“Un sogno ambiguo”

Singulari vir ingenio Aristoteles et paene divino scribit Eudemum Cyprium, familiarem suum, iter in Macedoniam facientem Pheras venisse; in eo igitur oppido ita graviter aegrum Eudeum fuisse, ut omnes medici diffiderent. Eudemo visus est in quiete egregia facie iuvenis dicere fore ut perbrevi convalesceret, paucisque diebus interiturum esse Alexandrum tyrannum quinquennioque post eum domum esse rediturum. Atque id quidem scribit Aristoteles consecutum esse, convaluisse Eudemum et ab uxoris fratribus interfectum esse tyrannum; quinto autem anno exeunte, cum esset spes ex illo somnio in Cyprum illum ex Sicilia esse rediturum, proeliantem eum ad Syracusas occidisse; ex quo ita illud somnium esse interpretatum, ut, cum animus Eudemi e corpore excesserit, tum domum revertisse videatur.

Aristotele, uomo di singolare intelligenza, quasi divina, scrive che Eudemo di Cipro, suo parente, dovendo intraprendere un viaggio verso la Macedonia, arrivò a Fere; dunque in quella città Eudemo si ammalò così gravemente che tutti i medici avevano perso ogni speranza. Un giovane di bell’aspetto apparve in sogno ad Eudemo, dicendo che in breve tempo sarebbe guarito e in pochi giorni sarebbe morto il tiranno Alessandro e dopo cinque anni sarebbe tornato a casa. Questo certamente, scrive Aristotele, successe: Eudemo guarì e il tiranno fu ucciso dai fratelli della moglie; ma dopo il quinto anno, pur essendoci speranza a causa di quel sogno che sarebbe tornato a Cipro dalla Sicilia, combattendo fu ucciso a Siracusa. Per questo così interpretò quel sogno, che essendo l’anima di Eudemo andata via dal corpo, allora sembrò che sarebbe tornata a casa.

“Stabilendo una pena per i parricidi i Romani si dimostrarono più saggi dei Greci”

Omnibus constat Athenas pulcherrimam et nobilissimam Graecarum civitatum fuisse, magistram sapientiae et omnium artium. Historici narrant antiquìtus Solonem, virum omnium Atheniensium sapientissimum, leges civitati dedisse, quibus civitas diu recta est. Multi cives, tamen, Solonem parum sapienter leges scripsisse putabant, quod nullum supplicium constituerat in eum qui parentem necavisset. Solon respondit se tale scelus neminem facturum esse putavisse. Verba Solonis probata sunt et omnes putabant eum sapientius quam ineptius fecisse quod nullam poenam constituerat de scelere quod antea commissum non erat. Romani tamen leges prudentius quam Graeci fecerunt! Nam, cum intellegerent homini malo ac pravo nihil esse tam sanctum ut violari non possit ira vel cupiditate, gravissimum et crudelissimum supplicium in parricidas excogitaverunt, ut magnitudo poenae a scelere summovere homines qui a legibus naturae in officio retineri non poterant. Ita maiores nostri parricidas insui voluerunt in culleum vivos atque ita in flumen deici.

A tutti risulta che Atene fosse stata la più bella e nobile delle città greche, maestra di sapienza e di ogni arte. Gli storici raccontano che fin dall’antichità Solone l’uomo più saggio fra tutti gli Ateniesi, avesse dato delle leggi alla città, dalle quali a lungo fu governata la cittadinanza. Molti cittadini tuttavia, ritenevano che Solone avesse scritto poco saggiamente le leggi, poiché non aveva stabilito nessuna pena contro coloro che avessero ucciso il padre. Solone rispose che riteneva che nessuno avrebbbe compiuto un tale delitto. Le parole di Solone furono approvate e tutti ritenevano che egli avesse agito più saggiamente che in modo inefficace, poiché non aveva stabilito niente su un delitto che precedentemente non era stato commesso. I Romani tuttavia predisposero le leggi in modo più saggio dei Greci! Infatti siccome intesero che per un uomo malvagio e disonesto nulla era tanto sacro da non poter essere violato per ira o per avidità, escogitarono una punizione molto pesante e crudele contro i parricidi, in modo che l’enormità del castigo tenesse lontano dal delitto gli uomini che non potevano essere trattenuti nel loro dovere dalle leggi della natura. Così i nostri avi vollero che i parricidi fossero chiusi vivi dentro un sacco con serpi e in tal modo gettati nel fiume.

De Amicitia, 18-19-20 (“L’amicitia dei boni”)

18 – Sed hoc primum sentio, nisi in bonis amicitiam esse non posse; neque id ad vivum reseco, ut illi qui haec subtilius disserunt, fortasse vere, sed ad communem utilitatem parum; negant enim quemquam esse virum bonum nisi sapientem. Sit ita sane; sed eam sapientiam interpretantur quam adhuc mortalis nemo est consecutus, nos autem ea quae sunt in usu vitaque communi, non ea quae finguntur aut optantur, spectare debemus. Numquam ego dicam C. Fabricium, M. Curium, Ti. Coruncanium, quos sapientes nostri maiores iudicabant, ad istorum normam fuisse sapientes. Quare sibi habeant sapientiae nomen et invidiosum et obscurum; concedant ut viri boni fuerint. Ne id quidem facient, negabunt id nisi sapienti posse concedi.
19 – Agamus igitur pingui, ut aiunt, Minerva. Qui ita se gerunt, ita vivunt ut eorum probetur fides, integritas, aequitas, liberalitas, nec sit in eis ulla cupiditas, libido, audacia, sintque magna constantia, ut ii fuerunt modo quos nominavi, hos viros bonos, ut habiti sunt, sic etiam appellandos putemus, quia sequantur, quantum homines possunt, naturam optimam bene vivendi ducem. Sic enim mihi perspicere videor, ita natos esse nos ut inter omnes esset societas quaedam, maior autem ut quisque proxime accederet. Itaque cives potiores quam peregrini, propinqui quam alieni; cum his enim amicitiam natura ipsa peperit; sed ea non satis habet firmitatis. Namque hoc praestat amicitia propinquitati, quod ex propinquitate benevolentia tolli potest, ex amicitia non potest; sublata enim benevolentia amicitiae nomen tollitur, propinquitatis manet.
20 – Quanta autem vis amicitiae sit, ex hoc intellegi maxime potest, quod ex infinita societate generis humani, quam conciliavit ipsa natura, ita contracta res est et adducta in angustum ut omnis caritas aut inter duos aut inter paucos iungeretur. Est enim amicitia nihil aliud nisi omnium divinarum humanarumque rerum cum benevolentia et caritate consensio; qua quidem haud scio an excepta sapientia nihil melius homini sit a dis immortalibus datum. Divitias alii praeponunt, bonam alii valetudinem, alii potentiam, alii honores, multi etiam voluptates. Beluarum hoc quidem extremum, illa autem superiora caduca et incerta, posita non tam in consiliis nostris quam in fortunae temeritate. Qui autem in virtute summum bonum ponunt, praeclare illi quidem, sed haec ipsa virtus amicitiam et gignit et continet nec sine virtute amicitia esse ullo pacto potest.

18 – Innanzi tutto la mia opinione è questa: l’amicizia può sussistere solo tra persone virtuose. E non taglio la questione sul vivo, come fanno coloro che discutono con troppa sottigliezza. Forse hanno ragione, ma non forniscono un grande contributo all’utilità comune. Dicono che nessuno, tranne il saggio, è un uomo virtuoso. Ammettiamo pure che sia così. Ma per saggezza intendono quella che nessun mortale, finora, ha mai raggiunto. Noi, invece, dobbiamo guardare alla pratica e alla vita di tutti i giorni, non alle fantasticherie o ai desideri. Non potrei mai dire che Caio Fabrizio, Manlio Curio e Tiberio Coruncanio, considerati saggi dai nostri antenati, lo fossero secondo il parametro di costoro. Perciò si tengano pure il loro nome fastidioso e incomprensibile di sapienti; ammettano almeno che i nostri compatrioti sono stati virtuosi. Ma non faranno neppure questo. Diranno che tale concessione si può fare solo al filosofo.
19 – Ragioniamo allora, come si dice, con l’aiuto della “grassa Minerva”. Uomini che si comportano, che vivono dimostrando lealtà, integrità morale, senso di equità, generosità, senza nutrire passioni sfrenate, dissolutezza, temerarietà, ma possedendo invece una grande coerenza (come i personaggi ora nominati), sono reputati virtuosi. Allora diamo loro anche il nome di virtuosi, perché seguono, nei limiti delle possibilità umane, la migliore guida per vivere bene, la natura. Mi sembra chiaro, infatti, che siamo nati perché si instauri tra tutti gli uomini un vincolo sociale, tanto più stretto quanto più si è vicini. Così agli stranieri preferiamo i concittadini, agli estranei i parenti. L’amicizia tra parenti, infatti, deriva dalla natura, ma difetta di sufficiente stabilità. Ecco perché l’amicizia è superiore alla parentela: dalla parentela può venir meno l’affetto, dall’amicizia no. Senza l’affetto, l’amicizia perde il suo nome, alla parentela rimane.
20 – Tutta la forza dell’amicizia emerge soprattutto dal fatto che, a partire dall’infinita società del genere umano, messa insieme dalla stessa natura, il legame si fa così stretto e così chiuso che tutto l’affetto si concentra tra due o poche persone. L’amicizia non è altro che un’intesa sul divino e sull’umano congiunta a un profondo affetto. Eccetto la saggezza, forse è questo il dono più grande degli dei all’uomo. C’è chi preferisce la ricchezza, chi la salute, chi il potere, chi ancora le cariche pubbliche, molti anche il piacere. Ma se i piaceri sono degni delle bestie, gli altri beni sono caduchi e incerti perché dipendono non tanto dalla nostra volontà quanto dai capricci della sorte. C’è poi chi ripone il bene supremo nella virtù: cosa meravigliosa, non c’è dubbio, ma è proprio la virtù a generare e a preservare l’amicizia e senza virtù l’amicizia è assolutamente impossibile.

“Vattene, Catilina”

Catilina, perge quo coepisti, egredere aliquando ex urbe; patent portae; proficiscere. Nimium diu te imperatorem tua illa Manliana castra desiderant. Educ tecum etiam omnes tuos, si minus, quam plurimos; purga urbem. Magno me metu liberabis, dum modo inter me atque te murus intersit. Nobiscum versari iam diutius non potes; non feram, non patiar, non sinam.Quae cum ita sint, Catilina, perge, quo coepisti, egredere aliquando ex urbe; patent portae; proficiscere. Nimium diu te imperatorem tua illa Manliana castra desiderant. Educ tecum etiam omnes tuos, si minus, quam plurimos; purga urbem. Magno me metu liberabis, dum modo inter me atque te murus intersit. Nobiscum versari iam diutius non potes; non feram, non patiar, non sinam. Magna dis inmortalibus habenda est atque huic ipsi Iovi Statori, antiquissimo custodi huius urbis, gratia, quod hanc tam taetram, tam horribilem tamque infestam rei publicae pestem totiens iam effugimus. Non est saepius in uno homine summa salus periclitanda rei publicae. Quamdiu mihi consuli designato, Catilina, insidiatus es, non publico me praesidio, sed privata diligentia defendi. Cum proximis comitiis consularibus me consulem in campo et competitores tuos interficere voluisti, compressi conatus tuos nefarios amicorum praesidio et copiis nullo tumultu publice concitato; denique, quotienscumque me petisti, per me tibi obstiti, quamquam videbam perniciem meam cum magna calamitate rei publicae esse coniunctam.

Catilina, porta a termine quanto hai cominciato! Lascia una buona volta la città! Le porte sono aperte. Vattene! L’accampamento di Manlio, il tuo accampamento, da troppo tempo aspetta te, suo generale. Porta via anche tutti i tuoi; se non tutti, quanti più puoi. Purifica la città! Mi libererai da una grande paura quando ci sarà un muro tra me e te. Non puoi più stare in mezzo a noi! Non intendo sopportarlo, tollerarlo, permetterlo. Dobbiamo grande riconoscenza agli dèi immortali e a Giove Statore, antichissimo custode della nostra città, per essere sfuggiti ormai molte volte a un flagello così spaventoso, orribile, abominevole per lo Stato. Un solo individuo non dovrà più metterne a repentaglio l’esistenza. Finché, Catilina, hai attentato alla mia vita, quando ero console designato, mi sono difeso ricorrendo a misure private, non alla forza pubblica. Quando poi, in occasione degli ultimi comizi consolari, in pieno Campo Marzio hai cercato di uccidere me, il console, e i tuoi competitori, ho sventato i tuoi tentativi criminali con la protezione e la forza di amici, senza suscitare disordini pubblici. Infine, tutte le volte che hai sferrato un colpo contro di me, l’ho parato con le mie forze: eppure vedevo che la mia fine avrebbe comportato una grave calamità per lo Stato.

Orationes, Pro Sestio, 68 (“L’eterna gloria degli eroi”)

Homines Graeci quos antea nominavi, inique a suis civibus damnati atque expulsi, tamen, quia bene sunt de suis civitatibus meriti, tanta hodie gloria sunt non in Graecia solum sed etiam apud nos atque in ceteris terris, ut eos a quibus illi oppressi sint nemo nominet, horum calamitatem dominationi illorum omnes anteponant. Quis Carthaginiensium pluris fuit Hannibale Consilio, virtute, rebus gestis, qui unus cum tot imperatoribus nostris per tot annos de imperio et de gloria decertavit? Hunc sui cives e civitate eiecerunt: nos etiam hostem litteris nostris et memoria videmus esse celebratum. Qua re imitemur nostros Brutos, Camillos, Ahalas, Decios, Curios, Fabricios, maximos, Scipiones, Lentulos, Aemilios, innumerabilis alios qui hanc rem publicam stabiliverunt; quos equidem in deorum immortalium coetu ac numero repono. Amemus patriam, pareamus senatui, consulamus bonis; praesentis fructus neglegamus, posteritatis gloriae serviamus; id esse optimum putemus quod erit rectissimum; speremus quae volumus, sed quod acciderit feramus; cogitemus denique corpus virorum fortium magnorum hominum esse mortale, animi vero motus et virtutis gloriam sempiternam; neque hanc opinionem si in ilio sanctissimo hercule consecratam videmus, cuius corpore ambusto vitam eius et virtutem immortalitas excepisse dicatur, minus existimemus eos qui hanc tantam rem publicam suis consiliis aut laboribus aut auxerint aut defenderint aut servarint esse immortalem gloriam consecutos.

Gli uomini greci che ho nominato prima, benché condannati e scacciati ingiustamente dai loro concittadini, tuttavia poiché furono benemeriti delle loro città, sono oggi in tanta gloria non solo in Grecia ma anche presso di noi e in tutte le terre che nessuno nomina coloro, dai quali essi furono perseguitati e tutti preferiscono la disgrazia di costoro alla dominazione di quelli. Chi tra i Cartaginesi fu superiore ad Annibale in saggezza, valore e gesta, l’unico che combatté per tanti anni contro tanti nostri condottieri per la supremazia e per la gloria. I suoi concittadini scacciarono costui dalla città: noi invece vediamo che, da nemico, è stato celebrato nella nostra letteratura e nella nostra storia. Perciò imitiamo i nostri Bruti, Camilli, Ahala, Decii, Curii, Fabrizi, Massimi, Scipioni, Lentuli, Emilii e innumerevoli altri che hanno consolidato questo Stato; io, per me, li pongo nel novero e nell’assemblea degli dei immortali. Amiamo la patria, obbediamo al senato, provvediamo alle persone oneste; trascuriamo i vantaggi immediati, operiamo per la gloria presso i posteri; pensiamo che la cosa migliore sia quella che sarà la più giusta; speriamo che ciò che vogliamo (si avveri), ma sopportiamo ciò che accadrà; è eternale, se vediamo questa opinione consacrata in quel venerando, del quale si dica che, bruciato il corpo, l’immortalità ha risparmiato la vita e il coraggio, non meno apprezzeremo che quelli, che aumentarono o difesero o conservarono questo così importante stato con le loro decisioni o le loro fatiche, abbiano conseguito la gloria immortale.

Orationes, In Catilinam, IV, 20 (“Cicerone padre della patria”)

Nunc, antequam ad sententiam redeo, de me pauca dicam. Ego, quanta manus est coniuratorum, quam videtis esse permagnam, tantam me inimicorum multitudinem suscepisse video; sed eam esse iudico turpem et infirmam et [contemptam et] abiectam. Quodsi aliquando alicuius furore et scelere concitata manus ista plus valuerit quam vestra ac rei publicae dignitas, me tamen meorum factorum atque consiliorum numquam, patres conscripti, paenitebit. Etenim mors, quam illi fortasse minitantur, omnibus est parata; vitae tantam laudem, quanta vos me vestris decretis honestastis, nemo est adsecutus. Ceteris enim bene gesta, mihi uni conservata re publica gratulationem decrevistis.

Ora, prima che io torni alla mia opinione, dirò poche cose di me stesso. Io vedo che quanto è ampia l’accolta dei congiurati, che voi vedete essere amplissima, tanta congerie di nemici ho guadagnato; ma io la giudico turpe, debole, disprezzabile ed abbietta. Che se, per avventura, per la furia delittuosa di qualcuno, questa accolta dovesse valere più della dignità vostra e della Repubblica, io, tuttavia, o Padri coscritti, mai mi pentirei delle mie azioni e dei miei consigli. Infatti la morte, che quelli forse mi minacciano, è pronta di fronte a tutto; nessuno ha ottenuto tanta lode di vita quanta voi mi avete attribuito con le vostre deliberazioni. Voi, infatti, a tutti gli altri avete decretato il ringraziamento per le cose ben fatte, solo a me per aver salvato la Repubblica.

Orationes, Pro Sestio, XIX, 42-43

Haec ergo cum viderem,­ neque enim erant occulta, ­senatum, sine quo civitas stare non posset, omnino de civitate esse sublatum; consules, qui duces publici consili esse deberent, perfecisse ut per ipsos publicum consilium funditus tolleretur; eos qui plurimum possent opponi omnibus contionibus falso, sed formidolose tamen, auctores ad perniciem meam; contiones haberi cotidie contra me; vocem pro me ac pro re publica neminem mittere; intenta signa legionum existimari cervicibus ac bonis vestris falso, sed putari tamen; coniuratorum copias veteres et effusam illam ac superatam Catilinae importunam manum novo duce et insperata commutatione rerum esse renovatam: ­haec cum viderem, quid agerem, iudices? Scio enim tum non mihi vestrum studium, sed meum prope vestro defuisse. Contenderem contra tribunum plebis privatus armis? Vicissent improbos boni, fortes inertis; interfectus esset is qui hac una medicina sola potuit a rei publicae peste depelli. Quid deinde? Quis reliqua praestaret? Cui denique erat dubium quin ille sanguis tribunicius, nullo praesertim publico consilio profusus, consules ultores et defensores esset habiturus? Cum quidam in contione dixisset aut mihi semel pereundum aut bis esse vincendum. Quid erat bis vincere? Id profecto, ut, (si) cum amentissimo tribuno plebis decertassem, cum consulibus ceterisque eius ultoribus dimicarem.

Quindi poiché vedevo queste cose (e infatti non sono state nascoste), cioè che il senato, senza il quale una città non può rimanere salda, è del tutto abolito dalla città; che i consoli, che dovrebbero essere i comandanti delle decisioni pubbliche, hanno fatto in modo che le decisioni pubbliche fossero completamente abolite attraverso di loro; che coloro che hanno moltissimo potere si oppongono a tutte le assemblee falsamente, ma tuttavia paurosamente, e sono gli autori della mia sventura; che si tengono quotidianamente assemblee contro di me; che nessuno emette sentenze per me o per lo stato; le antiche truppe di congiurati e quella lotta pericolosa di Catilina sciolta e sconfitta da un nuovo comandante e da un insperato cambiamento delle cose, è stata restaurata: vedendo queste cose, cosa avrei dovuto fare, giudici? So infatti che allora non manca a me la vostra passione, ma la mia manca quasi alla vostra. Avrei dovuto lottare contro il tribuno della plebe privato delle armi? Supponiamo che gli onesti avessero sopraffatto i malvagi, e i forti i deboli; colui che con quest’unica medicina ha potuto essere allontanato dalla rovina dello stato sarebbe stato ucciso. E quindi? Chi avrebbe potuto fare le restanti cose? C’era qualche dubbio che tutt’al più il sangue di quel tribuno – soprattutto perché versato senza pubblico avallo – avrebbe avuto i consoli in veste di propri difensori e vendicatori? C’è stato uno, in una pubblica assemblea, che ha affermato che io sarei dovuto morire o risultare due volte vittorioso. Che voleva significare quel vincere due volte? Con buona probabilità, il fatto che (se) mi fossi scontrato con un tribuno della plebe, fosse anche il più dissennato, avrei dovuto affrontare anche i consoli e gli altri suoi vendicatori.

“Quanto tempo mi rimane?”

Haec ego multo ante prospiciens fugiebam ex Italia tum, cum me vestrorum edictorum fama revocavit; incitavisti vero tu me, Brute, Veliae. Quamquam enim dolebam in eam me urbem ire quam tu fugeres qui eam liberavisses, quod mihi quoque quondam acciderat periculo simili, casu tristiore, perrexi tamen Romamque perveni nulloque praesidio quatefeci Antonium contraque eius arma nefanda praesidia quae oblata sunt Caesaris consilio et auctoritate firmavi. Qui si steterit fide mihique paruerit, satis videmur habituri praesidi; sin autem impiorum consilia plus valuerint quam nostra aut imbecillitas aetatis non potuerit gravitatem rerum sustinere, spes omnis est in te. Quam ob rem advola obsecro, atque eam rem publicam, quam virtute atque animi magnitudine magis quam eventis rerum liberavisti, exitu libera. Omnis omnium concursus ad te futurus est. hortare idem per litteras Cassium. Spes libertatis nusquam nisi in vestrorum castrorum principiis est. Firmos omnino et duces habemus ab occidente et exercitus. hoc adulescentis presidium equidem adhuc firmum esse confido, sed ita multi labefactant ut ne moveatur interdum extimescam. Habes totum rei publicae statum, qui quidem tum erat, cum has litteras dabam. Velim deinceps meliora sint. Sin aliter fuerit, (quod di omen avertant!) rei publicae vicem dolebo quae immortalis esse debebat; mihi quidem quantulum reliqui est?

Io prevedendo molto tempo prima queste cose allora fuggivo dall’Italia, quando la notizia delle vostre ordinanze mi richiamò; tu in verità mi hai spronato, o Bruto, a Velia. Sebbene infatti mi rattristavo andare in quella città che tu fuggiresti giacché l’avessi liberata, poiché anche una volta mi era accaduto un simile pericolo, per un’occasione più triste, tuttavia mi incamminai e giunsi a Roma e senza alcun aiuto ho indebolito la posizione di Antonio e contro le scorte di lui nefande armi quelle che furono opposte per decisione di Cesare ed io ho rafforzato con autorità. Ed egli se fosse rimasto fermo alla parola data e mi avesse obbedito, ci sembrava sufficiente che avrebbe avuto gli aiuti; se invece avesse più tenuto conto i consigli dei malvagi anziché i nostri o non avesse potuto sostenere l’infermità dell’età la gravità delle vicende, tutta la speranza era in te. Perciò ti prego affrettati, libera con successo anche questa repubblica quella che hai liberato con coraggio e grandezza d’animo più che con avvenimenti. Completo sarebbe il concorso di tutti verso di te. La medesima cosa consigliava tramite lettere Cassio. La speranza della liberta e riposta nei capi dei vostri accampamenti. Abbiamo condottieri assolutamente saldi da occidente anche l’esercito. Confido che questo presidio di adolescente in vero fino ad ora sia stabile, ma cosi molti vacillano tanto che tema talvolta di non muoversi. Hai la stabilita dello stato, che anche allora c’era, quando affidavo questa lettera. Vorrei che in seguito ci siano cose migliori. Se sarà diversamente, (che gli dei disperdano quest’augurio!) a vicenda mi dorrò della repubblica che doveva essere eterna; quanto poco dunque mi resta?

“Bisogna sempre mantenere la moderazione”

Cicero in libris, quos de officiis servandis scripsit, ait achibendum esse modum ulciscendi et puniendi etiam adversus eos, a quibus iniuram acceperimus, et etiam in bellis qerendis maxime conservando esse iura qentium. Nam, cum sint duo qenera decertandi, unum per disceptationem, alterum per vim, confuqiendum est ad posterius, solum si uti non licet superiore. Quare bella suscipere oportet solum ut, nos defendendo, in pace vivamus. Post victoriam autem honestum et probum est eos conservare, qui non crudeles, non immanes, in bello qerendo fuerunt. Prisci Romani Tusculanos, Aequos, Volscos in civitatem accipiendos putaverunt; at, Carthaqine funditus eruenda, Poenis omnem renovandi belli opportunitatem sustulerunt. Ceterum ait Cicero semper paci, quae nihil insidiarum habitura sit, consulendum esse et recipiendos esse illos, qui, postquam arma posuerint, ad victoris fidem confugerint, spe veniam et clementiam consequendi.

Cicerone nei libri, che scrisse sul rispetto dei doveri, afferma che si deve applicare un limite alla vendetta e alla punizione anche nel confronti di coloro, dai quali avremo ricevuto offesa, e anche che nel condurre le guerre soprattutto devono essere osservati i diritti dei popoli. Infatti, dal momento che sono due i generi del contendere, uno attraverso la discussione, l’altro attraverso la forza, ci si deve rifugiare in quest’ultimo, solo se non è possibile avvalersi del primo. Perciò è necessario intraprendere guerre solo perchè viviamo in pace difendendoci. Dopo la vittoria infatti è dignitoso e virtuoso salvare coloro che non sono stati crudeli e feroci nel fare guerra. Gli antichi Romani ritennero di dover concedere la cittadinanza (fare cittadini romani) i Tuscolani, gli Equi, i Volsci; ma, col distruggere dalle fondamenta Cartagine, tolsero ai Cartaginesi ogni opportunità di rinnovare la guerra. Per il resto Cicerone afferma che si deve sempre provvedere alla pace, che non sia destinata ad avere nessuna insidia, e si devono accogliere quelli che, dopo che hanno deposto le armi, si siano rimessi alla lealtà del
vincitore, con la speranza di ottenere perdono e clemenza.

“Bisogna resistere alla vecchiaia”

Resistendum, Laeli et Scipio, senectuti est eiusque vitia diligentia compensanda sunt. Pugnandum, tamquam contra morbum sic contra senectutem. Habenda ratio valetudinis: utendum exercitatonibus modicis; tantum cibi et potionis adhibendum, ut reficiantur vires, non opprimantur. Nec vero corpori solum subveniendum est, sed menti atque animo multo magis: nam haec quoque, nisi tamquam lumini oleum instilles, exstinguuntur senecute. Et corpora quidem exercitationum defatigatione ingravescunt; animi autem se exercendo levantur.

Bisogna resistere, Lelio e Scipione, alla vecchiaia e compensare i suoi difetti con cura. Bisogna combattere contro la vecchiaia così come contro una malattia. Bisogna aver riguardo della salute: bisogna fare esercizi fisici moderati; bisogna usare quel tanto di cibo e di bevande affinchè le forze siano rinvigorite senza essere appesantite. E in verità non bisogna provvedere solo al corpo, ma molto di più alla mente e all’animo: infatti anche questi, se tu non instilli olio come ad un lume, si estinguono con la vecchiaia. E i corpi sì, si appesantiscono con l’affaticamento degli esercizi, gli animi invece, esercitandosi, si risollevano.

“Boni contro improbi”

Sic enim existimare debetis, Quirites, post hominum memoriam rem nullam maiorem, magis periculosam, magis ab omnibus vobis providendam neque a tribuno plebis susceptam neque a consule defensam neque ad populum Romanum esse delatam. Agitur enim nihil aliud in hac causa, Quirites, nisi ut nullum sit posthac in re publica publicum consilium, nulla bonorum consensio contra improborum furorem et audaciam, nullum extremis rei publicae temporibus perfugium et praesidium salutis. Quae cum ita sint, primum, quod in tanta dimicatione capitis, famae fortunarumque omnium fieri necesse est, ab Iove Optimo Maximo ceterisque dis deabusque immortalibus, quorum ope et auxilio multo magis haec res publica quam ratione hominum et consilio gubernatur, pacem ac veniam peto precorque ab eis ut hodiernum diem et ad huius salutem conservandam et ad rem publicam constituendam inluxisse patiantur. Deinde vos, Quirites, quorum potestas proxime ad deorum immortalium numen accedit, oro atque obsecro, quoniam uno tempore vita C. Rabiri, hominis miserrimi atque innocentissimi, salus rei publicae vestris manibus suffragiisque permittitur, adhibeatis in hominis fortunis misericordiam, in rei publicae salute sapientiam quam soletis.

Così infatti, o Romani, dovete valutare che a memoria d’uomo (non c’è) nessuna cosa più importante, più rischiosa, e che maggiormente da tutti voi deve essere considerata con prudenza, né che è stata intrapresa da un tribuno della plebe, né che è stata tutelata da un console, né che è stata presentata al popolo romano. In effetti in questo processo non si discute di null’altro, o Romani, se non del fatto che in futuro nella repubblica non ci sia nessuna assemblea pubblica, nessuna alleanza dei (cittadini) onesti contro la furia e l’insolenza dei malvagi, nessun rifugio e nessuna garanzia di benessere nelle congiunture più gravi della repubblica. Dal momento che le cose stanno così, poiché in una così grave contesa capite bene che ne va della gloria e delle sorti di tutti, è necessario per prima cosa che io invochi la benevolenza e il favore da Giove Ottimo Massimo e da tutti gli altri dei e dee immortali, dalla cui autorità e protezione questa repubblica è governata assai più che dal raziocinio e dalla saggezza degli uomini, e imploro essi affinché facciano sì che il giorno odierno sia venuto alla luce sia per preservare il benessere della repubblica sia per fondare una (nuova) repubblica. In seconda battuta scongiuro e supplico voi, o Romani, il cui potere si avvicina molto alla potenza degli dei immortali, poiché la vita di C. Rabirio, uomo infelicissimo e assolutamente innocente, e il benessere della repubblica sono rimessi contemporaneamente nelle vostre mani e nei vostri suffragi, di dimostrare riguardo alla sorte dell’uomo la misericordia, riguardo al benessere della repubblica la saggezza di cui siete soliti far mostra.

“Tornare bambini”

Saepe ex socero meo audivi cum is diceret socerum Laelium semper fere cum Scipione solitum esse rusticari eosque incredibiliter repuerascere esse solitos, cum rus ex urbe tamquam e vinculis evolavissent. Non audeo dicere de talibus viris, sed tamen ita solet narrare Scaevola, conchas eos et umbilicos ad Caietam et ad Laurentum legere consuesse et ad omnem animi remissionem ludumque descendere. Sic enim res sese habet, ut, quem ad modum Volucres videmus effingere et construere nidos, easdem autem, cum aliquid effecerint, levandi laboris sui causa passim ac libere, solutas opere, volitare, sic nostri animi, negotiis forensibus atque urbano opere defessi, gestiant ac volitare cupiant vacui cura ac labore.

Spesso l’ho sentito dire da mio suocero, poiché egli diceva che suo suocero Lelio quasi sempre era solito alloggiare in campagna con Scipione e che essi erano soliti tornare incredibilmente bambini, essendo scappati via dalla città in campagna, quasi come dalla prigione. Non oso parlare di tali uomini, ma tuttavia Scevola è solito narrare così, che essi erano soliti raccogliere conchiglie e piante presso Gaeta e Laurento e abbandonarsi ad ogni divertimento e passatempo. La situazione sta infatti in questi termini, che, come vediamo gli uccelli che modellano e costruiscono nidi, ma poi essi stessi, dopo aver completato qualcosa, al fine di alleggerire la propria fatica, svolazzano di qua e di là liberamente, liberi dal lavoro; allo stesso modo, i nostri animi, liberi dagli impegni politici e dal lavoro cittadino, gioiscono e desiderano vagare liberi da preoccupazione e fatica.

“L’amicizia epicurea”

Cum solitudo et vita sine amicis insiadiarum et metus plena sit, ratio ipsa monet amicitias comparare, quibus partis confirmatur animus et a spe pariendarum voluptatum seiungi non potest. Atque ut odia, invidiae, despicationes adversantur voluptatibus, sic amicitiae non modo fautrices fidelissimae, sed etiam effectrices sunt voluptatum tam amicis quam sibi; quibus non solum praesentibus fruuntur, sed etiam spe eriguntur consequentis ac posteri temporis. Quod quia nullo modo sine amicitia firmam et perpetuam iucunditatem vitae tenere possumus neque vero ipsam amicitiam tueri, nisi aeque amicos et nosmet ipsos diligamus, idcirco et hoc ipsum efficitur in amicitia, et amcitia cum voluptate conectitur. Nam et laetamur amicorum laetitia aeque atque nostra et pariter dolemus angoribus. Quocirca eodem modo sapiens erit affectus erga amicum, quo in se ipsum, quosque labores propter suam voluptatem susciperet, eosdem susciepiet propter amici voluptatem.

Essendo la solitudine e la vita senza amici piena di insidie e paura, la ragione stessa esorta a stringere amicizia, procuratesi le quali l’animo si rafforza e non può separarsi dalla speranza del procurarsi i piaceri. E come gli odi, le invidie, ogni specie di disprezzo si oppongono ai piaceri, così le amicizie fedelissime non sono soltanto fautrici ma sanno anche procurare piaceri tanto agli amici che a se stessi; di esse (amicizie) non solo godono quando sono presenti ma sono anche innalzati dalla speranza del tempo vicino e di quello futuro. E poichè in nessun modo senza amicizia possiamo mantenere una perpetua giocondità di vita e in verità non possiamo difendere la stessa amicizia se non apprezziamo con equità gli amici come noi stessi. E perciò proprio questo succede nell’amicizia, e l’amicizia è legata insieme con i piaceri. Infatti gioiamo con equità sia per la gioia degli amici che per la nostra e ci lamentiamo allo stesso modo per la tristezza. Di conseguenza nello stesso modo il sapiente sarà disposto nell’animo verso un amico, quanto verso se stesso, e qualnque fatica sostenga per suo piacere, sosterrà le stesse per il piacere di un amico.

“L’arrivo in Italia del poeta Archia”

Nam ut primum ex pueris excessit Archias, atque ab eis artibus quibus aetas puerilis ad humanitatem informari solet se ad scribendi studium contulit, primum Antiochiae – nam ibi natus est loco nobili -celebri quondam urbe et copiosa, atque eruditissimis hominibus liberalissimisque studiis adfluenti, celeriter antecellere omnibus ingeni gloria contigit. Post in ceteris Asiae partibus cunctaeque Graeciae sic eius adventus celebrabantur, ut famam ingeni exspectatio hominis, exspectationem ipsius adventus admiratioque superaret. Erat Italia tunc plena Graecarum artium ac disciplinarum, studiaque haec et in Latio vehementius tum colebantur quam nunc eisdem in oppidis, et hic Romae propter tranquillitatem rei publicae non neglegebantur. Itaque hunc et Tarentini et Regini et Neopolitani civitate ceterisque praemiis donarunt; et omnes, qui aliquid de ingeniis poterant iudicare, cognitione atque hospitio dignum existimarunt. Hac tanta celebritate famae cum esset iam absentibus notus, Romam venit Mario consule et Catulo.

Infatti, non appena Archia uscì dalla fanciullezza e lasciata quella prima fase educativa che di solito avvia i ragazzi alla cultura, si dedicò all’arte della scrittura ed ebbe il merito di superare tutti per la fama del suo talento, prima ad Antiochia – dove nacque da nobile famiglia -, città un tempo popolosa, ricca, meta di uomini dottissimi e fiorente di studi liberali. Poi in tutte le altre parti dell’Asia e in tutta la Grecia il suo arrivo era motivo di tale affluenza di persone che l’attesa del personaggio era superiore alla fama del suo talento e l’ammirazione per lui superava l’attesa del suo arrivo. A quel tempo in Italia si coltivava con passione la cultura greca: nelle città del Lazio ci si dedicava a quello studio con maggiore dedizione di quanto si faccia oggi nelle stesse località, e anche qui a Roma, città allora tranquilla sotto il profilo politico. Ecco perché gli abitanti di Taranto, Reggio e Napoli concessero ad Archia il diritto di cittadinanza e altri riconoscimenti: chiunque fosse in grado di apprezzare le persone di talento, desiderava vivamente conoscerlo e ospitarlo in casa sua. Con questa fama che si era diffusa ovunque, anche in luoghi da lui mai visitati, arrivò a Roma al tempo del consolato di Mario e Catulo.

De Officis, I, 122 (“Doveri dei giovani”)

Et quoniam officia non eadem disparibus aetatibus tribuuntur aliaque sunt iuvenum, alia seniorum, aliquid etiam de hac distinctione dicendum est. Est igitur adulescentis maiores natu vereri exque iis deligere optimos et probatissimos, quorum consilio atque auctoritate nitatur; ineuntis enim aetatis inscitia senum constituenda et regenda prudentia est. Maxime autem haec aetas a libidinibus arcenda est exercendaque in labore patientiaque et animi et corporis, ut eorum et in bellicis et in civilibus officiis vigeat industria. Atque etiam cum relaxare animos et dare se iucunditati volent, caveant intemperantiam, meminerint verecundiae, quod erit facilius, si in eiusmodi quidem rebus maiores natu nolent interesse.

Ancora le diverse età non hanno gli stessi doveri: altri sono i doveri dei giovani, altri quelli dei vecchi. A proposito di questa distinzione conviene perciò dire qualche cosa. E’ dovere del giovane rispettare gli anziani, scegliendo tra essi i più specchiati e stimati, per appoggiarsi al loro autorevole consiglio; perché l’inesperienza giovanile ha bisogno di essere sorretta e guidata dalla saggezza dei vecchi. E soprattutto bisogna tener lontani i giovani dai piaceri sensuali, ed esercitarli nel tollerare le fatiche e i travagli dell’animo e del corpo, sì che possano adempiere con vigorosa energia i loro doveri militari e civili. E anche quando vorranno allentare lo spirito e abbandonarsi alla letizia, si guardino dall’intemperanza e si ricordino del pudore; cosa che riuscirà loro tanto più facile se non impediranno che a ricreazioni di tal genere assistano gli anziani.

In Verrem, II, 1, 48-49-50

48 – Qua ex opinione hominum illa insula eorum deorum sacra putatur, tantaque eius auctoritas religionis et est et semper fuit ut ne Persae quidem, cum bellum toti Graeciae, dis hominibusque, indixissent, et mille numero navium classem ad Delum adpulissent, quicquam conarentur aut violare aut attingere. Hoc tu fanum depopulari, homo improbissime atque amentissime, audebas? Fuit ulla cupiditas tanta quae tantam exstingueret religionem? Et si tum haec non cogitabas, ne nunc quidem recordaris nullum esse tantum malum quod non tibi pro sceleribus tuis iam diu debeatur?
49 – In Asiam vero postquam venit, quid ego adventus istius prandia, cenas, equos muneraque commemorem? Nihil cum Verre de cotidianis criminibus acturus sum: Chio per vim signa pulcherrima dico abstulisse, item Erythris et Halicarnasso. Tenedo “” praetereo pecuniam quam eripuit “” Tenem ipsum, qui apud Tenedios sanctissimus deus habetur, qui urbem illam dicitur condidisse, cuius ex nomine Tenedus nominatur, hunc ipsum, inquam, Tenem pulcherrime factum, quem quondam in comitio vidistis, abstulit magno cum gemitu civitatis.
50 – Illa vero expugnatio fani antiquissimi et nobilissimi Iunonis Samiae quam luctuosa Samiis fuit, quam acerba toti Asiae, quam clara apud omnis, quam nemini vestrum inaudita de qua expugnatione cum legati ad C. Neronem in Asiam Samo venissent, responsum tulerunt eius modi querimonias, quae ad legatos populi Romani pertinerent, non ad praetorem sed Romam deferri oportere. Quas iste tabulas illinc, quae signa sustulit! Quae cognovi egomet apud istum in aedibus nuper, cum obsignandi gratia venissem.

48 – A motivo di tale leggenda, quell’isola è ritenuta sacra a quegli dei, e la sacralità di tal culto è ed è sempre stata tale che neanche i Persiani – pur avendo dichiarato guerra all’intera Grecia, (ovvero sia ai suoi) uomini (che ai suoi) dei, e pur essendo approdati a Delo con una flotta di mille navi – non s’azzardavano a violare o sfiorare alcunchè. Ed è questo santuario che tu, mostro di folle iniquità, osavi saccheggiare? C’è mai stata un’avidità così ingorda da annientare un sì profondo sentimento religioso? E se allora non ti passavano per la testa questi pensieri, neppure adesso i tuoi ricordi ti dicono che non c’è alcuna punizione così grave di cui tu non sia già da tempo meritevole per le tue scellerate azioni?
49 – Una volta, poi, che fu giunto in Asia, a ricordare i pranzi, le cene, i cavalli e i doni che gli venivano fatti al suo ingresso nelle città? Non ho alcuna intenzione di occuparmi di fatti che si potrebbero rimproverare giorno per giorno a Verre: da Chio questo io dico portò via colla violenza delle bellissime statue, lo stesso fece a Eritre e ad Alicarnasso. Da Tenedo – del denaro trafugato non faccio cenno portò via – tra l’intenso cordoglio della cittadinanza, Tene addirittura, considerato da quegli isolani, che lo ritengono il fondatore eponimo della città di Tenedo, la più santa delle divinità, una statua di bellissima fattura che voi avete visto qualche volta nel Comizio.
26 – E l’attacco all’antichissimo e famosissimo santuario di Giunone a Samo, che egli prese d’assalto, quanto lutto procurò ai Samii, quanto dolore a tutta l’Asia, un crimine notorio a tutti, e nessuno di voi non ha sentito parlare di quest’assalto quando giunse una delegazione di Samo a C. Nerone, in Asia ed egli rispose che delle lagnanze come le loro, che concernevano dei legati del popolo romano, andavano fatte non già a un pretore ma a Roma. Che quadri, che statue costui ha rapinato da lì! Le ho viste coi miei stessi occhi in casa sua, poco tempo fa, quando (lì) mi son recato per apporre i sigilli.

“Una questione complessa nella fase della confutazione”

Haec sunt omnia ingeni vel mediocris, exercitationis autem maximae; artem quidem et praecepta dumtaxat hactenus requirunt, ut certis dicendi luminibus ornentur. Itemque illa, quae sunt alterius generis, quae tota ab oratore pariuntur, excogitationem non habent difficilem, explicationem magis inlustrem perpolitamque desiderant; itaque cum haec duo nobis quaerenda sint in causis, primum quid, deinde quo modo dicamus, alterum, quod totum arte tinctum videtur, tametsi artem requirit, tamen prudentiae est paene mediocris quid dicendum sit videre; alterum est, in quo oratoris vis illa divina virtusque cernitur, ea, quae dicenda sunt, ornate, copiose varieque dicere. Qua re illam partem superiorem, quoniam semel ita vobis placuit, non recusabo quo minus perpoliam atque conficiam – quantum consequar, vos iudicabitis – quibus ex locis ad eas tris res, quae ad fidem faciendam solae valent, ducatur oratio, ut et concilientur animi et doceantur et moveantur. Ea vero quem ad modum inlustrentur, praesto est, qui omnis docere possit, qui hoc primus in nostros mores induxit, qui maxime auxit, qui solus effecit.

Nessuno di essi richiede un cervello eccezionale, ma tutti però richiedono un continuo esercizio; richiedono anche la conoscenza, delle norme della retorica, ma solo per essere rivestiti con gli ornamenti dello stile. Così pure le prove del secondo genere, che sono tutte create dall’oratore, non presentano difficoltà d’invenzione, ma piuttosto di esposizione, un’esposizione, dico, che sia chiara e forbita; poiché due dunque sono gli scopi che ci dobbiamo prefiggere nelle cause, uno riguardante che cosa e l’altro in che modo parliamo, per il primo, che sembra dipendere tutto dai precetti della retorica, utile, certo, lo studio, ma basta avere una intelligenza comune, per sapere che cosa bisogna dire; il secondo è quello in cui spiccano la forza incomparabile e l’ingegno dell’oratore consiste nel parlare con stile ornato, copioso e vario. Poiché a voi così piace, io non mi rifiuterò di ifiustrare e trattare a fondo quel primo punto in quanto ai risultati, giudicherete voi – cioè per quali vie il discorso possa produrre quei tre effetti, che soli sono capaci di produrre la persuasione, cioè il cattivarsi la simpatia degli ascoltatori, l’istruirli e il commuoverli. In quanto poi all’arte di abbellirle stilisticamente, c’è qui con noi un uomo che può farci da maestro, colui che introdusse per primo tra questo metodo, colui che lo portò alla massima perfezione, il solo che lo seppe realizzare.

Rhetorica, I, 11

Principio generi animantium omni est a natura tributum ut se vitam corpusque tueatur declinet ea quae nocitura videantur omniaque quae sint ad vivendum necessaria anquirat et paret ut pastum ut latibula ut alia generis eiusdem. Commune item animantium omnium est coniunctionis appetitus procreandi causa et cura quaedam eorum quae procreata sint. Sed inter hominem et beluam hoc maxime interest quod haec tantum quantum sensu movetur ad id solum quod adest quodque praesens est se accommodat paulum admodum sentiens praeteritum aut futurum. Homo autem quod rationis est particeps per quam consequentia cernit causas rerum videt earumque praegressus et quasi antecessiones non ignorat similitudines comparat rebusque praesentibus adiungit atque adnectit futuras facile totius vitae cursum videt ad eamque degendam praeparat res necessarias.

Anzitutto, la natura ha dato ad ogni essere vivente l’istinto di conservare se stesso nella vita e nel corpo, schivando tutto ciò che può recargli danno e cercando ansiosamente tutto ciò che serve a sostentare la vita, come il cibo, il ricovero, e altre cose dello stesso genere. Comune altresì a tutti gli esseri viventi è il desiderio dell’accoppiamento al fine di procreare, e una straordinaria cura della loro prole. Ma tra l’uomo e la bestia c’è soprattutto questa gran differenza, che la bestia, solo in quanto è stimolata dal senso conforma le sue attitudini a ciò che le è presente nello spazio e nel tempo, poco o nulla ricordando del passato e presentando del futuro; mentre l’uomo, in quanto è partecipe della ragione (in virtù di questa egli scorge le conseguenze, vede le cause efficienti, non ignora le occasionali, e, oso dire, gli antecedenti, confronta tra loro i casi simili, e alle cose presenti collega strettamente le future), l’uomo, dico, vede facilmente tutto il corso della vita e prepara in tempo le cose necessarie a ben condurla.

De Finibus, IV, 25

Sed primum positum sit nosmet ipsos commendatos esse nobis primamque ex natura hanc habere appetitionem, ut conservemus nosmet ipsos Hoc convenit; sequitur illud, ut animadvertamus qui simus ipsi, ut nos, quales oportet esse, servemus Sumus igitur homines Ex animo constamus et corpore, quae sunt cuiusdam modi, nosque oportet, ut prima appetitio naturalis postulat, haec diligere constituereque ex his finem illum summi boni atque ultimi Quem, si prima vera sunt, ita constitui necesse est: earum rerum, quae sint secundum naturam, quam plurima et quam maxima adipisci.

Ma per prima cosa sia fissato il principio che noi siamo affidati a noi stessi e che abbiamo come prima inclinazione naturale la conservazione di noi stessi Su questo punto siamo daccordo; segue questaltro: noi percepiamo chi siamo, per conservarci quali si deve essere Siamo dunque uomini Risultiamo formati di anima e di corpo, che son fatti in un certo modo, e occorre che noi, come richiede la prima inclinazione naturale, li amiamo e sulla loro base stabiliamo quel famoso termine estremo del sommo ed ultimo bene Se le premesse sono vere, esso deve necessariamente essere stabilito nel seguente modo: ottenere il maggior numero possibile e le più grandi possibili di quefle cose che sono conformi a natura.

“Tre generi di lettere”

Epistularum genera multa esse non ignoras sed unum illud certissimum, cuius causa inventa res ipsa est, ut certiores faceremus absentes, si quid esset, quod eos scire aut nostra aut ipsorum interesset. Huius generis litteras a me profecto non exspectas: tuarum enim rerum domesticos habes et scriptores et nuntios; in meis autem rebus nihil est sane novi. Reliqua sunt epistularum genera duo, quae me magno opere delectant; unum familiare et iocosum, alterum severum et grave. Utro me minus deceat uti, non intelligo. Iocerne tecum per litteras? Civem mehercule non puto esse, qui temporibus his ridere possit. An gravius aliquid scribam? Quid est quod possit graviter a Cicerone scribi ad Curionem nisi de re publica?

(Tu) non ignori che i tipi di lettere sono molti, ma l’unico scopo certissimo per cui è stato inventato il genere stesso, è quello di informare chi è lontano, se c’è qualcosa che interessa o a noi o a loro che essi sappiano. Di certo non aspetti da me lettere di questo tipo: hai infatti corrispondenti e informatori privati delle tue faccende; e d’altra parte, nelle mie faccende non c’è proprio niente di nuovo. Vi sono altri due generi di lettere che mi piacciono molto: uno confidenziale e scherzoso, l’altro serio e grave. Quale dei due mi convenga meno usare, non capisco. Dovrei scherzare con te tramite le lettere? Non credo, per Ercole, che ci sia un cittadino che possa scherzare in questi momenti. Oppure dovrei scriver(ti) qualcosa di più serio? Che cosa c’è che possa essere scritto seriamente da Cicerone a Curione se non a proposito dello Stato?

Ad Familiares, II, 4

Epistularum genera multa esse non ignoras sed unum illud certissimum, cuius causa inventa res ipsa est, ut certiores faceremus absentis si quid esset quod eos scire aut nostra aut ipsorum interesset. Huius generis litteras a me profecto non exspectas. Tuarum enim rerum domesticos habes et scriptores et nuntios, in meis autem rebus nihil est sane novi. Reliqua sunt epistularum genera duo, quae me magno opere delectant, unum familiare et iocosum, alterum severum et grave. Utro me minus deceat uti non intellego. Iocerne tecum per litteras? Civem mehercule non puto esse, qui temporibus his ridere possit. An gravius aliquid scribam? Quid est quod possit graviter a Cicerone scribi ad Curionem nisi de re publica? Atqui in hoc genere haec mea causa est ut [neque ea quae sentio audeam] neque ea quae non sentio velim scribere.

Sai bene che ci sono molti generi epistolari, ma il genere per eccellenza è quello per il quale è stato inventato il genere stesso, per informare chi è lontano, se è accaduto qualcosa che importi a noi o a loro che essi seppiano. Senza dubbio non aspetti da parte mia lettere di questo genere. Delle tue faccende private infatti hai corrispondenti e messaggeri di casa tua, riguardo poi le mie faccende non c’è nessuna novità. Sono rimasti due generi epistolari, che mi piacciono molto, uno familiare e gioviale, l’altro serio e grave. Non capisco quale dei due mi si addica meno usare. Dovrei scherzare con te per lettera? Certamente non penso di essere un cittadino che possa ridere in questi tempi. O forse scrivere qualcosa di serio? Che cosa c’è che possa essere seriamente scritto da Cicerone a Curione se non sullo stato? Eppure in questo tipo di lettera la mia situazione è tale che né oso (scrivere) ciò che penso, né voglio scrivere ciò che non penso.

“Presenza degli dei nella vita romana”

Itaque et in nostro populo et in ceteris deorum cultus religionumque sanctitates exsistunt in dies maiores atque meliores, idque evenit non temere nec casu, sed quod et praesentes saepe di vim suam declarant, ut et apud Regillum bello Latinorum, cum A. Postumius dictator cum Octavio Mamilio Tusculano proelio dimicaret, in nostra acie Castor et Pollux ex equis pugnare visi sunt, et recentiore memoria iidem Tyndaridae Persem victum nuntiaverunt. P. enim Vatinius, avus huius adulescentis, cum e praefectura Reatina Romam venienti noctu duo iuvenes cum equis albis dixissent regem Persem illo die captum, senatui nuntiavit; et primo quasi temere de re publica locutus in carcerem coniectus est, post a Paulo litteris allatis cum idem dies constitisset, et agro a senatu et vacatione donatus est. Atque etiam cum ad fluvium Sagram Crotoniatas Locri maximo proelio devicissent, eo ipso die auditam esse eam pugnam ludis Olympiae memoriae proditum est. Saepe Faunorum voces exauditae, saepe visae formae deorum quemvis non aut hebetem aut impium deos praesentes esse confiteri coegerunt.

Così nel nostro popolo come negli altri il culto degli dei e l’osservanza della religione acquistano di giorno in giorno importanza e valore sempre maggiori; e questo non avviene senza motivo e per caso, ma per il fatto che gli dei in persona spesso mostrano la loro potenza; ad esempio nella guerra contro i Latini, al lago Regillo, durante la battaglia tra il dittatore Aulo Postumio e Ottavio Mamillio Tusculano, Castore e Polluce furono visti combattere a cavallo nelle nostre file, e più recentemente gli stessi figli di Tindaro annunziarono la sconfitta di Perseo. Publio Vatinio infatti, nonno del nostro giovane contemporaneo, mentre di notte ritornava a Roma da Rieti, di cui era prefetto, fu informato da due giovani su un cavallo bianco del fatto che il re Perseo era stato catturato in quello stesso giorno. Quando Vatinio riferì il fatto al senato, in un primo tempo fu gettato in carcere con l’accusa di aver parlato con sconsideratezza su affari di importanza pubblica. In seguito arrivò una lettera di Paolo e, siccome la data coincideva, il senato gli elargì un terreno e l’esenzione dal servizio militare. E ancora si tramanda che quando i Locresi vinsero i Crotoniati nella grandissima battaglia presso il fiume Sagra, nello stesso giorno ai giochi olimpici si ebbe notizia di quella battaglia. Spesso sono state udite le voci dei fauni, spesso l’apparizione degli dei ha costretto qualunque persona che non sia del tutto sciocca o empia ad ammettere la presenza degli dei.

“Un furto sacrilego di Verre nel santuario di Cecere”

Sacrarium Cereris est apud Catinenses; in eo sacrario intimo signum fuit Cereris perantiquum, quod a viris non solum ingnorabatur cuiusmodi esset, sed putabatur ne esse quidem. Aditus enim in id sacrarium non est viris: sacra per mulieres et virgines confici solent. Verres iusserat hoc signum clam a quibusdam servis tolli ex illo religiosissimo atque antiquissimo loco. Potridie Cereri sacerdotes rem ad magistratus detulerant. Tum Verre, permotus illius negotii atrocitate, veritus ne sua culpa patefieret, effecit ut aliquis reperiretur, qui tanti sceleris argui posset. Ad eum delatum est nomen servi cuiusdam; ficti testes contra illum dati sunt. Senatus rem iudicavit. Cereris sacerdotes interrogatae sunt: illae responderunt servos Verri in eo loco visos esse. Itum est in consilium: servus ille innocens omnibus sententiis absolutes est.

Presso i Catanesi vi è il santuario di Cerere, in tale santuario vi fu una statua assai antica di Cerere, che dagli uomini era ignorata non solo di che genere fosse ma si considerava anche che non vi fosse nulla. Non vi è per gli uomini ingresso in tale santuario: le cose sacre erano solite essere compiute per mezzo di donne e vergini. Verre aveva ordinato che questa statua fosse tolto da alcuni servi di nascosto da quel religiosissimo e antichissimo luogo. Il giorno dopo i sacerdoti di Cerere avevano riportato la cosa ai magistrati. Allora Verre, mosso dall’atrocità di tale affare, per far sì che la sua colpa non fosse svelata, fece in modo che fosse trovato qualcuno che potesse essere incolpato di tale delitto. Fu riportato a questo il nome di un servo, sicuri testimoni vennero portati contro quello. Il senato lo giudicò colpevole. Le sacerdotesse di Cerere vennero interrogate: quelle risposero che i servi di Verre erano stati visti in quel luogo: si andò quindi in consiglio: quel servo innocente venne assolto da tutte le accuse.

De Officiis, I, 104

Duplex omnino est iocandi genus, unum illiberale, petulans, flagitiosum, obscenum, alterum elegans, urbanum, ingeniosum, facetum, quo genere non modo Plautus noster et Atticorum antiqua comoedia, sed etiam philosophorum Socraticorum libri referti sunt, multaque multorum facete dicta, ut ea, quae a sene Catone collecta sunt, quae vocantur apophthegmata. Facilis igitur est distinctio ingenui et illiberalis ioci. alter est, si tempore fit, ut si remisso animo, [severissimo] homine dignus, alter ne libero quidem, si rerum turpitudo adhibetur et verborum obscenitas. Ludendi etiam est quidam modus retinendus, ut ne nimis omnia profundamus elatique voluptate in aliquam turpitudinem delabamur. Suppeditant autem et campus noster et studia venandi honesta exempla ludendi.

Ci sono, insomma, due specie di scherzi: l’uno volgare, aggressivo, scandaloso, turpe; l’altro elegante, garbato, ingegnoso, fine. Di questa seconda specie son pieni non solo il nostro Plauto e l’antica commedia degli Attici ma anche i libri dei filosofi socratici; e di questa specie sono molte facezie di molti, come, per esempio, quelle che furono raccolte dal vecchio Catone e che vanno sotto il titolo di apophthegmata. E’ facile, dunque, distinguere lo scherzo nobile dal volgare. L’uno è degno anche dell’uomo più austero, se è fatto a tempo debito, come, per esempio, quando lo spirito si allenta; l’altro non è neppure degno di un uomo libero, se all’indecenza dei pensieri si aggiunge l’oscenità delle parole.

De Officiis, I, 103

Ex quibus illud intellegitur, ut ad officii formam revertamur, appetitus omnes contrahendos sedandosque esse excitandamque animadversionem et diligentiam, ut ne quid temere ac fortuito, inconsiderate neglegenterque agamus. neque enim ita generati a natura sumus, ut ad ludum et iocum facti esse videamur, ad severitatem potius et ad quaedam studia graviora atque maiora. ludo autem et ioco uti illo quidem licet, sed sicut somno et quietibus ceteris tum, cum gravibus seriisque rebus satis fecerimus. ipsumque genus iocandi non profusum nec immodestum, sed ingenuum et facetum esse debet. ut enim pueris non omnem ludendi licentiam damus, sed eam, quae ab honestatis actionibus non sit aliena, sic in ipso ioco aliquod probi ingenii lumen eluceat.

Da ciò si conclude, che bisogna frenare e calmare tutti gli istinti, spronando la nostra vigile attenzione così che non si faccia nulla alla cieca e a caso, nulla senza riflessione e con negligenza. In verità, noi non siamo stati generati dalla natura in modo da sembrar fatti per il gioco e per lo scherzo, ma piuttosto per un dignitoso contegno e per occupazioni più serie e più importanti. E’ lecito senza dubbio lasciarsi andare talvolta al gioco e allo scherzo, ma come è il caso del sonno e degli altri riposi, cioè quando avremo adempiuti i nostri gravi e importanti doveri. E il genere stesso dello scherzo deve essere, non eccessivo o smodato, ma onesto e gentile. Come non concediamo ai fanciulli ogni libertà nei giochi, ma solo quella che non è contraria alle azioni che l’onestà richiede, così anche nello scherzo risplenda un barlume d’animo gentile.

Orationes, In Pisonem, 11

Magnum nomen est, magna species, magna dignitas, magna maiestas consulis; non capiunt angustiae pectoris tui, non recipit levitas ista, non egestas animi; non infirmitas ingeni sustinet, non insolentia rerum secundarum tantam personam, tam gravem, tam severam. Seplasia me hercule, ut dici audiebam, te ut primum aspexit, Campanum consulem repudiavit. Audierat Decios Magios et de Taurea illo Vibellio aliquid acceperat; in quibus si moderatio illa quae in nostris solet esse consulibus non fuit, at fuit pompa, fuit species, fuit incessus saltem Seplasia dignus et Capua. Gabinium denique si vidissent duumvirum vestri illi unguentarii, citius agnovissent. Erant illi compti capilli et madentes cincinnorum fimbriae et fluentes purpurissataeque buccae, dignae Capua, sed illa vetere; nam haec quidem quae nunc est splendidissimorum hominum, fortissimorum virorum, optimorum civium mihique amicissimorum multitudine redundat. Quorum Capuae te praetextatum nemo aspexit qui non gemeret desiderio mei, cuius consilio cum universam rem publicam, tum illam ipsam urbem meminerant esse servatam. Me inaurata statua donarant, me patronum unum asciverant, a me se habere vitam, fortunas, liberos arbitrabantur, me et praesentem contra latrocinium tuum suis decretis legatisque defenderant et absentem principe Cn. Pompeio referente et de corpore rei publicae tuorum scelerum tela revellente revocarant. An tum eras consul cum in Palatio mea domus ardebat non casu aliquo sed ignibus iniectis instigante te? Ecquod in hac urbe maius umquam incendium fuit cui non consul subvenerit? At tu illo ipso tempore apud socrum tuam prope a meis aedibus, cuius domum ad meam domum exhauriendam patefeceras, sedebas non exstinctor sed auctor incendi et ardentis faces furiis Clodianis paene ipse consul ministrabas.

Grande è il nome, grande l’aspetto, grande la nobiltà, grande l’autorevolezza del console; non lo affliggono le angosce del tuo cuore, non lo distrae codesta volubilità né la mancanza di carattere. La via Seplasia, a quanto sentivo dire, appena ti ha visto ti ha rifiutato un console campano. Aveva sentito parlare di persone come Decio Magio e aveva avuto qualche notizia del famoso Vibellio Taurea, nei quali, se mancava il senso della misura che di solito si trova nei nostri consoli, almeno c’era una magnificenza, un aspetto, un portamento degno della via Seplasia e di Capua. Insomma se quei vostri profumieri avessero visto come duumviro Gabinio, l’avrebbero riconosciuto prima. Aveva i capelli ben acconciati, sfrangiature di riccioli stillanti di unguenti, le guance cascanti e imbellettate degne di Capua; ma di quella di un tempo, perché quella di adesso è colma di una quantità di persone della più grande signorilità, di uomini pieni di coraggio, di cittadini ottimi e con la più viva amicizia per me. Nessuno di loro ti ha visto in pretesta senza levare gemiti di rimpianto, perché ricordavano bene che dalla mia saggezza sia lo stato tutto quanto sia la loro città erano stati salvati. A me avevano reso onore con una statua dorata, me avevano assunto come unico patrono, a me erano convinti di essere debitori della vita, dei beni, dei figli, me sia avevano difeso, quando ero a Roma, con i loro decreti e con i loro inviati dalla tua azione da brigante sia, durante la mia assenza, hanno richiamato quando Pompeo per primo metteva il problema all’ordine del giorno e strappava dal corpo dello stato i dardi dei tuoi delitti. Eri console quando sul Palatino la mia casa bruciava non per qualche accidente ma perché per tua istigazione vi era stato appiccato il fuoco? Quale incendio di qualche rilievo si è mai verificato in questa città senza che un console accorresse in aiuto? Invece tu proprio in quel momento te ne stavi seduto vicino a casa mia da tua suocera, la cui casa avevi fatto spalancare per vuotare la mia, non per estinguere ma per provocare l’incendio ed eri tu, il console, a fornire quasi di persona torce accese alle furie di Clodio.

De Senectute, 56

Poteratne tantus animus efficere non iucundam senctutem? Sed venio ad agricolas, ne a me ipso recedam. In agris erant tum senatores, id est senes, siquidem aranti L. Quinctio Cincinnato nuntiatum est eum dictatorem esse factum; cuius dictatoris iussu magister equitum C. Servilius Ahala Sp. Maelium regnum adpetentem occupatum interemit. A villa in senatum arcessebatur et Curius et ceteri senes, ex quo, qui eos arcessebant viatores nominati sunt. Num igitur horum senectus miserabilis fuit, qui se agri cultione oblectabant? Mea quidem sententia haud scio an nulla beatior possit esse, neque solum officio, quod hominum generi universo cultura agrorum est salutaris, sed et delectatione, quam dixi, et saturitate copiaque rerum omnium, quae ad victum hominum, ad cultum etiam deorum pertinent, ut, quoniam haec quidem desiderant, in gratiam iam cum voluptate redeamus. Semper enim boni assiduique domini referta cella vinaria, olearia, etiam penaria est, villaque tota locuples est, abundat porco, haedo, agno, gallina, lacte, caseo, melle. Iam hortum ipsi agricolae succidiam alteram appellant. Conditiora facit haec supervacaneis etiam operis aucupium atque venatio.

Un animo così grande poteva forse non rendergli piacevole la vecchiaia? Ma vengo ai contadini per non allontanarmi da me stesso. In quel tempo i senatori, cioè dei vecchi, passavano la vita in campagna se è vero che Lucio Quinzio Cincinnato stava arando quando ricevette la notizia della sua nomina a dittatore; per ordine di Cincinnato, dittatore, il comandante della cavalleria Caio Servilio Ahala prevenne il complotto di Spurio Melio che aspirava alla tirannide e lo uccise. Curio e gli altri vecchi venivano convocati in senato dalle loro case di campagna; per cui furono detti “corrieri” i messi che li andavano a chiamare. Allora, era forse da compatire la vecchiaia di uomini che passavano il tempo a coltivar la terra? Personalmente, dubito che esista vecchiaia più felice: non solo per la funzione che svolge, in quanto l’agricoltura è utile a tutto il genere umano, ma anche perché procura il diletto, di cui ho parlato, e la profusione di tutto quel che serve al sostentamento degli uomini e anche al culto degli dèi e, dal momento che alcuni non riescono proprio a fare a meno di questi beni, eccoci riconciliati con il piacere. In realtà, un padrone abile e attivo ha sempre rifornite la cantina, l’orciaia e la dispensa, tutta la sua villa è ricca e ha in abbondanza maiali, capretti, agnelli, galline, latte, formaggio e miele. E poi c’è l’orto che i contadini stessi chiamano seconda dispensa. A rendere più piacevole questa vita anche nel tempo libero contribuisce la caccia agli uccelli e all’altra selvaggina.

“Il culto di Cerere e Proserpina in Sicilia”

Vetus est haec opinio, iudices, quae constat ex antiquissimis Graecorum litteris ac monumentis, insulam Siciliam totam esse Cereri et Liberae consecratam. Hoc cum ceterae gentes sic arbitrantur, tum ipsis Siculis ita persuasum est ut in animis eorum insitum atque innatum esse videatur. Nam et natas esse has in his locis deas et fruges in ea terra primum repertas esse arbitrantur, et raptam esse Liberam, quam eandem Proserpinam vocant, ex Hennensium nemore, qui locus, quod in media est insula situs, umbilicus Siciliae nominatur. Quam cum investigare et conquirere Ceres vellet, dicitur inflammasse taedas iis ignibus qui ex Aetnae vertice erumpunt; quas sibi cum ipsa praeferret, orbem omnem peragrasse terrarum.
Henna autem, ubi ea quae dico gesta esse memorantur, est loco perexcelso atque edito, quo in summo est aequata agri planities et aquae perennes, tota vero ab omni aditu circumcisa atque directa est; quam circa lacus lucique sunt plurimi atque laetissimi flores omni tempore anni, locus ut ipse raptum illum virginis, quem iam a pueris accepimus, declarare videatur.

O giudici, è antica tradizione, che si fonda su antichissimi documenti e testimonianze dei Greci, che l’isola di Sicilia sia tutta quanta consacrata a Cerere e a Libera. Mentre, da una parte gli altri popoli pensano così (ovvero che si tratti di una credenza) dall’altra gli stessi Siciliani ne sono convinti a tal punto che ciò sembra essere impresso ed innato nei loro animi. Infatti ritengono che queste dee siano originarie di questi luoghi e ritengono anche che in tale regione si sia stata introdotta per la prima volta la coltivazione dei cereali, e che Libera, che essi chiamano anche Proserpina, sia stata rapita dal bosco di Enna, luogo che, poiché si trova in mezzo all’isola, è chiamato ombelico della Sicilia. Si tramanda che Cerere, volendo mettersi sulle tracce di Proserpina, accese delle fiaccole con le fiamme che erompono dal cratere dell’Etna e, protendendole dinnanzi a sè, attraversò l’intero mondo.
Tornando ad Enna, dove, stando alla leggenda, sono accaduti i fatti che sto raccontando, è collocata in una zona molto alta e dominante, sulla cui sommità si slarga una grande pianura e (scorrono) acque perenni; tuttavia, da tutti i lati di accesso, essa si presenta interamente scoscesa e a picco. Intorno ad essa ci sono moltissimi laghi e boschi e rigogliosissimi fiori in ogni stagione dell’anno, tanto che il luogo stesso sembra testimoniare apertamente quel famoso rapimento della vergine, che fin da fanciulli abbiamo conosciuto.

Pro Roscio Amerino, 64-65 (“Un delitto inspiegabile”)

Non ita multis ante annis aiunt T. Caelium quendam Terracinensem, hominem non obscurum, cum cenatus cubitum in idem conclave cum duobus adulescentibus filiis isset, inventum esse mane iugulatum. Cum neque servus quisquam reperiretur neque liber ad quem ea suspicio pertineret, id aetatis autem duo filii propter cubantes ne sensisse quidem se dicerent, nomina filiorum de parricidio delata sunt. Quid poterat tam esse suspiciosum? Neutrumne sensisse? Ausum autem esse quemquam se in id conclave committere eo potissimum tempore cum ibidem essent duo adulescentes filii qui et sentire et defendere facile possent? Erat porro nemo in quem ea suspicio conveniret.
Tamen, cum planum iudicibus esset factum aperto ostio dormientis eos repertos esse, iudicio absoluti adulescentes et suspicione omni liberati sunt. Nemo enim putabat quemquam esse qui, cum omnia divina atque humana iura scelere nefario polluisset, somnum statim capere potuisset, propterea quod qui tantum facinus commiserunt non modo sine cura quiescere sed ne spirare quidem sine metu possunt.

Si racconta che non molti anni fa un certo Tito Celio di Terracina, un personaggio di un certo rilievo, si coricò dopo cena nella stessa stanza con i suoi due giovani figli e che la mattina dopo fu trovato sgozzato. Poiché non si trovava né uno schiavo né un uomo libero che desse adito a sospetti e poiché i due figli di quell’età, che gli dormivano accanto, dicevano di non essersi accorti di nulla, fu mossa contro di loro un’accusa di parricidio. Che cosa ci poteva essere di altrettanto sospetto? Era mai possibile che nessuno dei due avesse sentito nulla? che qualcuno avesse avuto l’audacia di entrare in quella stanza proprio mentre vi si trovavano i due figli, che sarebbero stati facilmente in grado di accorgersene e di difendere il padre? Inoltre non c’era nessuno su cui si potesse appuntare il sospetto di quell’azione.
Ciononostante, siccome i giudici appurarono che, quando fu aperta la porta, i figli erano stati trovati addormentati, i giovani furono assolti con formula piena. Nessuno infatti pensava che ci fosse qualcuno capace di prender sonno subito dopo aver calpestato ogni diritto umano e divino con un delitto infame; perché chi commette un misfatto così grave non è in grado non solo di riposare tranquillamente, ma nemmeno di respirare senza timori.

De Oratore, I, 16

Etenim si constat inter doctos, hominem ignarum astrologiae ornatissimis atque optimis versibus Aratum de caelo stellisque dixisse; si de rebus rusticis hominem ab agro remotissimum Nicandrum Colophonium poetica quadam facultate, non rustica, scripsisse praeclare, quid est cur non orator de rebus eis eloquentissime dicat, quas ad certam causam tempusque cognorit? Est enim finitimus oratori poeta, numeris astrictior paulo, verborum autem licentia liberior, multis vero ornandi generibus socius ac paene par; in hoc quidem certe prope idem, nullis ut terminis circumscribat aut definiat ius suum, quo minus ei liceat eadem illa facultate et copia vagari qua velit. Nam quod illud, Scaevola, negasti te fuisse laturum, nisi in meo regno esses, quod in omni genere sermonis, in omni parte humanitatis dixerim oratorem perfectum esse debere: numquam me hercule hoc dicerem, si eum, quem fingo, me ipsum esse arbitrarer. Sed, ut solebat C. Lucilius saepe dicere, homo tibi subiratus, mihi propter eam ipsam causam minus quam volebat familiaris, sed tamen et doctus et perurbanus, sic sentio neminem esse in oratorum numero habendum, qui non sit omnibus eis artibus, quae sunt libero dignae, perpolitus; quibus ipsis si in dicendo non utimur, tamen apparet atque exstat, utrum simus earum rudes an didicerimus: ut qui pila ludunt, non utuntur in ipsa lusione artificio proprio palaestrae, sed indicat ipse motus, didicerintne palaestram an nesciant, et qui aliquid fingunt, etsi tum pictura nihil utuntur, tamen, utrum sciant pingere an nesciant, non obscurum est; sic in orationibus hisce ipsis iudiciorum, contionum, senatus, etiam si proprie ceterae non adhibeantur artes, tamen facile declaratur, utrum is, qui dicat, tantum modo in hoc declamatorio sit opere iactatus an ad dicendum omnibus ingenuis artibus instructus accesserit.

Infatti poichè è noto fra i dotti che un uomo ignaro di astrologia, Arato, trattò del cielo e delle stelle con versi ottimi e molto eleganti; che un uomo, lontanissimo dalla campagna, Nicandro di Colofone, scrisse mirabilmente con una certa capacità poetica, non rustica, sull’agricoltura, perchè l’oratore non deve poter trattare con molta eloquenza di quegli argomenti, che avrà conosciuto per una determinata questione e occasione? Infatti il poeta è affine all’oratore, un poco più vincolato alle leggi ritmiche, ma più libero nell’uso delle parole, certamente compagno e quasi alla pari in molte specie di ornamenti; certamente quasi uguale almento in questo, perchè non circoscrive nei termini nè limita la sua giurisdizione, in modo che non gli sia lecito aggirarsi dove voglia con quel medesimo ingegno e facondia. Quanto poi a ciò che tu, Scevola, dicevi che non avresti potuto tollerare quella mia affermazione, se non fossi nel mio territorio, perchè avevo detto che l’oratore deve essere perfetto in ogni tema di conversazione, in ogni ramo di cultura: giammai in fede mia direi una tale cosa, se ritenessi che io stesso sono quell’oratore che mi fingo. Ma, come spesso soleva dire C. Lucilio, un po’ in collera con te, e proprio per quella ragione mio amico meno di quanto avrebbe voluto, ma tuttavia erudito e di molto buon gusto, così giudico che nessuno sia da annoverare fra gli oratori, se non sia raffinato in tutte quelle dottrine, che sono degne di un uomo libero; e anche se non usiamo di esse nel parlare, tuttavia è evidente e spicca che siamo ignari o che non le abbiamo studiate. Come quelli che giocano a palla non si servono nello stesso gioco delle regole della palestra, ma gli stessi movimenti indicano se hanno imparato la ginnastica o se non la sanno, e coloro che plasmano qualche cosa, benchè non usino per nulla il disegno, pur tuttavia si vede bene se sanno o non sanno disegnare, così in questi stessi discorsi dei tribunali, delle concioni, del senato, anche se di proposito non sono usate le rimanenti discipline, tuttavia senza dubbio si capisce se l’oratore si sia esercitato in questo lavoro di declamazione o se si sia accostato all’eloquenza nutrito di tutte le dottrine liberali.