Noctes Atticae, II, 29 (“L’allodola saggia”)

Avicùla est parva cui nomen est cassita. Habitat nidificatque in segetibus ut appétat messis pullis iam iam plumantibus. Ea cassita in sementes tempestiviores forte congessèrat; propterea, frumentis flavescentibus, pulli etiam tunc involùcres erant. Dum igitur ipsa iret cibum pullis quaesitum, monet eos ut, si quid ibi rei novae fieret dicereturve, animadverterent idque sibi referrent, cum redisset. Postea dominus segètum illarum filium adulescentem vocat et: “Videsne – inquit – haec ematuruisse et manus iam postulare? Idcirco cras, ubi primum diluculabit, fac ad amicos eas et roges veniant et messim nobiscum resécent”. Haec ubi dixit, discessit. Atque ubi redit cassita, pulii tremibundi, trepiduli circumstrepunt orantque matrem ut iam statim propéret inque alium locum sese asportet: “Nam dominus – inquunt – amicos rogavit ut luce oriente veniant et metant”. Mater iubet eos otioso animo esse: “Si enim dominus – inquit – messim ad amicos reicit, cras seges non metetur neque necesse est hodie ut vos auferam.” Die igitur postero mater in pabulum volat. Dominus quos rogaverat opperitur. Sol fervit, et fit nihil; it dies, et amici nulli eunt. Tum ille rursum ad filium: “Amici isti cessatores sunt. Quin potius imus ad cognatos adfinesque nostros et oramus ut adsint cras tempéri ad metendum?” Itìdem hoc pulli pavefacti matri nuntiant. Mater hortatur ut tum quoque sine metu ac sine cura sint, cognatos adfinesque nullos tam esse obsequibiles ait, ut ad laborem capessendum nihil cunctentur et statim dicto oboediant. “Vos modo – inquit – adverfite, si quid denuo diceretur”. Alia luce orta avis in pastum profecta est.. Cognati et adfines operam, quam dare rogati sunt, supersedérunt. Ad postremum igitur dorninus filio: “Valeant- inquit – amici cum propinquis. Afferes primo luci falces duas, unam egòmet mihi et tu tibi alteram et frumentum nosmet ipsi manibus nostris cras metemus”. Id ubi ex pullis mater audivit dixisse dominum: “Tempus – inquit – est cedendi et abeundi; et nunc dubio procul quod futurum esse dixit. In ipso enim res est, non in alio, unde petitur”. Atque ita cassita nidum migravit, seges a domino demessa est.

C’è un piccolo uccello che si chiama allodola. Abita e nidifica nei campi di grano, abbastanza presto, in modo che, quando si raccolgono le messi, i piccoli siano già in grado di volare. Un’allodola per caso aveva nidificato in un campo di grano primaticcio, sicché quando le messi biancheggiarono i piccoli non avevano ancora messo le piume. Mentre la madre ne se andava in cerca di cibo, ammonì i piccini che se accadeva qualcosa di nuovo vi prestassero bene attenzione, e fossero quindi in grado di avvertirla al suo ritorno. Sopraggiunge il padrone delle messi e chiama il figlio giovanetto, dicendogli: “Non ti pare che esse siano mature e attendano ormai la mano dell’uomo? Domani, dunque, al sorgere del sole, va’ a trovare i nostri amici e chiedi loro che vengano a darci una mano e ci aiutino a mietere le messi”. Così parlò e se ne andò. Quando l’allodola rientrò, i piccoli, tremanti e ansiosi, le furono attorno stridendo e pregavano la madre che si affrettasse a trasportarli in un altro luogo: “Il padrone” dicevano “ha mandato a cercare degli amici perché vengano allo spuntar del sole e mietano”. La madre ordinò loro di star di buon animo, dicendo: “Se anche il padrone si è rivolto agli amici, non mieterà le messi e non è necessario che io vi porti via oggi”. Il giorno dopo la madre se ne vola in cerca di cibo. Il padrone attende coloro che aveva chiamato, il sole già scotta e nulla accadde; il giorno avanza e nessun amico arriva. Allora egli dice al figlio: “Questi amici sono una genìa di fannulloni. Perché piuttosto non ce ne andiamo a pregare i nosti parenti e vicini, chiedendo che vengano domani per tempo a mietere?”. I piccoli, spaventati, riferiscono anche questo alla madre. La madre li esorta a non aver paura od affanno alcuno, giacché, afferma, non vi son parenti o vicini così servizievoli da iniziare un lavoro senza ritardo o da obbedire non appena avvertiti. “Se però” – dice – “udite di nuovo qualcosa, avvertitemi”. Appena spunta il nuovo dì, se ne va in cerca di cibo. I parenti e gli amici ben si guardano dal dare la propria opera alla quale eran stati chiamati. Alla fine il padrone dice al figlio: “Gli amici valgono quanto i parenti; allo spuntar del sole porta due falci; io stesso ne prenderò una e tu l’altra e mieteremo domani il frumento con le nostre stesse braccia”. Avendo la madre udito dai piccoli ciò che il padrone aveva annunciato: “E’ tempo” disse “di abbandonare il posto e andarcene; senza dubbio accadrà ciò che ha detto di voler fare. Ora infatti l’azione dipende da chi deve compierla, non da altrui cui è stata richiesta”. E senza tardare l’allodola portò via la nidiata, e le messi furono mietute dal padrone”.

“Un cattivo consiglio è la cosa più dannosa per chi lo dà”

Statua Romae in comitio posita Horatii Coclitis fortissimi viri de coelo tacta est. Ob id fulgur piaculis luendum aruspices ex Etruria acciti inimico atque hostili in populum Romanum animo instituerant eam rem contrariis religionibus procurare. Atque illam statuam suaserunt in inferiorem locum perperam transponi, quem sol oppositu circum undique aliarum aedium nunquam illustraret. Quod cum ita fieri persuasissent, delati ad populum proditique sunt; et cum de perfidia confessi essent, necati sunt; constititque eam statuam proinde, ut verae rationes post compertae monebant, in locum editum subducendam, atque ita in area Volcani sublimiori loco statuendam. Ex qua re bene et prospere reipub. cessit. Tunc igitur quod in Etruscos aruspices male consulentes animadversum, vindicatumque fuerat versus hic [senarius] scite factus, cantatusque esse a pueris urbe tota fertur: “Malum consilium consultori pessimum est.

La statua di Grazio Coclite, uomo coraggiosissimo, posta nel Comizio venne colpita dal fulmine. Per poter espiare con sacrifici la contaminazione della folgore, furon chiamati degli aruspici d’Etruria; i quali, per animo avverso e ostile al popolo romano, proposero di espiare l’avvenimento con falsi riti e consigliarono da malvagi di trasportare la statua in luogo più basso, ove il sole mai non arrivasse, sporgendo tutt’attorno alti fabbricati. Riuscirono a indurre i Romani a far ciò, ma vennero poi scoperti e denunciati al popolo; avendo confessata la propria perfidia, furono uccisi; apparve allora evidente, e le prove si ebbero poi, che si doveva porre la statua in un luogo scoperto, ed essa venne posta in quella elevazione ove sorge il tempio di Vulcano. Quando ciò fu compiuto, gli avvenimenti divennero felici e favorevoli per il popolo romano. Allora, in ricordo dell’esser stato il cattivo consiglio degli aruspici etruschi scoperto e punito, si dice che sia stato composto e cantato dai ragazzi di tutta la città questo verso: “Mal consiglio nuoce a chi lo da”.

Noctes Atticae, III, 2-3-5-6-7

2 – M. Varro in libro rerum humanarum, quem de diebus scripsit: “Homines”, inquit, “qui inde a media nocte ad proximam mediam noctem in his horis uiginti quattuor nati sunt, uno die nati dicuntur”.
3 – Athenienses autem aliter obseruare idem Varro in eodem libro scripsit eosque a sole occaso ad solem iterum occidentem omne id medium tempus unum diem esse dicere.
5 – Babylonios porro aliter; a sole enim esorto ad exortum eiusdem incipientem totum id spatium unius diei nomine appellare;
6 – multos uero in terra Vmbria unum et eundem diem esse dicere a meridie ad insequentem meridiem; “Quod quidam” inquit “nimis absurdum est. Nam qui Kalendis hora sexta apud Vmbros natus est, dies eius natalis uideri debebit et Kalendarum dimidiarum et qui est post Kalendas dies ante horam eius diei sextam”.
7 – Populum autem Romanum ita, uti Varro dixit, dies singulos adnumerare a media nocte ad mediam proximam multis argumentis ostenditur.

2 – Marco Varrone, nel libro delle Antichità umane che scrisse Sui giorni, dice: “Gli uomini che sono nati a partire dalla mezzanotte fino alla mezzanotte seguente, in questo spazio di ventiquattrore, si dice che sono nati in un unico giorno”.
3 – Lo stesso Varrone nel medesimo libro scrisse che gli Ateniesi, però, consideravano diversamente la cosa, e dicevano fosse un unico giorno tutto il tempo intercorrente dal tramonto del sole al successivo tramonto del sole.
5 – I Babilonesi, poi, ancora diversamente; chiamavano infatti col nome di un unico giorno tutto lo spazio di tempo dal sorgere del sole al seguente inizio del sorgere dello stesso;
6 – molti, però, nella terra umbra dicevano che dal mezzogiorno era un solo e medesimo giorno; “il che, invero ““ dice Varrone -, è oltremodo assurdo. Infatti, per chi presso gli Umbri è nato alla sesta ora delle calende, il suo giorno natalizio dovrà considerarsi sia metà di quello delle calende sia il giorno che segue le calende entro l’ora sesta di quel giorno stesso”.
7 – Quanto al popolo Romano, è mostrato da molte prove che esso conta i singoli giorni nel modo che disse Varrone, dalla mezzanotte a quella seguente.

“Notizie su uomini strani e mostruosi”

Omnes libri graeci miraculorum fabularumque pleni sunt, ibique res huiuscemodi inauditas et incredulas legere possumus. in remotissima regione sunt homines maximae velocitatis, habentes vestigia pedum retro porrecta, non prorsum spectantia. in ultima terra homines vivunt qui in puerita canescunt et oculis plus cernunt per noctem quam interdiu. In terra Africa homines sunt quorum vox facultatem mirabulissimam habet: nam si impensius laudant pulchriores arbores, segetes laetiores, infantes amoeniores, equos magi egregios, pecudes opimas, hec omnia, nulla alia causa, repente occidunt. Pygmaei, gentes minima statura, qpud extremam Indiam vivunt: qui eorum longissimi sunt, non longiores sunt quam pedes duo et quadrans.

Tutti i libri greci sono pieni di favole e fatti straordinari, e vi possiamo leggere cose inaudite e incredibili di questo genere. In una lontanissima terra ci sono uomini dalla corsa velocissima, che hanno i piedi allungati verso dietro e non rivolti in avanti. In una terra remota ci vivono uomini che hanno i capelli bianchi quando sono infanti e con occhi che vedono più di notte che durante il giorno. Nella terra d’Africa ci sono uomini la cui voce ha una stupefacente capacità: infatti se per caso lodano i begli alberi, le messi abbondanti, i bei ragazzi, i superbi cavalli, i fertili greggi, tutto ciò, senza nessun’altra causa, muore improvvisamente. I pigmei, gente di statura piccolissima, vivono nella lontanissima India: i più alti di loro non superano due piedi e un quarto.

“Il figlio del re Creso riacquista la parola”

Filius Croesi regis, quamvis iam fari per aetatem posset, infans erat et, quamvis iam multum adolevisset, item nihil fari quibat. Mutus adeo et elinguis diu existimatus est. Cum in partem eius, bello magno victum et urbe, in qua erat, capta hostis gladio educto, regem esse ignorans, invaderet. Diduxit adulescens os, clamore nitens, eoque nisu atque impetu spiritum vitium nodumque linguae rupit planeque et articulate elocutus est, clamans in hostem, ne rex Croesus occideretur. Tum et hostis gladium reduxit et rex vita donatus est et adulescens loqui prorsum deinceps incepit.

Il figlio del re Creso, all’età in cui poteva parlare, non ne era capace, ed anche crescendo negli anni non riusciva ad articolar parola. Pertanto per molto tempo lo ritennero muto e senza l’uso della lingua. Un giorno in cui Creso era stato sconfitto in una grande battaglia e la città, in cui si trovava, occupata, il giovane principe vedendo un nemico che senza sapere che era il re, tratta la spada, si rivolgeva contro suo padre, aprì la bocca tentando di gridare; per lo sforzo fatto e la violenza del soffio, si ruppe l’impedimento e l’intoppo della lingua, e chiaramente e distintamente gridò al nemico che non uccidesse il re Creso. Nello stesso istante il nemico rifoderò la spada, il re fu salvo e il giovane da allora incominciò a parlare.

“Come trattare le mogli”

Notum est xanthippem, Socratis philosophi uxorem, admodum morosam fuisse et iurigiosam, cum irarum et molestiarum muliebrium per diem perque noctem scateret. Cum Alcibiades, Socratis discipulis, faminae intemperies in maritum cognosceret, interrogavit Socratem: “Cur mulierem tam acerbam domo non exigis?”. “Quoniam – inquit Socrates – cum illam domi talem tolero, insuesco et exerceor ut ceterorum quoque foris petulantiam et inuriam facilius tolerem”. Varro quoque in satura Menippea “De officio mariti” scripsit: “Vitium uxoris aut tollite aut tollerate. Qui tollit vitium, uxorem commodiorem praestat, qui tolerat sese meliorem facit”. Denique, ita Varro censuit: “Toleremus vitia uxoris, si corrigi non possunt et si tolerari a viro possunt vitia enim flagitiis leviora sunt”.

E’ noto che Santippe, moglie del filosofo Socrate, fu assai bisbetica e litigiosa, essendo pronta ad erompere in ira e pedanterie femminili di giorno e di notte. Alcibiade, discepolo di Socrate, venendo a conoscenza delle intemperanze della donna contro il marito, chiese a Socrate: “Perchè non cacci di casa una donna tanto cattiva?”. “Perchè – disse Socrate – come la sopporto a casa, mi abituo e mi esercito per sopportare assai facilmente anche la petulanza e l’offesa degli altri nelle piazze”. Anche Varrone nella satira Menippea “Riguardo al dovere del marito” scrisse: “O educate o tollerate il vizio della moglie. Colui che educa il vizio, rende la moglie assai piacevole, colui che tollera si rende migliore”. Infine, Varrone così decreta: “Tolleriamo i vizi della moglie, se non possono essere corretti e se possono essere tollerati dal marito infatti i vizi sono più futili dei misfatti”.

“Uomini-mostro tra gli Sciti”

Cum e Graecia in Italiam redirem et Brundisium irem egressusque e navi in terram in portu illo inclito spatiarer, fasces librorum venalium expositos vidi. Accessi percontatusque pretium sum et, adductus mira atque insperata vilitate, libros plurimos aere pauco emo eosque omnes duabus proximis noctibus cursim transeo. Erant igitur in illis libris scripta huiuscemodi: Scythas illos penitissimos, qui sub ipsis septentrionibus aetatem agunt, corporibus hominum vesci eiusque victus alimento vitam ducere et anthropophaagus nominari; item esse homines sub eadem regione caeli unum oculum in frontis medio habentes, qui appellantur Arimaspi, sicut fuisse Cyclopas poetae ferunt; alios item esse homines apud eandem caeli plagam singularis velocitatis, vestigia pedum habentes retro porrecta, non, ut ceterorum hominum, prorsum spectantia; praeterea traditum esse memoratumque in ultima quadam terra, quae “Albania” dicitur, gigni homines, qui in pueritia canescant et plus cernant oculis per noctem quam interdiu.

Ritornando dalla Grecia in Italia e andando a Brindisi sceso dalla nave in terra passeggiando in quel celebre porto, ho visto esposti una serie di libri in vendita. Mi sono avvicinato e ho chiesto il prezzo e, spinto da una meravigliosa e non sperata convenienza, ho comprato a poco molti libri e li ho tutti letti velocemente in due notti. Dunque erano scritte in quei libri cose di questo genere: sono chiamati antropofagi quegli Sciti assai antichi, che vivono a sud, che si cibano di corpi di uomini e che con quel alimento vivono, così vi sono uomini che in quella stessa regione hanno un solo occhio nella fronte, che si chiamano Arimaspi, che i poeti dicono siano stati ciclopi, allo stesso modo vi sono altri uomini presso la stessa parte di mondo di singolare velocità, che hanno dietro l’orma dei piedi allungata, non come gli altri uomini, che volgono avanti, inoltre si dice che nell’ultima parte di terra, che è chiamata Albania, vi siano degli uomini che invecchiano in gioventù e guardano con gli occhi più di notte che di giorno.

Noctes Atticae, IX, 11

De Maximo Valerio, qui Corvinus appellatus est ob auxilium propugnationemque corvi alitis, haut quisquam est nobilium scriptorum, qui secus dixerit. Ea res prorsus admiranda sic profecto est in libris annalibus memorata. Adulescens tali genere editus L. Furio Claudio Appio consulibus fit tribunus militaris. Atque in eo tempore copiae Gallorum ingentes agrum Pomptinum insederant, instruebanturque acies a consulibus de vi ac multitudine hostium satis agentibus. Dux interea Gallorum vasta et ardua proceritate armisque auro praefulgentibus grandia ingrediens et manu telum reciprocans incedebat perque contemptum et superbiam circumspiciens despiciensque omnia venire iubet et congredi, si quis pugnare secum ex omni Romano exercitu auderet. Tum Valerius tribunus ceteris inter metum pudoremque ambiguis impetrato prius a consulibus ut in Gallum tam inmaniter adrogantem pugnare sese permitterent, progreditur intrepide modesteque obviam; et congrediuntur et consistunt, et conserebantur iam manus, atque ibi vis quaedam divina fit: corvus repente inprovisus advolat et super galeam tribuni insistit atque inde in adversari os atque oculos pugnare incipit; insilibat, obturbabat et unguibus manum laniabat et prospectum alis arcebat atque, ubi satis saevierat, revolabat in galeam tribuni. Sic tribunus spectante utroque exercitu et sua virtute nixus et opera alitis propugnatus ducem hostium ferocissimum vicit interfecitque atque ob hanc causam cognomen habuit Corvinus. Id factum est annis quadringentis quinque post Romam conditam. 10 Statuam Corvino isti divus Augustus in foro suo statuendam curavit. In eius statuae capite corvi simulacrum est rei pugnaeque, quam diximus, monimentum.

Di Valerio Massimo, soprannominato Corvino per l’aiuto e la difesa datagli da un corvo, nessuno dei più noti scrittori ha narrato diversamente tale vicenda. Quel fatto davvero singolare è così ricordato dagli Annali. Un giovane uscito da quella famiglia fu nominato tribuno militare sotto il consolato di Lucio Furio e Claudio Appio. In quel tempo grandi forze dei Galli avevano invaso la Pontinia e i consoli, preoccupati dal numero e dalla forza dei nemici, schiereranno le proprie truppe in battaglia. Allora il capo dei Galli, che si distingueva per la corporatura grossa e alta e per il luccicare delle armi dorate, avanzò a grandi passi, e facendo mulinare con la mano l’asta e guardando tutt’intorno con altezzosa superbia, ordinò con aria di disprezzo che avanzasse e si presentasse se v’era qualcuno in tutto l’esercito romano che osasse combattere con lui. Allora il tribuno Valerio, di fronte agli altri che esitavano per timore e vergogna dopo aver chiesto ai consoli che gli consentissero di combattere con quel gallo così vanamente arrogante, si fece innanzi con coraggio e ritegno; i due combattenti si fan sotto, s’arrestarono e già hanno messo mano alle armi quando avviene un fatto miracoloso: d’improvviso un corvo giunge in volo, si posa sull’elmo del tribuno e poi comincia a colpire il viso e gli occhi dell’avversario; lo sorprende, lo turba, gli graffia le mani con le unghie, lo acceca con lo sbattere delle ali e, quando gli par di avere infierito a sufficienza, ritorna sull’elmo del tribuno. Allora questi, dinanzi ad ambedue le schiere, facendo assegnamento sul proprio coraggio e sull’aiuto dell’uccello, atterra quel ferocissimo capo dei nemici, lo uccide e per questo fatto assume il cognome di Corvino. Ciò avvenne nell’anno 405 dalla fondazione di Roma. Il divo Augusto fece erigere nel suo Foro una statua a questo Corvino. Sulla testa di tale statua v’è l’effigie di un corvo, il ricordo del combattimento che ho descritto.

“Il corvo divino che risolse il duello”

Dux interea Gallorum, vasta et ardua proceritate, grandia ingrediens et manu telum reciprocans despiciensque omnia, iubet congredi, si quis proeliari secum ex omni Romano exercitu auderet. Tum Valerius tribunus, cum ceteri inter metum pudoremque ambigui essent, progreditur intrepide modesteque obviam. Congrediuntur et consistunt et conserebantur iam manus: atque ibi vis quaedam divina fuit. Corvus repente advolat et super galeam tribuni moratur, atque inde in avversarii os atque oculos proeliatur. Ubi satis saevierat, revolabat in galeam tribuni. Sic tribunus, et sua virtute nixus et opera alitis propugnatus, ducem hostium ferocissimum vicit et interfecit atque ob hanc causam congnomen habuit Corvinum.

Intanto il comandante dei Galli, di altezza smisurata ed impressionante, avanzando a grandi passi e facendo mulinare con la mano l’asta e guardando dall’alto in basso ogni cosa, ordinò di avvicinarsi, se qualcuno fra tutto l’esercito romano aveva il coraggio di duellare con lui. Allora il tribuno Valerio, mentre tutti gli altri erano incerti tra il timore e la vergogna, gli si avanzò incontro intrepidamente e con calma. Si avvicinarono e si arrestarono e ormai stavano venendo alle mani: e là ci fu una specie di forza divina. Improvvisamente un corvo arrivò in volo e si fermò sull’elmo del tribuno, e quindi si avventò contro il viso e gli occhi del nemico. Quando gli pareva di avere infierito a sufficienza, tornava all’elmo del tribuno. Così il tribuno, facendo assegnamento sul proprio coraggio e sull’aiuto dell’uccello, vinse e uccise il ferocissimo comandante dei nemici e per questo motivo ebbe il soprannome di Corvino.

Noctes Atticae, XIII, 2, 2-6 (“L’incontro di due poeti tragici”)

Cum Pacuvius, grandi iam aetate et diutino corporis morbo adfectus Tarentum ex urbe Roma concessisset, Accius tunc haud parvo iunior proficiscens in Asiam, cum in oppidum venisset, devertit ad Pacuvium, comiterque invitatus plusculisque ab eo diebus retentus, tragoediam suam, cui Atreus nomen est, desideranti legit. Tum Pacuvium dixisse aiunt sonora quidem esse, quae scripsisset, et grandia, sed videri tamen ea sibi duriora paulum et acerbiora. “Ita est, inquit Accius, uti dicis; neque id me sane paenitet; meliora enim fore spero, quae deinceps scribam. Nam quod in pomis est, itidem, inquit, esse aiunt in ingeniis; quae dura et acerba nascuntur, post fiunt mitia et iucunda; sed quae gignuntur statim vieta et mollia atque in principio sunt uvida, non matura mox fiunt, sed putria. Relinquendum igitur visum est in ingenio, quod dies atque aetas mitificet”.

Dopo che Pacuvio, di età ormai avanzata e affetto da una malattia cronica, si era ritirato dalla città di Roma a Taranto, Accio allora molto più giovane, in viaggio per l’Asia, essendo giunto in (quella) città, andò a trovare Pacuvio e, ospitato affettuosamente e trattenuto da lui per alcuni giorni, gli lesse, poiché lo desiderava, la sua tragedia che si intitola Atreo. Sostengono che Pacuvio allora disse che i versi che aveva scritto erano sì risonanti e solenni, ma tuttavia, gli sembravano un po’ troppo duri e acerbi. “E’ così come dici, disse Accio; e non me ne pento proprio; spero, infatti, che quelli che scriverò in seguito, saranno migliori. Infatti dicono che quello che succede nei frutti succede anche negli ingegni, disse; quelli che nascono duri e acerbi poi diventano morbidi e gustosi; invece quelli che subito nascono flaccidi e molli e in principio sono sugosi, poi non diventano maturi ma marci. E’ parsa cosa opportuna dunque la necessità di lasciare nell’ingegno qualcosa che l’età e il tempo faccia maturare”.

“Un episodio relativo al re Tarquinio”

Quaedam anus hospita atque incognita videtur olim ad Tarquinium regem se contulisse, novem libros secum ferens, quos divina oracula continere dicebat et vendere cupiebat. Cum Tarquinius pretium percontatus esset, anus nimiam atque immensam pecuniam petivit; quasi anus aetate desiperet, rex derisit. Tum illa, foculo cum igni ante eum posito, tres ex novem libris combussit et ex eo num sex reliquos eodem pretio emer vellet quaesivit. Sed Tarquinio, multo magis ridenti, anus sine dubio delirare visa est. At mulier ibidem statim, aliis tribus libris combustis, placide ex rege iterum quaesivit num reliquos tres libros eodem pretio emere vellet. Tum Tarquinius ore serio ac animo attentiore factus est; nam mulierem tam constantem securamque de se contemnendam sibi non esse putavit; itaque libros statim maximo pretio emit. Cum a Tarquinio anus abisset, nemo umquam quo ea se contulisset scivit: quod nusquam loci iam visa est.

Sembra che una volta una vecchia straniera e sconosciuta si sia recata dal re Traquinio, portando con sé nove libri, che diceva contenessero gli oracoli sacri e desiderava venderli. Quando Tarquinio domandò il prezzo, la vecchia chiese un’eccessiva e smirurata quantità di denaro; come se la vecchia con l’età avesse perso il senno, il re allora la derise. Allora quella, dopo aver messo un braciere con il fuoco davanti a lui, bruciò tre dei nove libri e gli chiese se voleva comperare i sei rimanenti allo stesso prezzo. Ma a Tarquinio, che rideva molto di più, la vecchia senza dubbio sembrò delirare. Ma la donna immediatamente in quello stesso luogo, dopo aver bruciato gli altri tre libri, tranquillamente per la seconda volta chiese al re se voleva comperare i tre restanti libri allo stesso prezzo. Allora Tarquinio divenne dal volto derio e con l’animo più attento; infatti ritenne di non dover sottovalutare una donna tanto insistente e sicura di sé; pertanto acquistò subito i libri al prezzo più alto. Quando la vecchia si fu allontanata da Tarquinio, nessuno seppe mai dove ella si fosse rifugiata: poiché non fu vista più in nessun posto.

“Origine del mitridatismo”

Anates Ponticas dicunt victitare venenis comedentis. Scriptum etiam est a Lenaeo, Cnei Pompei liberto, Mithridatem illum, Ponti regem, medinae et remediorum illius generis sollertem fuisse, solitumque esse anatum Ponticarum sanguinem miscere medicamentis, quae digerendis venenis valent. Arbitrabatur enim eum sanguinem potentissimum esse in ea confectione et ipse assidue talibus medelis utendo, a clandestinis epularum insidiis cavebat. Saepenumero etiam, ostentandi gratia, venenum rapidum et velox hausit, atque id sine noxa fuit. Quamobrem postea, cum, a populo Romano proelio victus, in ultima loca regni sui refugisset et venena violentissima, festinandae necis gratia, frustra espertus esset, suo se ipse gladio transegit. Huius regis antidotus celebratissima est, quae Mithridatea vocatur.

Dicono che le anatre del Ponto vivano di veleni, mangiandoli. Anche da Leneo, liberto di Gneo Pompeo, fu scritto che quel famoso Mitridate, re del Ponto, fosse stato esperto di medicina e di rimedi di quel genere, e che fosse solito mischiare alle medicine sangue di anatre del Ponto, che sono in grado di digerire i veleni. Credeva infatti che quel sangue fosse potentissimo in quella preparazione e lui stesso col servirsi assiduamente di tali metodi si guardava dalle insidie nascosti delle vivande. Spesso, per dimostrare, bevve anche del veleno rapido e veloce e ciò fu senza danno. Perciò in seguito, poiché, essendo stato vinto in battaglia dal popolo Romano, si era rifugiato nei luoghi più remoti del suo regno ed aveva provato, per affrettare la morte, invano dei veleni violentissimi, lui stesso si trafisse con la propria spada. L’antidoto di questo re, che si chiama mitridatico, è famosissimo.

Noctes Atticae, V, 9

Historia de Croesi filio sumpta ex Herodoti libris. Filius Croesi regis, cum iam fari per aetatem posset, infans erat et, cum iam multum adolevisset, item nihil fari quibat. Mutus adeo et elinguis diu habitus est. Cum in patrem eius bello magno victum et urbe, in qua erat, capta hostis gladio educto regem esse ignorans invaderet, diduxit adulescens os clamare nitens eoque nisu atque impetu spiritus vitium nodumque linguae rupit planeque et articulate elocutus est clamans in hostem, ne rex Croesus occideretur. Tum et hostis gladium reduxit, et rex vita donatus est, et adulescens loqui prorsum deinceps incepit. Herodotus in historiis huius memoriae scriptor est, eiusque verba sunt, quae prima dixisse filium Croesi refert: Anthrope, me kteine Kroison. Sed et quispiam Samius athleta, – nomen illi fuit Echeklous – cum antea non loquens fuisset, ob similem dicitur causam loqui coepisse. Nam cum in sacro certamine sortitio inter ipsos et adversarios non bona fide fieret et sortem nominis falsam subici animadvertisset, repente in eum, qui id faciebat, videre sese, quid faceret, magnum inclamavit. Atque is oris vinculo solutus per omne inde vitae tempus non turbide neque adhaese locutus est.

Storia del figlio di Creso, tratta dall’opera di Erodoto. Il figlio del re Creso, all’età in cui poteva parlare, non ne era capace, ed anche crescendo negli anni non riusciva ad articolar parola. Pertanto per molto tempo lo ritennero muto e senza l’uso della lingua. Un giorno in cui Creso era stato sconfitto in una grande battaglia e la città, in cui si trovava, occupata, il giovane principe vedendo un nemico che senza sapere che era il re, tratta la spada, si rivolgeva contro suo padre, aprì la bocca tentando di gridare; per lo sforzo fatto e la violenza del soffio, si ruppe l’impedimento e l’intoppo della lingua, e chiaramente e distintamente gridò al nemico che non uccidesse il re Creso. Nello stesso istante il nemico rifoderò la spada, il re fu salvo e il giovane da allora incominciò a parlare. E’ Erodoto che nelle sue Storie riferisce questo fatto e cita la parole che il figlio di Creso avrebbe per prime pronunciate: Ánthrope, mè ktèine Kròison (uomo, non uccidere Creso). Ma anche di un atleta di Samo chiamato Echeklòus, che pure non sapeva parlare, si dice che riconquistasse la favella per una circostanza consimile. Infatti, durante una sacra competizione, vedendo che l’estrazione a sorte fra la sua squadra e i suoi avversari non avveniva regolarmente e si era fatto un sorteggio irregolare dei nomi, d’un tratto si mise a gridare ad alta voce, a colui che stava compiendo la frode, ch’egli s’era accorto di ciò che avveniva. Questo sforzo liberò la sua lingua dai legami che la trattenevano e per il resto di sua vita parlò senza difficoltà e senza intoppi.

Noctes Atticae, XV, 20

Euripidi poetae matrem Theopompus agrestia olera vendentem victum quaesisse dicit.Patri autem eius nato illo responsum est a Chaldeis eum puerum,cum adolevisset,victorem in certaminibus fore;id ei puero fatum esse.Pater interpretatus athletam debere esse roborato exercitatoque flii sui corpore Olympiam certaturum eum inter athletas pueros deduxit.Ac primo quidem in certamen per ambiguam aetatem receptus non est,post Eleusino et Theseo certamine pugnavit et corinatus est.Mox a corporis cura ad excolendi animi studium transgressus auditor fuit physici Anaxagorae et Prodici rhetoris,in morali autem philosophia Socratis.Tragoediam scribere natus annos duodeviginti adortus est.Philochorus refert in insula Salamine speluncam esse taetram et horridam,in qua Euripides tragoedias scriptitarit.Mulieres fere omnes in maiorem modum exosus fuisse dicitur,sive quod natura abhorruit a mulierem coetu sive quod duas simul uxores habuerat,quarum matrimonii pertaedebat.Is,cum in Macedonia apud Archelaum regem esset utereturque eo rex familiariter,rediens nocte ab eius cena canibus a quodam aemulo inmissis dilaceratus est,et ex his vulneribus mors secuta est.

Teopompo afferma che la madre del poeta Euripide si sostentava vendendo legumi selvatici. Tuttavia, a suo padre ““ quand’egli nacque ““ fu predetto dai Caldei che quel fanciullo, una volta cresciuto, sarebbe diventato un vincitore nei combattimenti; tale era il destino di quel fanciullo. Il padre, supponendo che (Euripide) dovesse divenire un atleta, dopo aver fatto irrobustire ed esercitare il corpo del proprio figlio, lo condusse ad Olimpia affinché combattesse tra altri giovani atleti. Ma alla prima gara (Euripide) non fu ammesso per incertezza sull’età; (ma) in seguito gareggiò nei giochi di Eleusi e di Teseo, e fu incoronato (vincitore). Poi, passato dall’esercizio del fisico al desiderio di istruire la mente, (Euripide) divenne discepolo di Anassagora, filosofo della natura, e di Prodeico, retore, mentre ““ in filosofia morale ““ di Socrate. Cominciò a scrivere tragedie a 18 anni. Filocoro narra che nell’isola di Salamina vi è una caverna tetra ed orrida, nella quale Euripide avrebbe scritto le (proprie) tragedie. (Inoltre,) fama vuole che egli provasse grande antipatia per quasi tutte le donne (= misoginia), sia perché (già) per natura ebbe avversione per il genere femminile, sia perché aveva avuto ““ contemporaneamente ““ due mogli, del cui vincolo matrimoniale era infastidito. Egli, al tempo in cui si trovava in Macedonia, ospite del re Archelao ““ di cui divenne intimo amico ““ mentre ritornava di notte da una cena con lui, venne sbranato da cani lanciati (contro di lui) da un rivale, e morì in seguito alle ferite riportate.

Noctes Atticae, V, 5

In libris veterum memoriarum scriptum est Hannibalem Carthaginiensem apud regem Antiochum facetissime cavillatum esse. Ea cavillatio huiuscemodi fuit: ostendebat ei Antiochus in campo copias ingentis, quas bellum populo Romano facturus comparaverat, convertebatque exercitum insignibus argenteis et aureis florentem; inducebat etiam currus cum falcibus et elephantos cum turribus equitatumque frenis, ephippiis, monilibus, phaleris praefulgentem. Atque ibi rex contemplatione tanti ac tam amati exercitus gloriabundus Hannibalem aspicit et «Putasne» inquit «conferri posse ac satis esse Romanis haec omnia?» Tum Poenus eludens ignaviam inbelliamque militum eius pretiose armatorum: «Satis, plane satis esse credo Romanis haec omnia, etiamsi avarissimi sunt». Nihil prorsum neque tam lepide neque tam acerbe dici potest: rex de numero exercitus sui ac de aestimanda aequiperatione quaesiverat, respondit Hannibal de praeda.

Nei vecchi libri di memorie sta scritto che il cartaginese Annibale prese in giro molto spiritosamente il re Antioco. La presa in giro fu questa: Antioco gli mostrava schierata la massa di uomini che aveva preparata per far guerra al popolo romano, e faceva manovrare tale esercito ricco di armamenti d’argento e d’oro; faceva passare davanti a lui i carri falcati, gli elefanti turriti e la cavalleria sfolgorante nelle briglie, nelle selle, nelle collane, nelle bardature. Gloriandosi il re nel contemplare tante e così ornate truppe, si rivolse ad Annibale dicendogli: «Che ne pensi, che tutto ciò possa essere messo a confronto e bastare per i Romani?». Al che il Cartaginese, volendo deridere l’ignavia e la codardia di milizie così preziosamente adornate, rispose: «Basterà, credo davvero che basterà tutto ciò ai Romani, anche se sono avidissimi». Non si poteva dir nulla di più spiritoso e mordente; il re aveva parlato del numero dei suoi soldati e chiesto un raffronto con i Romani; Annibale, rispondendogli, si era riferito alla preda.