submersit.

Per esortazione di Circe, figlia del sole, Ulisse discese negli inferi per consultare Tiresia, vate della verità. Qui trovò Elfenore, che aveva lasciato presso la bella dea. Elfenore ubriaco cadde di notte dalla scala e ruppe la testa, e così era giunto agli inferi. Allora pregò Ulisse affinchè desse sepoltura al corpo e ponesse nel tumulo il timone. Infine ad Ulisse si avvicinò Tiresia e annunciò la fine del suo errare e il ritorno a casa. Tra le anime degli inferi Ulisse riconobbe Agamennone, comandante dei Greci, con Achille e Aiace, e salutò la madre Anticlea con molte lacrime. Essendo tornato da Circe, per prima cosa rese onore con la sepoltura al corpo infelice di Elfenore, poi, avendo sciolto la nave, ammonito dalla dea, evitò le lusinghe delle sirene, sfuggì lo scoglio di Scilla infesto ai marinai. Infine essendo giunto in Sicilia, comandò ai compagni di non violare i bovi del sole. Tuttavia essi, spinti dalla fame, violarono il sacro armento: e così Giove, acceso dall’ira per il misfatto, mentre navigano ad Itaca, percosse con un fulmine la nave e tutti, eccetto Ulisse, sommerse con le onde.

“L’imperatore Traiano e la povera vedova”

Ulpius Traianus tam iustus ac clemens fuit, ut in numero deorum relatus sit. Olim enim, cum imperator Romam relicturus esset ut bellum contra dacos duceret cumque iam equum ascendisset ut exercitum recenseret, vidua quaedam, annis doloribusque confecta, ad pedes eius se proiecit et flens eum oravit ut mortem filii iniuste necati vindicaret. Traianus tum, cum urbe exire festinaret, respondit: “Cum a bello rediero, ius tibi reddam”. Sed vidua, circumiens imperatoris equum: “Nisi redieris, quis mihi ius reddet?”. Traianus contra: “Si in bello periero, successor meus satisfaciet tibi”. At illa: “Si alius mihi ius reddiderit, quem meritum habebis? Tu imperator es, tu mihi debitor es, te non liberabit iustitia aliena. Ne abieris, priusquam mihi ius reddideris!”. Viduae verbis commotus Traianus ex equo descendit et, quamvis omnes eum admonerent ut viam pergeret, humilem viduam audivit et, rebus cognitis, ei ius reddidit.

Ulpio Traiano fu tanto giusto e clemente da essere posto nella schiera degli dei. Una volta infatti, mentre l’imperatore stava lasciando Roma per condurre la guerra contro i Daci ed era già montato a cavallo per passare in rassegna l’esercito, una vedova, logorata dagli anni e dai dolori, si gettò ai suoi piedi e piangendo lo supplicò di vendicare la morte di suo figlio, ucciso ingiustamente. Traiano allora, pur avendo fretta di uscire dalla città, rispose: “Quando tornerò dalla guerra ti renderò giustizia”. Ma la vedova, girando intorno al cavallo dell’imperatore: “Se non tornerai, chi mi renderà giustizia?”. E Traiano in risposta: “Se morirò in guerra il mio successore ti accontenterà”. Ma lei: “Se qualcun altro mi avrà reso giustizia, che merito ne avrai? Tu sei l’imperatore, sei tu che mi sei debitore, la giustizia di altri non ti libererà. Non partire, prima di avermi reso giustizia!”. Commosso dalle parole della vedova, Traiano scese da cavallo e, benché tutti lo esortassero a proseguire il viaggio, ascoltò l’umile vedova e, avendo appurato i fatti, le rese giustizia.

“Atene”

Athenae in Attica, magna Graeciae paeninsula amoena et fecunda, erant. Oppidum pulchris monumentis ornatum erat. Nam in viis multa sumptuosa aedificia publica erant, statuae ex argento, simulacra marmorea. Industria commerciumque magnas divitias incolis parabant, nam Athenarum incolae nautae periti erant et multas colonias in Asiae oris, in Aegei insulis et in Italia condiderunt. Athenae etiam patria poetarum, philosophorum, praeclarorum athletarum fuerunt. Concordia et audacia incolarum causa fuerunt victoriae in bellis contra Persas. Post Salaminiam victoriam multa Graeciae oppida socia Athenarum fuerunt et multos per annos Athenae imperium maritimum habuerunt.

Atene era in Attica, grande penisola graziosa e fertile della Grecia. La città era ornata di bei monumenti. Nelle strade infatti vi erano molti suntuosi edifici pubblici, statue di argento, simulacri di marmo. L’operosità e il commercio offrivano agli abitanti molte ricchezze, infatti gli abitanti di Atene erano esperti marinai e fondarono molte colonie sulle coste d’Asia, nelle isole dell’Egeo e in Italia. Atene fu anche patria di poeti, filosofi e illustri atleti. La concordia e l’audacia furono causa di vittoria nelle guerre contro i Persiani. Dopo la vittoria di Salamina molte città della Grecia furono alleate degli Ateniesi e Atene ebbe per molti anni l’impero marittimo.

“La germania e la Campania”

Germania horrida silvis erat, Campanie plaga incundis et venustis insulis pulchera erat. Germaniae incolae pugnas amabant et pugnae magnam copiam dabant; Campania terra fecunda et amoena erat, et magnam incolis copiam commodabat: abundabat uva flava, oliva procera, spicis gravidis, frugiferis variisque plantis. Germaniae incolae sagittas et hastas creabant, in Campania poetae et litterae incolas laetificabant.

La germania era inospitale per la vegetazione, la Campania era una regione piacevole e bellissima per le isole eleganti. Gli abitanti della Germania amavano le guerre e dovevano pagare un grande contributo per la guerra; la Campania era una regione fertile e rigogliosa, e rendeva una grande richezza agli abitanti: abbondava di uva dorata, alti olivi, spighe piene, varie e fertili piante. Gli abitanti della Germania producevano frecce e lancie, in Campania poeti e letterati allietavano gli abitanti.

“Morti non comuni”

Mors Aeschyli propter novitatem casus singularis fuit. Olim clarus poeta in Sicilia e moenibus urbis, in qua habitabat, exiit et in aprico loco resedit. Aquila super eum volavit, testudinem unguibus suis ferens. Quia aquila testudinem frangere volebat, ut ederet carnem, eam allisit capiti Aeschyli tamquam lapidi: nam decepta erat splendore capitis, quod erat capillis vacuum. Itaque gravi ictu percussus Aeschylus periit. Insolita etiam Homeri mortis causa fuit. In insula Io, quia quaestionem a piscatoribus positam solvere non poterat, magno dolore comsumptus, brevi tempore decessit. Euripides credelitate fati finitus est. Nam in Macedonia ab Archelai regis cena domum rediens, canum morsibus laniatus, mortem atrocem obiit. Philemonem vis risus immoderati occidit. Asello ficos ei paratas consumente, servum magna voce inclamavit: “Asinum abige!”. Sed iam omnibus ficis comestis servus supervenit. Tum poeta: “Quoniam – inquit – tam tardus fuisti, da nunc vinum asello!”. Ac protinus crebros cachinnos tollens, spiritu intercluso exstinctus est.

La morte di Eschilo fu un caso particolare a causa della sua stranezza. Una volta il famoso poeta in Sicilia uscì dalle mura della città dove abitava e andò in un luogo aperto. Un’aquila volò sopra di lui, portando una tartaruga con i suoi artigli. Poichè l’aquila voleva rompere la tartaruga, per mangiarne la carne, la sbatté contro la testa di Eschilo come se fosse una pietra: infatti era stata ingannata dallo splendore della testa, che era vuota di capelli. Dunque colpito dal pesante colpo Eschilo morì. Anche la causa della morte di Omero fu insolita. Nell’isola di Io, poichè non era in grado di risolvere la questione posta dai pescatori, consumato da grande dolore, morì in breve tempo. Euripide fu sfinito dalla crudeltà del fato. Infatti in Macedonia tornando a casa dalla cena del re Archelao, dilaniato dai morsi dei cani, andò incontro ad una morte atroce. La forza del riso immoderato uccise Filemone. Mentre consumava con l’asinello i fichi a lui preparati, chiamò un servo a gran voce: “Porta via l’asino!”. Ma il servo venne dopo che tutti i fichi erano gia stati mangiati. Allora il poeta: “Poichè, disse, sei stato così lento, dà ora il vino all’asinello!”. Ma subito sollevando dense risate, morì soffocato”.

“Romani contro navi corsare”

Cum praetor drexisse ad terram proras, quindecim ferme naves circa Myonnesum – promunturium inter insulas teum samumque est – apparerunt, quas primo ex classe sociorum esse arbitratus est. Apparuit deinde piraticos celoces et lembos esse. Maritimam oram Chiorum depopulati, cum omnis generis praeda revertentes, postquam viderunt ex alto mari classem nostram, in fugam verterunt. Celeritate naves nostras superabant et propiores terrae erant. Itaque, priusquam appropinquaremus, Myonnes perfugerunt. Hoc promuntiurum est collis in acutum cacumen a fundo satis lato fastigatus: a continenti artae semitae aditum habet, a mari exesae fluctibus rupes claudunt. Cuirca has naves nostrae appropinquare non ausae sunnt ne sub ictu piratarum superstantium rupibus essent. Sic frustra diem triverunt. Tandem sub noctem incepto abstiterunt et Teum postero die concesserunt.

Quando il pretore diresse verso terra le navi, apparvero all’incirca 15 navi presso Mionneso – è un promontorio tra le isole di Teo e di Samo – che in un primo tempo pensò appartenessero alla flotta degli alleati. Fu palese dopo che erano i brigantini e i battelli dei pirati. Devastato il litorale di Chio, ritornando con ogni genere di bottino, dopo che videro dall’alto mare la nostra flotta, scapparono. Superavano in velocità le nostre navi ed erano più vicini alla terra. Così, senza lasciarci il tempo di avvicinarsi, scapparono verso Mionneso. Questo promontorio è un colle che finisce in una punta aguzza da una base abbastanza larga: ha un accesso dalla terraferma da un sentiero stretto, delle rupi corrose dalle onde lo rendono inaccessibile dal mare. Le nostre navi non osarono avvicinarsi a queste per non essere sotto il tiro dei pirati che erano sopra sulle rupi. Così trascorsero il giorno invano. Finalmente di notte si allontanarono con proposito e il giorno dopo abbandonarono (l’isola di) Teo.

“Idillio agreste”

Aquilae sunt ferae: magnas alas habent, rapide volitant et gallina set ranas interdum raptant. Si aquila appropinquat, pavidae columbae fugitant et se occultant. Etiam puellae aquilam timent; si eam vident, agricolam vocant. Agricola cum furca venit, aquilam fugat et puellas pavidas recreat. Puellae violas pulchras in ripis legunt pupis et pila ludunt. Amicae saepe in culina mensam parant et in mensa patinas ponunt: in villa enim saepe convivae sunt et multae ancillae et puellae dominae oboediunt.

Le aquile sono feroci: hanno grandi ali, volano rapidamente e quache volta ghermiscono le galline e le rane. Se l’aquila si avvicina, le colombe spaventate fuggono e si nascondono. Anche le fanciullo temono le aquile; se la vedono chiamano il contadino. Il contadino giunge con un forcone, mette in fuga l’aquila e risolleva la fanciulla spaventata. Le fanciulle colgono sulla riva graziose viole giocano con le bambole e con la palla. Le amiche spesso preparano il cibo in cucina e dispongono i piatti sulla tavola: infatti nella villa spesso sono convitate e molte serve e fanciulle obbediscono al padrone.

“Tragica fine di Fetonte”

Eridanus longe vastissimus et amplissimus Italicorum fluviorum est. Ex Alpibus, ubi perpetuae et candidissimae nives sunt, oritur, per amoenissimam planitiem influit in mare Hadriaticum. Iter eius longissimum est, multo longius quam Tiberis et Arni. Undae rapidissimae sunt in montana parte, inde placidiore et minus torrenti cursu ad mare profluunt. Plurimae et maximae urbes in ripis Eridani sunt. De eius ripis etiam nobilissimam fabulam narrat. Cum Phaeton, Solis filius, nimis ad terram curru patris appropinquavisset, Sol, ne Phaeton florida culta ureret violentissimo et acerrimo aestu, currum deiecit. In uberrimam planitiem, apud Eridani ostium, cecidit currus et frigidissimae undae incendium exstinxerunt. Tunc sorores miserrimi Phaetontis, cum fratrem mortuum vidissent, moestissimo vultu et copiosissimis lacrimis fleverunt ad in albas populos mutatae sunt. Nam, etiam aetate nostra, plurimae populi fluminis ripas ornant, dulcissimas umbras viatoribus fessis parant et memoriam miserrimi adulescentis et piissimarum sororum tradunt.

L’Eridano è di gran lunga il più vasto e ampio dei fiumi italici. Dalle Alpi, dove si trovano nevi perpetue e assai candide, nasce e confluisce attraverso una piacevole pianura nel mare Adriatico. Il suo corso è assai lungo, molto più del Tevere e dell’Arno. Le onde sono molto ripide nella parte di montagna da dove con un corso più placido e minore sfociano nel mare. Sulle rive dell’Eridanio vi sono molte città. Sulle sue rive raccontano anche una storia molto bella. Poichè Fetonte, figlio del Sole, si era avvicinato eccessivamente alla terra con il carro del padre, il Sole, affinchè Fetonte non bruciasse i floridi campi con il violento e tremendo calore, gettò il carro. Il carro cadde su una pianura molto fertile presso la spiaggia di Eridano e le onde assai fredde spensero il fuoco. Allora le sorelle del misero Fetonte, avendo visto il fratello morto, piansero con volto assai triste e moltissime lacrime e furono trasformate in chiari pioppi. Infatti anche alla nostra epoca, molti popoli ornano le rive del fiume, preparano dolcissime ombre ai viandanti stanchi e tramandano la memoria del povero fanciullo e delle buone sorelle.

“Attività colonizzatrici dei Greci”

Incolae insulae Euboeae Cumas in Italia condiderunt. Eorum classis cursus – ut ferunt antiqui rerum scriptore – columbae antecedentis volatu directus est. Longo temporis intervallo par Cumarun civium urbem Neapolim condidit. Et Cumani et Neapolitani semper populo Romano fidem servaverunt. Postea magna copia Gracae iuventis, abudantia virium sede quaeritans, in Asiam pervenit. Nam Iones, Athenas relinquentes, partem regioni matitimae occupaverunt, quae ex eorum nomine Ionia appellata est, urbesque nobiles costituerunt, Ephesum, Miletum, Colophonem, Phocaem, multasque insulas in Aegeo atque Icario mari occupaverunt, Samum, Chium, Andrum, Parum, Delum aliasque ignobiles. Aeolii quoque, e Graecia in Asiam navigantes, post longos errores illustria loca obtinuerunt clarasque urbes condiderunt, Smyrnam, Cymen, Larissam Mytilenasque et alias urbes, quae in insula Lesbo sunt.

Gli abitanti dell’isola Eubea avevano fondato Cuma in Italia. Il cammino della loro flotta – come mostrano gli storici – fu schierato dal volare delle colombe che precedevano. Molto tempo dopo una parte dei cittadini di Cuma fondò la città di Napoli. E Cumani e Napoletani rimanevano sempre fedeli al popolo romano. In seguito la grande ricchezza della gioventù greca, poichè cercavano sede di forte abbondanza, giunsero in Asia. Infatti gli Ioni, mentre lasciavano Atene, avevano occupato una parte delle regioni marittime, che dal loro nome venne chiamata Ionia, e costruirono famose città, Efeso, Mileto, Colofone, Focea, e occuparono molte isole nell’Egeo e nel mare Icario, Samo, Chio, Andro, Pero, Delo e altre volte città prive di fama. Anche gli Eoli navigando dalla Grecia in Asia, dopo lunghi errori occuparono famosi luoghi e fondarono famose città, Smino, Cime, Lairssa e Mytilena e anche altre città, che sono nell’isola di Lesbo.

“Ulisse acceca il ciclope Polifemo”

Vespere Polyphemus, postquam a paucis reverterat et pecus in speluncam redegerat, molem saxeam ingentem ad ianuam opposuit, Ulixem cum miseris sociis includens. Tum Ulixes exquisitas epulas et utrem vini generosi Cyclopi praebuit, hospitalitatem petens: “Esto misericors et clemens – inquit – in nos supplices et peregrinos laborantes; si autem crudelis fueris, Iuppiter, hospitum defensor, te puniet”. Sed Polyphemus, contemnens omnia deorum hominumque iura, acerbe respondit: “Iovem non metuo” et mox duos Ulixis socios necavit devoravitque. Tam atroci spectaculo perterritus, callidus Ulixes Cyclopem singulari artificio decepit ceteros servare temptans; multa pocula inebriantis vini Neptuni filio dedit donec is graviter dormivit. Tum Graecus dux per somnum monstri unum oculum trunco ardenti excussit et crudelem pastorem excaecavit. Postea Ulixes ac superstites socii e spelunca incolumes evaserunt et celeriter ad naves contenderunt.

Di sera Polifemo, dopo che era tornato dai pascoli e aveva ricondotto il gregge nella caverna, mise un grande masso enorme davanti all’entrata, chiudendo dentro Ulisse con gli sventurati compagni. Allora Ulisse, offrè al Ciclope squisite vivande e un otre di vino nobile, invocando l’ospitalità: “Sii misericordioso e clemente” – disse – “verso di noi supplici e stranieri affaticati; se sarai crudele, Giove, protettore degli ospiti, ti punirà”. Ma Polifemo, disprezzando ogni giuramento degli dei e degli uomini, rispose aspramente: “Non temo Giove” e subito uccise e divorò due compagni di Ulisse. Sconvolto da uno spettacolo tanto atroce, l’astuto Ulisse ingannò il ciclope con un singolare stratagemma cercando di salvare gli altri (compagni); diede molte coppe di vino inebriante al figlio di Nettuno finchè egli si addormentò pesantemente. Allora il comandante greco durante il sonno del mostro cavò il solo occhio con un tronco ardente ed accecò il crudele pastore. In seguito Ulisse e i compagni superstiti uscirono incolumi dalla caverna e velocemente si diressero alle navi.

“La battaglia di Canne”

Hannibal, Carthaginiensium strenuus dux, postquam apud Ticinum, Trebiam et Trasumenum lacum romanorum exercitus devicerat, in Apuliam pervenit et apud Cannas castra posuit. Contra Hannibalem L. Aemilius Paulus et M. Terentius Varro consules venerunt et cum hostium exercitu in planitie Cannensi prima diei hora aciem instruxerunt et proelium commiserunt. Romani usque ad vesperum strenue pugnaverunt sed gravem cladem acciperunt; Hannibal enim uno proelio consulum exercitus profligavit, Paulum consulem, qui inter primas acies fortiter pugnabat, mortifere vulneravit et aliquot praetera consulares occidit, peditum equitumque ingentem caedem fecit; milites superstites post cladem multos dies in agris perterriti erraverunt et Venusiam pervenerunt.

Annibale, valoroso condottiero dei Cartaginesi, dopo che aveva vinto l’esercito dei Romani presso il Ticino, il Trebbia e il lago Trasimeno, giunse in Puglia e pose l’accampamento presso Canne. Contro Annibale andarono i consoli L. Emiolio Paolo e M. Terenzio Varrone e con l’esercito dei nemici, nella pianura cannense, alla prima ora del giorno disposero l’esercito e iniziarono il combattimento. I Romani combatterono strenuamente fino a sera, ma ricevettero una grave sconfitta. Annibale infatti in un solo combattimento sconfisse l’esercito dei consoli. Colpì a morte il console Paolo, che tra le prime schiere combatteva valorosamente, e uccise numerosi consolari, fece una grande strage di fanti e cavalieri; i soldati superstiti dopo la disfatta, spaventati vagarono per molti giorni nei campi e giunsero al Venusio.

Aruspici

Haruspices magis vatum quam sacerdotum genus fuerunt, qui Romae senatus iussu aut consulum, victimarum exta inspiciebant, et, praesertim iecoris et cordis observatione, aut futura praedicebant aut prodigia et omina procurabant. Haruspicinam artem ab Etruscis Romani sumpserunt et per multos annos haruspices ab Etruria arcesserunt. Horum officium erat etiam fulmina sepelire; res enim tactas fulmine terra obruebant, spatiumque, in quod fulmen inciderat, puteali saepiebant. Tamen non omnes haruspicinae credebant; alii eam iudicabant summam stultitiam.

Gli aruspici erano una specie di indovini piuttosto che di sacerdoti, che a Roma per ordine del Senato o dei consoli, esaminavano le interiora delle vittime e, soprattutto con l’osservazione del fegato e del cuore, o predicevano il futuro o facevano previsioni e presagi. I Romani ereditarono l’arte degli aruspici dagli etruschi e per molti anni presero gli aruspici dall’Etruria. Era dovere di costoro anche annientare i fulmini; infatti sotterravano con la terra le cose colpite dal fulmine e circondavano di petali la superficie dove il fulmine si era abbattuto. Tuttavia non tutti avevano fiducia nell’arte degli aruspici; altri la giudicavano un’enorme sciocchezza.

“Pericle”

Pericles, Xantippi filius, vir egregio ongenio bonisque omnibus disciplinis ornatus, Atheniensium rem publicam multos annos rexit et omnes duces non solum fide ac virtute, sed etiam omnibus rebus sive publicis, sive privatis superavit. assiduis enim largitionibus civium gratiam sui conciliaverat et in bello rei militaris peritum se praebuerat. Itaque cives in Pericle omnem spem collocaverunt quia is domi militiaeque res bene gerebat. Praeterea Athenas splendidis monumentis decoravit, templa ex marmore aedificavit, Amphipolim Thuriosque colonos deduxit, apud omnes populos urbis famam auxit. Pestilentia decessit secundo Peloponnesiaci belli anno; Periclis mors rerum adversarum initium et atheniensis rei publicae perniciei causa fuit.

Pericle, figlio di Santippo, uomo di eccellente ingegno e fornito di tutte quante le buone conoscenze resse il governo degli Ateniesi per diversi anni e superò tutti i condottieri non solamente nella lealtà e nella virtù, ma pure in tutte le faccende, sia pubbliche che private. Infatti con elargizioni continue aveva attratto a sé il favore dei cittadini e si era mostrato abile nella cosa militare durante la guerra. Pertanto i cittadini riposero ogni speranza in Pericle in quanto questi conduceva nel miglior modo l’amministazione della patria e della guerra. Oltre a ciò decorò Atene con meragliosi monumenti, costruì tempi di marmo, condusse dei coloni ad Ampifoli e a Thuri, aumentò la gloria della città presso tutti i popoli. Morì a causa di una pestilenza durante il 2° anno della guerra del Peloponneso; la morte di Pericle fu causa d’inizio di sfavorevoli accadimenti e della rovina dello stato ateniese.

“Un buon presagio di vittoria”

Lucius Paulus Aemilius, Pauli filius, qui apud Cannas ceciderat, adversus Perseum, Macedonum regem, bellum administrabat. Quondam Tertiam eam advocavit et osculans: “Quid est?, inquit, mea Tertia? Cur tam maesta es?”. Tum Tertia: “Perse (sic Tertia appellbat catellam suam) quae heri aegrotabat, hodie animam effluvit”. Tum Aemilius eam suo sinu recepit, haec dicens: “Laetum verbum dixisti quod faustum augurium accipio”. Nam ex fortuitis verbis quasi bonum auspicium clari triumphi is praesumpsit.

Lucio Emilio Paolo, figlio di Paolo, che era morto a Canne, conduceva una guerra contro Perseo, re dei Macedoni. Un giorno convocò la sua Terzia e baciandola disse: “Che succede, Terzia mia? Perchè sei così triste?”. Allora Terzia (disse): “Perse (così Terzia chiamava la sua cagnolina), che ieri era malata, oggi è morta”. Allora Emilio la attirò al petto dicendo ciò: “Hai detto parole propizie che prendo come un fausto augurio”. Infatti da parole quasi casuali presuppose il buon auspicio di una famosa vittoria.

“La triste storia di eco”

In Beotiae silvis montanis vivebat nympha venusta, nomine Echo; vocem suavem habebat quae viatorum animos delectabat. Puella id sciebat et libenter cum iis verba faciebat; sed eius sermones incurrerunt in offensionem potentis Iunonis, Iovis uxoris, quae eam acerbe punivit et ei linguam sopivit. Ob deae poenam Echo, quamquam nec surda nec muta erat, interrogantibus respondere non poterat et cum verbum audiebat, ultimas tantum syllabas pronuntiabat. Puella tristis, quod sermonem cum ceteris Oreadibus habere non poterat, in silvas desertas obscurasque confugit.

Nei boschi montani della Beozia viveva una bella ninfa, di nome Eco; aveva una voce soave che dilettava gli animi dei viaggiatori. La fanciulla lo sapeva e parlava volentieri con essi; ma i suoi discorsi causarono l’offesa della potente Giunone, moglie di Giove, che la punì duramente e le bloccò la lingua. A causa della pena della dea, Eco, sebbene non fosse né sorda né muta, non poteva rispondere a chi la interrogava e quando sentiva una parola, pronunciava soltanto le ultime sillabe. La fanciulla, triste perché non poteva avere una conversazione con le altre Oreadi, si rifugiò in boschi lontani e selvaggi.

“Eco e narciso”

Echo olim incurrit Narcisso, iuveni admodum formoso sed natura difficili; iuvenis, amans solitudinem et hominum molestias vitare cupiens, solus in silvis remotis vivebat. Echo eum amare incepit. Sed Narcissus amorem adhuc ignorabat et cum nympham videbat, eam vitabat. Tunc infelix Echo in speluncam se adbidit ubi acri dolore tabuit: puellae miserae ossa in saxa se converterunt ac superfuit sola vox, quae adhuc viatoribus ultimas syllabas eorum postulatorum repetit. Sed dii Narcissum quoque puniverunt: fessus venationis labore, apud fontem hauriens in aquarum speculo imaginem suam vidit et eam valde amare incepit. Itaque eam captare temptans, in fontem cecidit et vitam amisit. Terra igitur gessit florem qui etiam nunc eius nomen habet.

Eco un giorno si imbatté in Narciso, un giovane molto bello ma dal carattere scontroso; il ragazzo, che amava la solitudine e desiderava evitare le molestie degli uomini, viveva da
solo in boschi lontani. Eco incominciò ad amarlo. Ma Narciso ignorava ancora l’amore e quando vedeva la ninfa la evitava. Allora l’infelice Eco si nascose in una grotta, dove languì di straziante dolore: le ossa della povera fanciulla si mutarono in pietre e sopravvisse la sola voce, che ancora oggi ripete ai viandanti le ultime sillabe delle loro domande. Ma gli dèi punirono anche Narciso: stanco per la fatica della caccia, mentre beveva ad una fonte, vide la sua immagine nello specchio dell’acqua e iniziò ad amarla intensamente. Così, tentando di afferrarla, cadde nella fonte e perse la vita. La terra allora generò un fiore che ha ancora il suo nome.

“Eroismo di Clelia”

Antiquissimis rei publicae temporibus, Porsena, Etruscorum rex, cum fortissimo exercitu Romam obsidebat. Castra posuerat in colle laniculo et a Romanis, qui indutias poscebant, virgines obsides nobilissimo genere ecceperat. Inter captivas Cloelia erat, maxime strenua virgo. Noctu autem Cloelia cum puellarum agmine e castris fugit; puellae enim custodes clam deceperunt et fugerunt; postea, Tiberis rapidissimas undas inter hostium tela tranaverunt et Romanam pervenerunt, ubi Cloelia patribus matribusque filias tradidit. Cum rex Porsena rem audivit, legatos Romanam misit, fugitivas reposcens; Romani senatores iustam regis iram putabant, quia inter Romanos atque Etruscos foendus erat. Tum Cloelia costantissimo animo ad Etruscorum castra rediit. Cloelia clarissima virtus commovit Porsenam, qui nobilissimae virgini libertatem et pretiosissimum donum praebuit. Romani in via Sacra strenuae virginis statuam posuerunt.

Negli antichissimi tempi della repubblica, Porsenna, re etrusco, con un fortissimo esercito assediava Roma. Aveva allestito l’accampamento sul colle Gianicolo e riceveva le ragazze assediate di nobilissima stirpe dai Romani che chiedevano tregua. Tra le prigioniere c’era Clelia, una ragazza molto valorosa. Di notte poi Clelia con la schiera di fanciulle, fugge dall’accampamento; le fanciulle infatti di nascosto ingannarono i custodi e fuggirono; dopo, passarono a nuoto le rapidissime onde del Tevere tra i dardi dei nemici e arrivarono a Roma, dove Clelia affidò le figlie ai padri e alle madri. Quando il re Porsenna seppe questo, mandò ambasciatori a Roma per richiedere le fuggitive. I senatori romani ritenevano giusta l’ira del re, perchè fra i Romani e gli Etruschi c’era un’alleanza. Allora Clelia con animo fermissimo tornò all’accampamento degli Etruschi. Lo splendido eroismo di Clelia commosse Porsenna che restituì la libertà alle nobilissime ragazze e un preziosissimo dono. I Romani collocarono nella via Sacra una statua della coraggiosa ragazza.

“Filippo il macedone”

Philippus, Amyntae filius, maior quam superiores Macedonum reges fuit et intra paucos annos regnum firmissimum constituit. Puer vixit apud Thebanos, in domo Epaminondae, strenui et invicti ducis; iuvenis patri in regnum successit. Regni initia difficillima fuerunt, inter asperrima adversariorum odia et plurimorum hostium insidias. Philippus mox notus apud omnes fuit perfidia et fraude, bella magis astutia quam aperta vi tractavit; multos hostes armis, plures doli superavit. Eo tempore multae Graecorum civitates acriore studio de imperio quam de communi salute certabant. Tum Philippus Graecorum simultates callide aluit et brevissimo tempore totam Graeciam in suam potestatem redegit. Filium habuit Alexandrum, quem posteri Magnum appellaverunt. Patris et filii ingenium dissimillimum fuit: prudentior et frugalior pater, audacior filius et animo melior et magnificentior.

Filippo, figlio di Aminta, fu più grande di (tutti) i precedenti re dei Macedoni e in pochi anni stabilì un fortissimo regno. Da bambino visse presso i Tebani, nella casa di Epaminonda, valoroso e invitto generale; da giovane subentrò al padre nel regno. Gli inizi del regno furono difficilissimi tra l’asperrimo odio degli avversari e le insidie di molti nemici. Filippo fu noto tra tutti i popoli per perfidia di senno e frode di animo, trattò raramente aperte le guerre con la forza, di più con l’astuzia. Superò molti nemici in armi molti con inganni. In quel tempo, molte città dei Greci non gareggiavano per la salvezza comune me per l’impero. Allora Filippo aumentò con furbizia l’inimicizia dei Greci e in breve tempo sottomise tutta la Grecia. Ebbe come figlio Alessandro, che i posteri chiamarono Magno. L’ingegno del padre e del figlio fu molto diverso: più prudente e frugale il padre, più audace il figlio e con migliore e più magnificente animo.

Tusculanae Disputationes, II, 18-19

18 – Ego a te non postulo, ut dolorem eisdem verbis adficias quibus Epicurus voluptatem, homo, ut scis, voluptarius. Ille dixerit sane idem in Phalaridis tauro, quod si esset in lectulo; ego tantam vim non tribuo sapientiae contra dolorem. Sit fortis in perferendo, officio satis est; ut laetetur etiam, non postulo. Tristis enim res est sine dubio, aspera, amara, inimica naturae, ad patiendum tolerandumque difficilis.
19 – Aspice Philoctetam, cui concedendum est gementi; ipsum enim Herculem viderat in Oeta magnitudine dolorum eiulantem. Nihil igitur hunc virum sagittae quas ab Hercule acceperat tum consolabantur cum

E viperino morsu venae viscerum
Veneno inbutae taetros cruciatus cient.
Itaque exclamat auxilium expetens, mori cupiens:
Heu! qui salsis fluctibus mandet
Me ex sublimo vertice saxi?
iam iam absumor, conficit animam
Vis vulneris, ulceris aestus.
Difficile dictu videtur eum non in malo esse, et magno quidem qui ita clamare cogatur.

18 – Io non ti chiedo di definire il dolore con gli stessi termini con cui Epicuro descriveva il piacere, oh uomo, che come sai, ha un grande interesse per il piacere. Egli nel toro di Falaride avrebbe detto esattamente le stesse parole, che avrebbe pronunciato se fosse stato sul divano; io non attribuisco alla sapienza tanta efficacia contro il dolore. Sia forte nel sopportare, il suo dovere è portato a termine; non pretendo anche che provi gioia. Infatti è senza dubbio un’esperienza triste, aspra, amara, contraria alla natura, difficile da sopportare e da tollerare.
19 – Guarda Filottete, che deve essere compatito se piange; infatti aveva visto Ercole che urlava sull’Eta per la violenza del dolore. Dunque le frecce che furono ricevute da Ercole non consolarono affatto quest’uomo nel momento in cui imbevute di veleno dal morso della vipera le vene delle viscere provocarono terribili patimenti. Perciò grida invocando aiuto, desiderando morire: ahi Chi mi darà ai flutti del mare gettandomi dalla cima della rupe? Di ora in ora mi consumo, la violenza della ferita, il bruciore della piaga, distruggono la mia vita. Sembra difficile dire che non si trovi in un male, e certamente grave chi è costretto a gridare così.

“Nell’arena”

Venationes in magnis amphitheatris Romanorum animos excitabant. In arenam cum ferocibus feris gladiatores descendebant, pugionibus,venabulis et hastis armati. Saeva animalia instigabant et unguium ac faucium incursiones summa cum peritia et calliditate vitabant; semper crudelem mortem oppetebant. Postremo gladiatores verbera letalia impingebant et ferae ad virorum pedes procumbebant, magno populi clamore et admiratione. Aliquando praetores inermes damnatos capite ad bestias mittebant in arenam: ita ferocia animalia hominum corporibus cibum capessebant.

I giochi nei grandi anfiteatri eccitavano gli animi dei Romani. I gladiatori scendevano nell’arena con animali feroci armati di pugnali, spiedi da caccia e lance. Istigavano gli animali e coraggiosamenti evitavano gli assalti delle unghie e delle fauci, sempre andavano incontro ad una morte crudele. Infine i gladiatori li percuotevano con bastoni mortali e le belve cadevano ai piedi degli uomini, con grande clamore ed ammirazione del popolo. Qualche volta i pretori mandavano nell’arena, contro le bestie, uomini inermi condannati a morte: così i feroci animali si cibavano con i corpi degli uomini.