Alcibiades, 3

Bello Peloponnesio huius consilio atque auctoritate Athenienses bellum Syracusanis indixerunt; ad quod gerendum ipse dux delectus est, duo praeterea collegae dati, Nicia et Lamachus. Id cum appararetur, priusquam classis exiret, accidit, ut una nocte omnes Hermae, qui in oppido erant Athenis, deicerentur praeter unum, qui ante ianuam erat Andocidi. Itaque ille postea Mercurius Andocidi vocitatus est. Hoc cum appareret non sine magna multorum consensione esse factum, quae non ad privatam, sed publicam rem pertineret, magnus multitudini timor est iniectus, ne qua repentina vis in civitate exsisteret, quae libertatem opprimeret populi. Hoc maxime convenire in Alcibiadem videbatur, quod et potentior et maior quam privatus existimabatur. Multos enim liberalitate devinxerat, plures etiam opera forensi suos reddiderat. Qua re fiebat, ut omnium oculos, quotienscumque in publicum prodisset, ad se converteret neque ei par quisquam in civitate poneretur. Itaque non solum spem in eo habebant maximam, sed etiam timorem, quod et obesse plurimum et prodesse poterat. Aspergebatur etiam infamia, quod in domo sua facere mysteria dicebatur; quod nefas erat more Atheniensium, idque non ad religionem, sed ad coniurationem pertinere existimabatur.

Durante la guerra del Peloponneso gli Ateniesi, seguendo il suo autorevole parere, dichiararono guerra ai Siracusani; ed a condurla fu scelto come comandante lui stesso; gli furono inoltre assegnati due colleghi, Nicia e Lámaco. Mentre si facevano i preparativi, prima che la flotta uscisse dal porto, accadde che in una stessa notte tutte le erme della città venissero abbattute tranne una, che si trovava davanti alla casa di Andocide: così quella fu in seguito chiamata il Mercurio di Andocide. Siccome era evidente che l’azione era stata compiuta con la complicità di molti, che non avevano di mira faccende private, ma dello Stato, la gente fu presa da una grande paura che all’improvviso scaturisse nella città un colpo di Stato per sopprimere la libertà. Sembrava che tutto questo si addicesse a pennello ad Alcibiade, dato che era abbastanza potente e più che un privato cittadino: infatti molti aveva legato a sé con la sua generosità, più ancora aveva fatto suoi sostenitori con la sua attività forense. Per questo motivo, ogni volta che si presentava in pubblico, attirava su di sé gli occhi di tutti e nessuno nella città era considerato pari a lui. Così riponevano in lui non solo una grandissima speranza ma anche timore perché poteva fare del bene o del male in sommo grado. Godeva inoltre di cattiva fama perché si vociferava che in casa sua praticasse i misteri, cosa empia per gli Ateniesi e si riteneva che ciò avesse a che fare non tanto con la religione quanto con una congiura.

Alcibiades, I

Alcibiades, Cliniae filius, Atheniensis. In hoc, quid natura efficere possit, videtur experta. Constat enim inter omnes, qui de eo memoriae prodiderunt, nihil illo fuisse excellentius vel in vitiis vel in virtutibus. Natus in amplissima civitate summo genere, omnium aetatis suae multo formosissimus, ad omnes res aptus consiliique plenus – namque imperator fuit summus et mari et terra, disertus, ut in primis dicendo valeret, quod tanta erat commendatio oris atque orationis, ut nemo ei [dicendo] posset resistere -, dives; cum tempus posceret, laboriosus, patiens; liberalis, splendidus non minus in vita quam victu; affabilis, blandus, temporibus callidissime serviens: idem, simulac se remiserat neque causa suberat, quare animi laborem perferret, luxuriosus, dissolutus, libidinosus, intemperans reperiebatur, ut omnes admirarentur in uno homine tantam esse dissimilitudinem tamque diversam naturam.

Alcibiade, figlio di Clinia, Ateniese. In lui la natura sembra aver sperimentato il suo potere. Tutti quelli che hanno scritto di lui, sanno bene che non ci fu nessuno più straordinario e nelle virtù e nei vizi. Nato in una grande metropoli, di nobilissima stirpe, di gran lunga il più bello di tutti quelli della sua età, ricco, abile in ogni attività e pieno di senno (fu infatti valentissimo comandante per terra e per mare); facondo tanto da essere tra i primi nel parlare, perché tale era il fascino della sua dizione e delle sue parole, che nessuno poteva resistergli; ricco, quando lo richiesero le circostanze: laborioso, resistente, generoso, splendido non meno nella vita pubblica che nella vita privata, affabile, mite, capace di adattarsi alle circostanze: ma non appena allentava la sua tensione e non aveva motivo per impegnarsi, si rivelava sfarzoso, dissoluto, lussurioso, sregolato, sì che tutti si meravigliavano che in una stessa persona ci fosse una così stridente contraddizione e una così varia natura.

Agesilaus, IV, 4

Hic cum iam animo meditaretur proficisci in Persas et ipsum regem adoriri, nuntius ei domo venit ephororum missu, bellum Athenienses et Boeotos indixisse Lacedaemoniis; quare venire ne dubitaret. In hoc non minus eius pietas suspicienda est quam virtus bellica: qui cum victori praeesset exercitui maximamque haberet fiduciam regni Persarum potiundi, tanta modestia dicto audiens fuit iussis absentium magistratuum, ut si privatus in comitio esset Spartae. Cuius exemplum utinam imperatores nostri sequi voluissent! Sed illuc redeamus. Agesilaus opulentissimo regno praeposuit bonam existimationem multoque gloriosius duxit, si institutis patriae paruisset, quam si bello superasset Asiam. Hac igitur mente Hellespontum copias traiecit tantaque usus est celeritate, ut quod iter Xerxes anno vertente confecerat, hic transierit XXX diebus. Cum iam haud ita longe abesset a Peloponneso, obsistere ei conati sunt Athenienses et Boeotii ceterique eorum socii apud Coroneam; quos omnes gravi proelio vicit. Huius victoriae vel maxima fuit laus, quod, cum plerique ex fuga se in templum Minervae coniecissent quaerereturque ab eo, quid his vellet fieri, etsi aliquot vulnera acceperat eo proelio et iratus videbatur omnibus, qui adversus arma tulerant, tamen antetulit irae religionem et eos vetuit violari. Neque vero hoc solum in Graecia fecit, ut templa deorum sancta haberet, sed etiam apud barbaros summa religione omnia simulacra arasque conservavit. Itaque praedicabat mirari se, non sacrilegorum numero haberi, qui supplicibus eorum nocuissent, aut non gravioribus poenis affici, qui religionem minuerent, quam qui fana spoliarent.

Mentre progettava di fare una spedizione contro i Persiani ed attaccare il re stesso, gli giunse dalla patria, da parte degli èfori, il messaggio, che gli Ateniesi ed i Beoti avevano dichiarato guerra agli Spartani, perciò non indugiasse a tornare. In questo frangente va ammirato il suo amor patrio non meno del suo valore militare: egli comandava un esercito vittorioso ed aveva la massima fiducia di impadronirsi del regno persiano, tuttavia con tanto ossequio obbedì agli ordini dei magistrati lontani come se fosse stato privato cittadino nell’assemblea di Sparta. E magari i nostri generali avessero voluto imitare il suo esempio! Ma torniamo all’argomento. Agesilao ad un regno ricchissimo antepose la buona reputazione e stimò molto più glorioso, se avesse obbedito alle istituzioni della patria, che se avesse conquistato in guerra l’Asia. Con questi sentimenti dunque trasportò le truppe oltre l’Ellesponto e fu di tanta rapidità che il tragitto che Serse aveva compiuto nel corso di un anno, egli lo compì in trenta giorni. Mentre già si trovava non molto lontano dal Peloponneso, gli Ateniesi ed i Beoti e gli altri alleati tentarono di sbarrargli la strada presso Coronea: ma egli li vinse tutti in un’aspra battaglia. La gloria di questa vittoria raggiunse il culmine quando, rifugiatisi moltissimi fuggiaschi nel tempio di Minerva e chiedendoglisi che cosa voleva che si facesse di loro, egli nonostante che avesse ricevuto in quel combattimento alquante ferite e sembrasse adirato verso tutti coloro che avevano preso le armi contro di lui, tuttavia antepose all’ira il sentimento religioso e vietò che fossero violati. E questo, di ritenere inviolabili i templi degli dèi, non lo fece solo in Grecia, ma anche presso i barbari conservò, con grandissimo rispetto, tutte le statue e le are. Pertanto soleva dire di meravigliarsi che non fossero ritenuti dei sacrileghi coloro che avessero recato del male ai supplici degli dèi o che coloro che offendevano la religione non fossero puniti con pene più severe di coloro che spogliavano i templi.

Hannibal, 3

Cuius post obitum, Hasdrubale imperatore suffecto, equitatui omni praefuit. Hoc quoque interfecto exercitus summam imperii ad eum detulit. Id Carthaginem delatum publice comprobatum est. Sic Hannibal, minor V et XX annis natus imperator factus, proximo triennio omnes gentes Hispaniae bello subegit; Saguntum, foederatam civitatem, vi expugnavit; tres exercitus maximos comparavit. Ex his unum in Africam misit, alterum cum Hasdrubale fratre in Hispania reliquit, tertium in Italiam secum duxit. Saltum Pyrenaeum transiit. Quacumque iter fecit, cum omnibus incolis conflixit: neminem nisi victum dimisit. Ad Alpes posteaquam venit, quae Italiam ab Gallia seiungunt, quas nemo umquam cum exercitu ante eum praeter Herculem Graium transierat, quo facto is hodie saltus Graius appellatur, Alpicos conantes prohibere transitu concidit; loca patefecit, itinera muniit, effecit, ut ea elephantus ornatus ire posset, qua antea unus homo inermis vix poterat repere. Hac copias traduxit in Italiamque pervenit.

Dopo la morte di questo, mentre Asdrubale prese il suo posto di comandante supremo, egli fu a capo di tutta la cavalleria. Ucciso anche costui, l’esercito affidò a lui il comando supremo. Questa nomina riferita a Cartagine ebbe la ratifica ufficiale. Così Annibale diventato generale non ancora venticinquenne, nei tre anni che seguirono sottomise con le armi tutte le genti della Spagna; espugnò con la forza Sagunto città alleata; allestì tre poderosi eserciti. Di questi uno ne mandò in Africa; un altro lo lasciò in Spagna col fratello Asdrubale; il terzo lo condusse con sé in Italia. Attraversò il valico dei Pirenei. Dovunque passò, venne a conflitto con tutti gli abitanti; nessuno lasciò alle spalle se non sconfitto. Dopo che giunse alle Alpi, che dividono l’Italia dalla Gallia, che nessuno mai prima di lui, eccetto il Graio Ercole, aveva attraversato con un esercito (e in seguito a quell’impresa quel valico è oggi chiamato Graio), sterminò gli alpigiani che cercavano di impedirgli il passaggio, aprì i luoghi, fortificò i percorsi, fece sì che potesse passare un elefante equipaggiato, per dove prima a mala pena poteva arrampicarsi un uomo senza armi. Per questa via fece passare le truppe e giunse in Italia.

Miltiades, 7

Post hoc proelium classem LXX navium Athenienses eidem Miltiadi dederunt, ut insulas, quae barbaros adiuverant, bello persequeretur. Quo in imperio plerasque ad officium redire coegit, nonnullas vi expugnavit. Ex his Parum insulam opibus elatam cum oratione reconciliare non posset, copias e navibus eduxit, urbem operibus clausit omnique commeatu privavit; dein vineis ac testudinibus constitutis propius muros accessit. Cum iam in eo esset, ut oppido potiretur, procul in continenti lucus, qui ex insula conspiciebatur, nescio quo casu nocturno tempore incensus est. Cuius flamma ut ab oppidanis et oppugnatoribus est visa, utrisque venit in opinionem signum a classiariis regis datum. Quo factum est, ut et Parii a deditione deterrerentur, et Miltiades, timens, ne classis regia adventaret, incensis operibus, quae statuerat, cum totidem navibus, atque erat profectus, Athenas magna cum offensione civium suorum rediret. Accusatus ergo est proditionis, quod, cum Parum expugnare posset, a rege corruptus infectis rebus discessisset. Eo tempore aeger erat vulneribus, quae in oppugnando oppido acceperat. Itaque, quoniam. ipse pro se dicere non posset, verba fecit frater eius Stesagoras. Causa cognita capitis absolutus pecunia multatus est, eaque lis quinquaginta talentis aestimata est, quantus in classem sumptus factus erat. Hanc pecuniam quod solvere in praesentia non poterat, in vincula publica coniectus est ibique diem obiit supremum.

Dopo questa battaglia gli Ateniesi misero a disposizione dello stesso Milziade una flotta di settanta navi perché portasse la guerra a quelle isole che avevano aiutato i barbari. Durante questa missione ne costrinse molte a tornare all’obbedienza, alcune le prese con la forza. Fra queste non riusciva convincere con i negoziati l’isola di Paro orgogliosa della sua potenza; allora fece sbarcare truppe dalle navi, cinse con opere d’assedio la città e la tagliò fuori da ogni approvvigionamento: poi piazzate vigne e testuggini si accostò alle mura. Quando stava per impadronirsi della città, lontano sul continente, un bosco che si vedeva dall’isola, non so per quale accidente, di notte prese fuoco. Quando le fiamme furono viste dagli assediati e dagli assalitori, ad entrambi venne il sospetto che si trattasse di un segnale mandato dai marinai del re. Ne conseguì che i Parii non vollero più saperne di arrendersi e Milziade temendo che si avvicinasse la flotta del re, incendiate le opere d’assedio che aveva predisposto, con le stesse navi con cui era partito tornò ad Atene, con grande disappunto dei suoi concittadini. Fu quindi accusato di tradimento perché. pur potendo espugnare Paro, se ne era andato senza portare a termine l’impresa, in quanto corrotto dal re. In quel tempo era sofferente per le ferite che aveva riportato nell’assalto alla città; così, non essendo egli in grado di difendersi personalmente, parlò per lui il fratello Steságora. Fatto il processo, assolto dalla pena capitale, fu condannato a una multa che fu stabilita di cinquanta talenti, esattamente la somma impiegata per allestire la flotta. Siccome non era in grado di pagare sul momento questo denaro, fu gettato nelle carceri dello Stato e lì morì.

Epaminondas, 5

Fuit etiam disertus, ut nemo ei Thebanus par esset eloquentia, neque minus concinnus in brevitate respondendi quam in perpetua oratione ornatus. Habuit obtrectatorem Menecliden quendam, indidem Thebis, et adversarium in administranda re publica, satis exercitatum in dicendo, ut Thebanum scilicet: namque illi genti plus inest virium quam ingenii. Is quod in re militari florere Epaminondam videbat, hortari solebat Thebanos, ut pacem bello anteferrent, ne illius imperatoris opera desideraretur. Huic ille ‘Fallis’ inquit ‘verbo civis tuos, quod hos a bello avocas: otii enim nomine servitutem concilias. Nam paritur pax bello. Itaque, qui ea diutina volunt frui, bello exercitati esse debent. Quare, si principes Graeciae vultis esse, castris est vobis utendum, non palaestra. Idem ille Meneclides cum huic obiceret, quod liberos non haberet neque uxorem duxisset, maximeque insolentiam quod sibi Agamemnonis belli gloriam videretur consecutus, ‘At’ ille ‘desine’ inquit, ‘Meneclida, de uxore mihi exprobrare: nam nullius in ista re minus uti consilio volo’. – Habebat enim Meneclides suspicionem adulterii -. ‘Quod autem me Agamemnonem aemulari putas, falleris. Namque ille cum universa Graecia vix decem annis unam cepit urbem; ego contra ea una urbe nostra dieque uno totam Graeciam Lacedaemoniis fugatis liberavi.’

Fu pure eloquente, tanto che nessun tebano era pari per eloquenza, e non meno elegante nella brevità del rispondere che raffinato in un lungo discorso. Ebbe un tale Meneclide come denigratore, dallo stesso luogo a Tebe, ed avversario nel governare lo stato, abbastanza esercitato nel parlare, come tebano si capisce: infatti in quella stirpe c’è più di forze che di ingegno. Egli vedendo che Epaminonda eccelleva nella realtà militare, soleva esortare i Tebani, perché preferissero la pace alla guerra, perché non fosse richiesta l’opera di quel comandante. A costui egli Infatti, disse, ‘Tu inganni i tuoi concittadini, perché li distogli dalla guerra: infatti col nome della tranquillità raccomandi la schiavitù. Infatti la pace è generata dalla guerra. E così quelli che vogliono goderla continua, devono essere esercitati dalla guerra. Perciò se volete essere i primi della Grecia, voi dovete usare gli accampamenti, non la palestra’. Quello stesso Meneclide rimproverando a costui, perché non aveva figli né aveva preso moglie, e soprattutto l’arroganza perché sembrava aver raggiunto la gloria della guerra di Agamennone, ‘Ma’, egli disse, ‘Meneclide, smetti di rimproverarmi per la moglie: infatti da nessuno voglio un consiglio meno che da te’. ““ Infatti su Meneclìde gravava il sospetto di adulterio -. ‘Per il fatto che tu pensi che io emuli Agamennone, sei ingannato. Infatti quello con tutta la Grecia a stento in dieci anni prese una sola città; io invece con una sola città, la nostra, e in un giorno solo, messi in fuga i Lacedemoni, ho liberato tutta la Grecia.’

Atticus, 15

Mendacium neque dicebat neque pati poterat. Itaque eius comitas non sine severitate erat neque gravitas sine facilitate, ut difficile esset intellectu, utrum eum amici magis vererentur an amarent. Quidquid rogabatur, religiose promittebat, quod non liberalis, sed levis arbitrabatur polliceri, quod praestare non posset. 2 Idem in nitendo, quod semel annuisset, tanta erat cura, ut non mandatam, sed suam rem videretur agere. Numquam suscepti negotii eum pertaesum est: suam enim existimationem in ea re agi putabat; qua nihil habebat carius. 3 Quo fiebat, ut omnia Ciceronum, Catonis Marci, Q. Hortensii, Auli Torquati, multorum praeterea equitum Romanorum negotia procuraret. Ex quo iudicari poterat non inertia, sed iudicio fugisse rei publicae procurationem.

Menzogne non le diceva né poteva sopportarle. Così la sua affabilità non era scevra da severità, né la sua serietà senza cordialità; sì che difficilmente si capiva, se gli amici lo amassero o rispettassero di più. Di qualunque cosa fosse richiesto, era molto cauto nel promettere, perché riteneva che fosse di persona non liberale ma leggera promettere quello che non si può mantenere. 2. Ma poi nel mantenere quello che avesse una volta accordato, metteva un tale impegno, da sembrare che trattasse non un affare affidato da altri, ma suo proprio. Mai ebbe a pentirsi di un impegno preso; riteneva infatti che in quella faccenda fosse in giuoco la sua riputazione, che era la cosa a cui teneva di più. 3. Così egli si trovò a dover trattare tutti gli affari dei Ciceroni, di M. Catone, di Q. Ortensio, di A. Torquato, inoltre di molti cavalieri romani. Dal che si può giudicare che non tanto per pigrizia, quanto a ragion veduta egli abbia evitato l’amministrazione dello Stato.

Alcibiades, 6

His cum obviam universa civitas in Piraeum descendisset, tanta fuit omnium exspectatio visendi Alcibiadis, ut ad eius triremem vulgus conflueret, proinde ac si solus advenisset. Sic enim populo erat persuasum, et adversas superiores et praesentes secundas res accidisse eius opera. Itaque et Siciliae amissum et Lacedaemoniorum victorias culpae suae tribuebant, quod talem virum e civitate expulissent. Neque id sine causa arbitrari videbantur. Nam postquam exercitui praeesse coeperat, neque terra neque mari hostes pares esse potuerant. Hic ut e navi egressus est, quamquam Theramenes et Thrasybulus eisdem rebus praefuerant simulque venerant in Piraeum, tamen unum omnes illum prosequebantur, et, id quod numquam antea usu venerat nisi Olympiae victoribus, coronis laureis taeniisque vulgo donabatur. Ille lacrumans talem benevolentiam civium suorum accipiebat reminiscens pristini temporis acerbitatem. Postquam astu venit, contione advocata sic verba fecit, ut nemo tam ferus fuerit, quin eius casui illacrumarit inimicumque iis se ostenderit, quorum opera patria pulsus fuerat, proinde ac si alius populus, non ille ipse, qui tum flebat, eum sacrilegii damnasset. Restituta ergo huic sunt publice bona, eidemque illi Eumolpidae sacerdotes rursus resacrare sunt coacti, qui eum devoverant, pilaeque illae, in quibus devotio fuerat scripta, in mare praecipitatae.

Giacchè tutta la popolazione era scesa loro incontro al Pireo, divenne così grande l’attesa di tutti di vedere Alcibiade che la gente confluì alla sua trireme proprio come se lui fosse giunto da solo. Infatti il popolo era convinto che le precedenti disfatte e le attuali vittorie si erano verificate per opera sua. Così imputavano a loro stessi la colpa della perdita della Sicilia e delle vittorie degli Spartani, dal momento che avevano allontanato dalla città un tale uomo. E sembrava che pensassero questo non senza ragione. Infatti, dopo che cominciò ad essere a comando dell’esercito, nè per terra nè per mare i nemici poterono essere pari. Qui appena scese dalla nave, nonostante Teramene e Trasibulo fossero stati a capo delle medesime imprese e nonostante fossero giunti insieme al Pireo, tutti seguivano lui solo e, cosa che mai era stata in uso prima – se non per i vincitori a Olimpia -, gli venivano donati dal popolo corone di alloro e nastri. Lui riceveva commosso tale benevolenza dei suoi concittadini ricordando l’asprezza dei loro rapporti precedenti. Dopo che giunse in città, convocata un’assemblea, parlò in un modo tale che nessuno fu tanto duro da non piangere delle sue disgrazie e da non mostrarsi nemico di coloro a causa dei quali era stato cacciato dalla patria, come se un altro popolo, e non quello stesso che allora piangeva, lo avesse condannato per sacrilegio. Poi gli furono restituiti pubblicamente i suoi beni e i sacerdoti Eumolpidi, gli stessi che lo avevano scomunicato, furono costretti a benedirlo di nuovo e le colonne su cui era stata scritta la scomunica furono gettate in mare.

Dion, 10

Confecta caede cum multitudo visendi gratia introisset nonnulli ab insciis pro noxiis conciduntur. Nam celeri rumore dilato Dioni vim allatam multi concurrerant quibus tale facinus displicebat. Hi falsa suspicione ducti immerentes ut sceleratos occidunt. Huius de morte ut palam factum est mirabiliter vulgi mutata est voluntas. Nam qui vivum eum tyrannum vocitarant eidem liberatorem patriae tyrannique expulsorem praedicabant. Sic subito misericordia odio successerat ut eum suo sanguine ab Acherunte si possent cuperent redimere. Itaque in urbe celeberrimo loco elatus publice sepulcri monumento donatus est. Diem obiit circiter annos LV natus quartum post annum quam ex Peloponneso in Siciliam redierat.

Compiuta l’uccisione, la folla entrò per vedere ed alcuni vennero uccisi, da chi era all’oscuro della congiura, come colpevoli. Infatti, sparsasi rapidamente la notizia che era stato fatto un attentato a Dione, erano accorsi molti ai quali tale delitto dispiaceva, e questi, spinti da falsi sospetti, uccidono degli innocenti come autori del misfatto. Quando fu resa pubblica la sua morte, mirabilmente cambiò all’improvviso l’atteggiamento del volgo: quegli stessi che vivo l’avevano chiamato tiranno, ora lo celebravano come colui che aveva liberato la patria e cacciato il tiranno. Così repentinamente all’odio subentrò la compassione che, se avessero potuto, lo avrebbero riscattato col loro sangue dall’Acheronte. E così, gli fu celebrato un funerale a spese dello Stato ed ebbe un monumento nel punto più frequentato della Città. Morì a circa cinquantacinque anni di età, tre anni dopo che dal Peloponneso.

Alcibiades, 7

Haec Alcibiadi laetitia non nimis fuit diuturna. Nam cum ei omnes essent honores decreti totaque res publica domi bellique tradita, ut unius arbitrio gereretur, et ipse postulasset, ut duo sibi collegae darentur, Thrasybulus et Adimantus, neque id negatum esset, classe in Asiam profectus, quod apud Cymen minus ex sententia rem gesserat, in invidiam recidit. Nihil enim eum non efficere posse ducebant. Ex quo fiebat, ut omnia minus prospere gesta culpae tribuerent, cum aut eum neglegenter aut malitiose fecisse loquerentur; sicut tum accidit. Nam corruptum a rege capere Cymen noluisse arguebant. Itaque huic maxime putamus malo fuisse nimiam opinionem ingenii atque virtutis. Timebatur enim non minus quam diligebatur, ne secunda fortuna magnisque opibus elatus tyrannidem concupisceret. Quibus rebus factum est, ut absenti magistratum abrogarent et alium in eius locum substituerent. Id ille ut audivit, domum reverti noluit et se Pactyen contulit ibique tria castella communiit, Ornos, Bisanthen, Neontichos, manuque collecta primus Graecae civitatis in Thraeciam introiit, gloriosius existimans barbarum praeda locupletari quam Graiorum. Qua ex re creverat cum fama tum opibus magnamque amicitiam sibi cum quibusdam regibus Thraeciae pepererat. Neque tamen a caritate patriae potuit recedere.

Questa letizia di Alcibiade non durò troppo a lungo. Infatti gli erano state decretate tutte le cariche e affidati tutti i poteri dello Stato in pace e in guerra, sì che esso veniva governato dall’arbitrio di lui solo; dopo aver chiesto ed ottenuto che gli fossero dati come colleghi Trasibulo e Adimanto, fece una spedizione navale in Asia; ma presso Cime le cose non andarono secondo le attese e quindi ricadde nell’odio: ritenevano infatti che non ci fosse nulla che non potesse riuscirgli. Ne conseguiva che gli imputassero a colpa tutti gli insuccessi, dicendo che aveva agito o con negligenza o per tradimento. E così accadde anche allora: infatti lo accusavano di non aver voluto conquistare Cime, perché corrotto dal re. Per cui riteniamo che gli nuocesse soprattutto l’eccessiva considerazione del suo ingegno e del suo valore. Era infatti temuto non meno che amato: c’era il rischio che imbaldanzito dalla buona sorte e dalla grande potenza potesse aspirare alla tirannide. Avvenne così che gli revocarono, mentre era assente, l’incarico e gli sostituirono un altro. Come lo venne a sapere, non volle tornare in patria e si diresse a Pattia e li fece fortificare tre borghi, Orno, Bizante, Neontico e, radunata una schiera, primo di tutti i Greci penetrò nella Tracia, ritenendo più glorioso arricchirsi con le prede dei barbari che dei Greci. Perciò si era arricchito sia di fama che di mezzi e si era legato di stretta amicizia con alcuni re della Tracia.

Cato, 1

M. Cato, ortus municipio Tusculo adulescentulus, priusquam honoribus operam daret, versatus est in Sabinis, quod ibi heredium a patre relictum habebat. Inde hortatu L. Valerii Flacci, quem in consulatu censuraque habuit collegam, ut M. Perpenna censorius narrare solitus est, Romam demigravit in foroque esse coepit. Primum stipendium meruit annorum decem septemque. Q. Fabio M. Claudio consulibus tribunus militum in Sicilia fuit. Inde ut rediit, castra secutus est C. Claudii Neronis, magnique opera eius existimata est in proelio apud Senam, quo cecidit Hasdrubal, frater Hannibalis. Quaestor obtigit P. Africano consuli; cum quo non pro sortis necessitudine vixit: namque ab eo perpetua dissensit vita. Aedilis plebi factus est cum C. Helvio. Praetor provinciam obtinuit Sardiniam, ex qua, quaestor superiore tempore ex Africa decedens, Q. Ennium poetam deduxerat; quos non minoris aestimamus quam quemlibet amplissimum Sardiniensem triumphum.

M. Catone, nato nel municipio di Tuscolo, da adolescente, prima che dedicasse la sua attività politica, si trattenne in Sabina, perché là aveva un podere ereditato dal padre. Da là, per esortazione di L. Valerio Flacco, che poi ebbe collega nel consolato e nella censura, come è solito narrare l’ex censore Marco Perpenna, si trasferì a Roma e cominciò a frequentare il Foro. Meritò la sua prima paga a diciassette anni. Fu tribuno dei soldati in Sicilia sotto il consolato di Q. Fabio e M. Claudio. Quando tornò da là, fece parte dell’esercito di C. Claudio Nerone e fu assai apprezzato il suo contributo nella battaglia di Senigallia, dove morì Asdrubale, fratello di Annibale. In qualità di questore, toccò (in sorte) al console P. Africano, col quale però non visse come imponevano i vincoli dell’ufficio: infatti fu in contrasto con lui per tutta la vita. Divenne edile della plebe insieme con C. Elvio. Come pretore ebbe la provincia di Sardegna, dalla quale precedentemente, di ritorno dall’Africa in qualità di questore, aveva portato con sé il poeta Q. Ennio e questo stimiamo di merito non inferiore a qualsiasi grandissimo trionfo sardo.

“Saggezza di Epaminonda”

Meneclides quidam, quod in re militari florere Epaminondam videbat, hortari solebat Thebanos, ut pacem bello anteponerent, ne illius imperatoris opera desideraretur. Hiuc ille:”Fallis verbo dixit cives tuos, quod hos a bello avocas: otii enim nomine servitutem concilias. Nam paritur pax bello. Itaque qui ea diutina volunt frui, bello exercitati esse debent. Quare si principes graeciae optatis esse, castris est vobis utendum, non palaestra”. Idem ille Meneclides, cum huic obiceret insolentiam, quod sibi videretur Agamemnonis belli gloriam consecutus esse, ille: “quod me Agamemnonem aemulari putas, falleris. Namque ille cum universa graecia vix decem annis unam cepit urbem, ego contra urbe nostra dieque uno totam graeciam, Lacedaemoniis fugatis, liberavi.

Un certo Meneclide, poichè vedeva Epaminonda distinguersi nell’arte militare, soleva esortare i Tebani ad anteporre la pace alla guerra affinché non fosse richiesta l’opera di quel comandante. Quello disse a questo: “Inganni i tuoi cittadini con le parole poichè li distogli dalla guerra: infatti tu favorisci la schiavitù in nome della pace. Infatti la pace è generata dalla guerra. E così coloro che vogliono godere di una pace duratura, devono essere esercitati nella guerra. Per cui se volete essere i capi della Grecia (avere la supremazia), dovete usare l’accampamento, non la palestra.” Poiché sempre lo stesso Meneclide insolentiva questo (Epaminonda), poichè credeva di aver uguagliato la gloria di Agamennone quello disse “Ti sbagli poichè pensi che io rivaleggi con Agamennone. Infatti quello con tutta la Grecia prese a stento una città in dieci anni, io invece, con la nostra città, liberai tutta la Grecia, in un solo giorno, dopo aver messo in fuga gli Spartani.