“Alessandro corrompe l’oracolo di Ammone”

Inde Rhodum Alexander, Aegyptum Ciliciamque sine certamine recepit. Ad Iovem deinde Hammonem pergit consulturus et de eventu futurorum et de origine sua. Namque mater eius Olympias confessa viro suo Philippo fuerat, Alexandrum non ex eo se, sed ex serpente ingentis magnitudinis concepisse. Denique Philippus ultimo prope vitae suae tempore filium suum non esse palam praedicaverat. Qua ex causa Olympiada velut stupri conpertam repudio dimiserat. Igitur Alexander cupiens originem divinitatis adquirere, simul et matrem infamia liberare, per praemissos subornat antistites, quid sibi responderi vellet. Ingredientem templum statim antistites ut Hammonis filium salutant. Ille laetus dei adoptione hoc se patre censeri iubet. Rogat deinde, an omnes interfectores parentis sui sit ultus. Respondetur patrem eius nec interfici posse nec mori; regis Philippi plene peractam ultionem.

Poi Alessandro ricevette Rodi, l’Egitto e la Cilicia senza combattere. Quindi si diresse verso Giove Ammone: si sarebbe informato sugli eventi del futuro e sulla sua origine. Infatti sua madre Olimpia aveva detto al suo uomo Filippo che aveva concepito Alessandro non da lui, ma da un serpente dalla grande forza. Infine Filippo nell’ultimo periodo della sua vita aveva proclamato apertamente che Alessandro non era figlio suo. Per al cui causa aveva abbandonato la moglie con il divorzio. Allora Alessandro che desiderava acquistare un’origine divina e allo stesso tempo liberare la madre dall’infamia, corruppe e comandò i sacerdoti per mezzo degli ambasciatori promessi. Quando giunse nel tempio, subito i sacerdoti salutarono Alessandro come figlio di Ammone.

“Elogio di Alessandro Magno”

Vir supra humanam potentiam magnitudine animi praeditus. Nam ea die qua natus est, duae aquilae tota die praepetes supra culmen domus patris eius sederunt, omen duplicis imperii, Europae Asiaeque, praeferentes. Eadem quoque die nuntium pater eius duarum victoriarum accepit: alterius certaminis Olympiaci, in quod quadrigarum currus miserat; quod omen universarum terrarum victoriam infanti portendebat. Puer acerrimus litterarum studiis eruditus fuit. Exacta pueritia per quinquennium sub Aristotele doctore, inclito omnium philosophorum, crevit. Cum deinde imperium accepisset, regem se terrarum omnium ac mundi appellari iussit; tantamque fiduciam sui militibus fecit, ut cum ille adesset, nullius hostis arma nec inermes timuerint. Itaque cum nullo hostium umquam congressus est, quem non vicerit, nullam urbem obsedit, quam non expugnaverit, nullam gentem adiit, quam non calcaverit. Victus denique ad postremum est non virtute hostili, sed insidiis suorum et fraude civili.

Uomo fornito di grandezza d’animo sopra l’umana potenza. Infatti nel giorno in cui è nato, due aquile che volavano tutto il giorno sul tetto della casa di suo padre si sedettero, profetando un presagio di un duplice impero, di Europa e Asia. Nello stesso giorno suo padre ricevette la notizia di due vittorie: di uno scontro olimpico nel quale aveva mandato un carro di quadrighe, tale presagio profetava al giovane la vittoria di tutte le terre. Il fanciullo assai feroce fu erudito agli studi di letteratura. Nella sua giovinezza, fu per cinque anni discepolo di Aristotele, il più illustre dei filosofi. Appena salito al trono, si fece chiamare re dell’universo, e ispirò una tale fiducia ai suoi soldati, che, sotto i suoi ordini, combatterono coraggiosi, senza armi, contro i loro nemici armati. Anche Alessandro non combattè mai senza vincere, non assediò nessuna città senza prenderla, non attaccò nessuna nazione senza annientarla. Morì infine, non per il coraggio dei suoi nemici, ma vinto dalla perfidia dei suoi cortigiani e per il tradimento del suo popolo.

“Fondazione di Eraclea”

Heracleae urbis initia, ut Iustinus tradit, admirabilia fuerunt, Nam quia gravis pestilentia Boeotiae incolas vexabat nullumque inveniebatur remedium, contione advocata, Beotii statuerunt ut Delphos legati mitterentur oraculum consulturi de morbi causa. Interrogantibus oraculum morbi causam non patefecit sed imperavit ut fines suos, morbo corruptos, relinquerent, omnia sua secum auferrent, in Ponti regionem se transferrent et apud Pontum Euxinum coloniam Herculi sacram conderent. Oraculi responso cognito, Boeotii, paratis omnibus rebus suis, sum senibus, mulieribus puerisque domos agrosque reliquerunt et post longam periculosamque navigationem in Pontum pervenerunt, ubi ab Herculis nomine urbem Heracleam condiderunt. Et quoniam fatorum auspiciis coloni in illam regionem delati erant, brevi tempore nova urbs tantum crevit, ut ceteras Ponti urbes superaverit.

La città di Eraclea all’inizio fu, come dice Giustino, meravigliosa, infatti poichè una grave pestilenza vessava le isole della Beozia e non si trovava alcun rimedio, convocata l’assemblea, i Beoti decisero di mandare ambasciatori a Delfi per consultare l’oracolo sulla causa del morbo. A coloro che interrogavano l’oracolo non rivelò la causa del morbo ma ordinò di lasciare i loro confini corrotti dal morbo e di portare tutte le loro cose con loro, di trasferirsi nella regione del Ponto e di fondare una colonia sacra ad Ercole presso il Mar Nero. Conosciuto il responso dell’oracolo, i Beoti, preparate le loro cose, coi vecchi, le donne e i figli lasciarono le case e i campi e dopo una lunga e pericolosa navigazione giunsero nel Ponto, dove fondarono una città dal nome di Ercole, Eraclea. E siccome i coloni erano stati condotti in quella regione dal fato in breve tempo la nuova città crebbe tanto da superare tutte le altre città del Ponto.

Epitomae, IX, 8, vv. 11-21

Huic Alexander filius successit et virtute et vitiis patre maior. Itaque vincendi ratio utrique diversa. Hic aperta, ille artibus bella tractabat. Deceptis ille gaudere hostibus, hic palam fusis. Prudentior ille consilio, hic animo magnificentior. Iram pater dissimulare, plerumque etiam vincere; hic ubi exarsisset, nec dilatio ultionis nec modus erat. Vini nimis uterque avidus, sed ebrietatis diversa vitia. Patri mos erat etiam de convivio in hostem procurrere, manum conserere, periculis se temere offerre; Alexander non in hostem, sed in suos saeviebat. Quam ob rem saepe Philippum vulneratum proelia remisere, hic amicorum interfector convivio frequenter excessit. Regnare ille cum amicis nolebat, hic in amicos regna exercebat. Amari pater malle, hic metui. Litterarum cultus utrique similis. Sollertiae pater maioris, hic fidei. Verbis atque oratione Philippus, hic rebus moderatior. Parcendi victis filio animus et promptior et honestior. Frugalitati pater, luxuriae filius magis deditus erat. Quibus artibus orbis imperii fundamenta pater iecit, operis totius gloriam filius consummavit.

A costui (Filippo) successe il figlio Alessandro, superiore al padre sia nel bene che nel male. Ad esempio, adottarono diverse tattiche di vittoria: l’uno conduceva gli scontri frontali, l’altro ricorreva a sotterfugi; e così, quest’ultimo traeva personale soddisfazione dall’aver tratto in inganno i nemici, l’altro dall’averli sterminati senza mezzi termini. Quello fu più accorto in giudizio, questo di animo più grandioso. Filippo riusciva a non far trasparire la propria ira, e il più delle volte anche a soffocarla; questo (Alessandro), invece, una volta che s’era infiammato, la vendetta e il castigo trovavano libero e immediato sfogo. Entrambi erano provetti bevitori, ma sfogavano diversamente la propria ubriachezza molesta. Tipico del padre era passare direttamente dal banchetto al campo di battaglia, venire alle mani, esporsi ai pericoli senza timore; Alessandro infieriva non contro il nemico, ma contro i suoi amici; per la qual cosa, spesso Filippo tornava dai combattimenti con qualche ferita, Alessandro, altrettanto spesso, abbandonava il banchetto che aveva ucciso qualcuno dei suoi. Quello (Filippo) non gradiva circondarsi di persone del suo seguito nell’esercizio del potere; questi (Alessandro) pareva addirittura esercitare il potere a svantaggio dei suoi amici. Il padre ci teneva ad essere amato, il figlio ad esser temuto. Pari, in entrambi, l’amore per le belle lettere. Più portato alla critica il padre, più fedele alla tradizione il figlio. Filippo era più parco, tutto all’opposto il figlio. Nel figlio c’era un’animo più disposto e più genuino ad aver riguardo per gli sconfitti. Il padre era decisamente più dedito alla parsimonia; al figlio piaceva, invece, il lusso. Grazie a quelle disposizioni, Filippo gettò le fondamenta di un regno che coprisse l’intero mondo; il figlio portò a termine quel glorioso, universale disegno.

“Serenità d’animo di Alessandro in punto di morte”

Quarto die Alexander indubitatam mortem sentiens agnoscere se fatum domus maiorum suorum ait, nam plerosque Aeacidarum intra XXX annum defunctos. Tumultuantes deinde milites insidiisque perire regem suspicantes ipse sedavit eosque omnes, cum prolatus in editissimum urbis locum esset, ad conspectum suum admisit osculandamque dexteram suam flentibus porrexit. Cum lacrimarent omnes, ipse non sine lacrimis tantum, verum sine ullo tristioris mentis argumento fuit, ut quosdam inpatientius dolentes consolatus sit, quibusdam mandata ad parentes eorum dederit: adeo sicuti in hostem, ita et in mortem invictus animus fuit. Dimissis militibus circumstantes amicos percontatur, videanturne similem sibi reperturi regem. Tacentibus cunctis tum ipse, ut hoc nesciat, ita illud scire vaticinarique se ac paene oculis videre dixit, quantum sit in hoc certamine sanguinis fusura Macedonia, quantis caedibus, quo cruore mortuo sibi parentatura. Ad postremum corpus suum in Hammonis templum condi iubet. Cum deficere eum amici viderent, quaerunt, quem imperii faciat heredem. Respondit dignissimum.

Al quarto giorno Alessandro, avvertendo come certa la morte, disse di riconoscere il destino della casa dei suoi antenati, infatti la gran parte degli Ecidi erano morti entro il trentesimo anno. Poi egli stesso calmò i soldati che si agitavano e sospettavano che il re morisse per un complotto e, dopo essersi portato nel luogo più elevato della città, li ammise tutti al suo cospetto e porse a loro che piangevano la sua destra per baciarla. Mentre tutti piangevano, egli rimase non solo senza lacrime, ma addirittura senza alcun atteggiamento di un animo troppo triste, così che in modo quasi impassibile consolò alcuni, ad altri diede incarichi per i loro genitori: a tal punto fu indomito l’animo così contro il nemico come anche in morte. Congedati i soldati chiese agli amici che lo circondavano se pensavano che avrebbero trovato un re simile a lui. Giacché tutti tacevano allora egli stesso, pur non sapendolo, disse di conoscere e prevedere e vedere quasi con gli occhi quanto sarebbe stata distrutta la Macedonia in questa battaglia di sangue, con che grandi stragi, con quale sangue lo avrebbero celebrato morto. All’estremo ordina che il suo corpo sia composto nel tempio di Ammone. Vedendo gli amici che egli veniva meno gli domandano chi costituisca erede dell’impero. Risponde: quello più degno.

“Aspro combattimento fra i Macedoni e i Barbari”

Quarto die Alexander pervenit ad oppidum, quod in regno erat Sambi. Nuper Sambus se dediderat, sed oppidani, qui permagni libertatem suam faciebant, clauserant portas. Eorum paucitate contempta, Alexander quingentos suorum moenia subire iussit, iisque imperavit ut, sensim recedentes, elicerent extra murum hostem. Sciebat enim hostem Macedones insecuturum esse, si eos fugere crederet. Milites igitur, sicut iussi erant, lacessito hoste, subito terga verterunt. Eos barbari effuse sequentes, in alios, inter quos ipse Alexander erat, incidunt. Renovatum ergo proelium est: ex tribus milibus hostium sescenti caesi sunt, mille capti, reliqui intra moenia confugerunt. Sed Macedonum victoria laeta non fuit: barbari enim veneno tinxerant gladios.

Al quarto giorno Alessandro giunge alla città, che era nel regno di Sambo. Da poco Sambo era fuggito, ma i cittadini, che tenevano in grandissima considerazione la propria libertà, avevano chiuso le porte. Disdegnando l’esiguo numero di quelli, Alessandro comandò a cinquecento dei suoi di andare sotto le mura, e comandò loro che, allontanandosi a poco a poco, attraessero il nemico fuori dalle mura. Sapeva infatti che il nemico avrebbe inseguito i Macedoni, se pensava che fuggissero. I soldati, dunque, così come erano stati comandati, provocato il nemico, subito voltarono le spalle (fuggirono). I barbari, segueno quelli alla rinfusa, si imbattono negli altri, tra i quali vi era lo stesso Alessandro. Dunque viene ricominciato il combattimento: furono uccisi 3600 nemici, mille (fatti) prigionieri, gli altri fuggirono dentro le mura. Ma la vittoria dei Macedoni non fu felice: i barbari infatti avevano intinto le spade nel veleno.

“Vendetta della regina Tamiri”

Cyrus subacta Asia et universo Oriente in potestatem redacto Scythis bellum infert. Erat eo tempore regina Scytharum Tamyris, quae non muliebriter adventu hostium territa, cum prohibere eos transitu Araxis fluminis posset, transire permisit, et sibi faciliorem pugnam intra regni sui terminos rata et hostibus obiectu fluminis fugam difficiliorem. Itaque Cyrus traiectis copiis, cum aliquantisper in Scythiam processisset, castra metatus est. Dein postero die simulato metu, quasi refugiens castra deseruisset, ita vini adfatim et ea, quae epulis erant necessaria, reliquit. Quod cum nuntiatum reginae esset, adulescentulum filium ad insequendum eum cum tertia parte copiarum mittit. Cum ventum ad castra Cyri esset, ignarus rei militaris adulescens, veluti ad epulas, non ad proelium venisset, omissis hostibus insuetos barbaros vino se onerare patitur, priusque Scythae ebrietate quam bello vincuntur. Nam cognitis his Cyrus reversus per noctem saucios opprimit omnesque Scythas cum reginae filio interfecit. Amisso tanto exercitu et, quod gravius dolendum, unico filio Tamyris orbitatis dolorem non in lacrimas effudit, sed in ultionis solacia intendit hostesque recenti victoria exsultantes pari insidiarum fraude circumvenit; quippe simulata diffidentia propter vulnus acceptum refugiens Cyrum ad angustias usque perduxit. Ibi conpositis in montibus insidiis ducenta milia Persarum cum ipso rege trucidavit. In qua victoria etiam illud memorabile fuit, quod ne nuntius quidem tantae cladis superfuit. Caput Cyri amputatum in utrem humano sanguine repletum coici regina iubet cum hac exprobratione crudelitatis: “Satia te” inquit “sanguine, quem sitisti cuiusque insatiabilis semper fuisti”.

Ciro, sottomessa l’Asia e ridotto in suo potere tutto l’Oriente, muove guerra agli Sciti. In quel tempo era regina degli Sciti Tamiri che non si lasciò spaventare a guisa di donna dall’arrivo dei nemici e pur potendo impedire loro il passaggio del fiume Arasse, permise che (lo) attraversassero, pensando che la battaglia (sarebbe stata) più facile per lei entro i confini del suo regno e che la fuga per i nemici più difficile per l’ostacolo del fiume. E così Ciro, trasportate le truppe al di là (del fiume), dopo essere avanzato un po’ nella Scizia, pose l’accampamento. Poi, il giorno dopo, simulata la paura, come se avesse abbandonato l’accampamento fuggendo, lasciò così gran quantità di vino e quelle cose che erano necessarie al banchetto. Essendo stato annunciato ciò alla regina, (ella) mandò il figlio giovinetto ad inseguirlo con la terza parte dell’esercito. Ma dopo che si giunse all’accampamento di Ciro, il giovinetto, inesperto di arte militare, come se fosse venuto ad un banchetto, non ad un combattimento, trascurati i nemici, permise ai barbari, che non erano abituati al vino, di riempirsi di vino e gli Sciti furono vinti più con l’ubriachezza che con la guerra. Infatti, saputo ciò, Ciro, ritornato durante la notte, (li) aggredisce ubriachi (com’erano) e uccise tutti gli Sciti con il figlio della regina. Perduto un esercito tanto grande e, cosa di cui si doveva addolorare più profondamente, l’unico figlio, Tamiri non sfogò nelle lacrime il dolore della perdita, ma si volse al conforto della vendetta e con un pari inganno di insidie sorprese i nemici esultanti per la recente vittoria; infatti, simulata la sfiducia per la sconfitta ricevuta, ritirandosi condusse Ciro fino ad un passo stretto. Qui preparato un agguato sui monti, trucidò duecentomila Persiani con lo stesso re. In questa vittoria è rimasto memorabile anche questo fatto, che non sopravvisse a tanta strage neppure un messaggero. La regina ordinò che la testa di Ciro fosse tagliata e gettata in un otre colmo di sangue umano, con questo rimprovero per la sua crudeltà: “Sàziati del sangue di cui fosti assetato e di cui fosti sempre insaziabile”.

“La Sicilia”

Siciliam ferunt angustis quondam faucibus Italiae adhaesisse direptamque velut a corpore maiore, impetu superi maris, quod tot undarum onere illuc vehitur. Est autem ipsa tenuis ac fragilis et cavernis quibusdam fistulisque ita penetrabilis ut ventorum tota ferme flatibus pateat; nec non et ignibus generandis nutriendisque soli ipsius naturalis materia, quippe intrinsecus stratum sulphure et bitumine traditur, quae res facit, ut, spiritu cum igne in terra interiore luctante frequenter e compluribus locis nunc flammas, nunc vaporem, nunc fumum eructet. Inde denique Aetnae montis per tot saecula durat incendium, et ubi acrior per sperimenta cavernarum ventus incubuit, harenarum moles egeruntur. Proximum Italiae promuntorium Regium dicitur, ideo quia Graece hoc nomine pronuntiatur. Nec mirum, si fabulosa est loci huius antiquitas, in quem res tot coiere mirae.

Si dice che la Sicilia una volta fosse attaccata all’Italia attraverso un angusto istmo e che fosse stata portata via da questa come da un corpo maggiore dall’impeto del mare che là è trascinato con tutta la forza delle onde. La stessa terra poi è sottile e fragile e attraverso certi canali e cavità è così accessibile da essere esposta quasi completamente al soffio dei venti; inoltre la natura dello stesso suolo sembra adatta a generare e ad alimentare fuochi. Infatti si dice che all’interno ci sia uno strato di zolfo e di bitume; questa cosa fa sì che, lottando il vento col fuoco sottoterra, spesso e in molti luoghi emetta ora fiamme, ora vapore, ora fumo. Perciò l’attività vulcanica del monte Etna esiste da tanti secoli. E, appena il vento più penetrante soffia attraverso gli spiragli delle caverne, grandi blocchi di sabbia vengono gettati fuori. Non c’è da meravigliarsi se è favolosa la fama di questo stretto sul quale si concentrano tante meraviglie.

“Il sacrificio del re Codro”

Inter Dores et Athenienses cum veteres essent inimicitiae, Dores bellum Atheniensibus paraverant; sed antea oraculum Delphicum de belli exitu rogaverant. Pythia sacerdos legatis haec verba responderat: “Vestra erit victoria, nisi hostium regem necaveritis”. Itaque duces militibus imperaverant, ne Atheniensium regem necarent. Codrus, Atheniensium rex, qui oraculi responsum cognoverat, statim optavit ut morte sua patriam liberaret et populo pararet victoriam. Codrus enim vestem mutavit, ligna in humeros sibi imposuit et, quasi servus esset, in hostium castra intravit. Ibi verbis contumeliosis militis iram excitavit et eum falce vulneravit, tum ille gladio Codrum acriter interfecit. Hoc modo Dores inviti regem hostium necaverunt, qui morte voluntaria rem publicam Atheniensium magno periculo liberavit.

Poiche tra i Dori e gli Ateniesi c’erano antiche inimicizie, i Dori avevano preparato la guerra contro gli Ateniesi; ma prima avevano interrogato l’oracolo di Delfi sull’esito della guerra. La sacerdotessa Pizia aveva risposto ai legati con queste parole: “La vittoria sarà vostra se non ucciderete il re dei nemici”. Così i comandanti avevano ordinato ai soldati di non uccidere il re degli Ateniesi. Codro, re degli Ateniesi, il quale aveva subito conosciuto il responso dell’oracolo scelse di liberare la patria con la sua morte e di preparare la vittoria per il popolo. Infatti Codro cambiò abito, si mise dei legni sulle spalle e, e come se fosse un servo, entrò nell’accampamento dei nemici. In quel luogo provocò l’ira di un soldato con parole offensive e lo ferì con una falce, allora quello uccise barbaramente Codro con la spada. In questo modo i non sconfitti Dori uccisero il re dei nemici, il quale liberò lo stato degli Ateniesi da un grande pericolo con la morte volontaria.

“Reazioni diverse alla morte di Alessandro”

Exstincto Alexandro in ipso aetatis flore, triste apud omnes tota Babylonia silentium fuit. Sed devictae gentes fidem nuntio non habuerunt, quod invictum regem immortalem esse credebant, recordantes quotiens praesenti morti ereptus esset, quam saepe, cum mortuus creditus esset, sospitem et victorem se suis obtulisset. Ut vero mortis eius fides adfuit, omnes barbarae gentes, paulo antea ab eo devictae, non ut hostem sed ut parentem luxerunt. Mater quoque Darei regis, quam a fastigio tantae maiestatis in servitutem redactam indulgentia victoris in eam diem vitae non paenituerat, mortem sibi ipsa conscivit, non quod hostem filio praeferret, sed quod pietatem filii in victore experta erat. Macedones contra non ut civem ac tantae maiestatis regem, sed ut hostem amissus gaudebant, et severitatem nimiam et assidua belli pericula exsecrantes.

Quando Alessandro spirò, nel fiore della sua giovinezza, in tutta Babilonia, e da tutti, fu osservato un religioso silenzio. D’altra parte, le popolazioni sconfitte non credettero alla notizia, perchè ritenevano il re – mai sconfitto – immortale, tenendo conto del gran numero di volte in cui egli fosse scampato a pericoli mortali, e di quante volte, creduto morto, si fosse mostrato ai suoi (soldati) sano e salvo e vincitore. Tuttavia, quando la notizia della sua morte fu confermata, tutti i popoli stranieri, precedentemente soggiogati da lui, lo piansero non come un nemico, ma alla stregua di un familiare. La stessa madre del re Dario – che da una posizione di grande prestigio si era ritrovata ad essere schiava, ma che fino a quel giorno non aveva potuto dirsi scontenta, vista la buona disposizione del vincitore – si diede la morte, non perchè prediligesse il nemico al figlio, ma perchè nel vincitore (ovvero in Alessandro) aveva ritrovato la stessa disposizione alla pietà del (proprio) figlio.
I Macedoni, invece, godevano d’aver perso Alessandro, ritenendolo non alla stregua di un concittadino o di un re tanto glorioso, bensì di un nemico, cui rimproveravano sia l’eccessiva severità, sia i continui pericoli bellici.

“Contrastanti reazioni alla notizia della morte di Alessandro Magno”

Extincto in ipso aetatis ac victoriarum flore Alexandro Magno, triste apud amnes tota Babylonia silentium fuit. Sed nec devictae gentes fidem nuntio habuerunt, quod ut invictum regem ita immortalem esse crediderant, recordantes quotiens presenti morte ereptus esset, quam seape pro amisso repente se non sospitem tantum suis, verum etiam victorem obtulisset. Ut vero mortis eius fides adfuit, omnes barbarae gentes paulo ante a beo divictae non ut hostem eum, sed ut parentem luxerunt. Mater quoque Darei regis, quam, amisso filio, a fastigio tantae maiestatis in captivitatem redactam indulgentia victoris in eam diem vitae non paenituerant, aidita morte Alexandri mortem sibi ipsa conscivit, non quod hostem filio praeferret, sed quod pietatem filii in eo, quem ut hostem timuerat, experta esset. Contra Macedones versa vice non ut civem ac tantae maiestatis regem, verum ut hostem amissum gaudebant, et severitatem nimiam et adsidula belli pericula execrantes.

Morto che fu Alessandro Magno proprio nel fiore degli anni e all’apice della vittoria, vi fu un triste silenzio presso ognuno in tutta Babilonia. Ma neppure le popolazioni battute diedero credito alla notizia, poiché essi avevano pensato che come il re era invincibile così fosse immortale, ricordando quante volte fosse stato strappato alla morte imminente, quanto spesso, anziché morto, non solo si fosse mostrato ai suoi improvvisamente sano e salvo, ma anche vincitore. Quando però la notizia della sua morte prese piede, tutte le genti barbare poco prima sconfitte da lui non lo piansero come un nemico, ma come un genitore. Pure la madre del re Dario, che, perso il figlio, dalla grandezza di tanta maestà ridotta in prigionia, fino a quel giorno non aveva avuto motivo di lamentarsi della vita per la generosità del vincitore, saputo della morte di Alessandro lei stessa si diede la morte, non per il fatto che preferisse il nemico al figlio, ma per il fatto che aveva sperimentato la devozione di un figlio in quell’uomo, che aveva temuto in quanto nemico. Al contrario i Macedoni, con atteggiamento opposto, non come concittadino e re di cotanta grandezza, ma in verità si rallegravano come se avessero perso un nemico, maledicendo sia l’eccessiva severità sia i continui pericoli della guerra.

Epitomae, XXXIII, 2 (“Eroismo del figlio di Catone il Censore”)

In ea pugna M. Cato, Catonis oratoris filius, dum inter confertissimos hostes insigniter dimicat, equo delapsus, pedestre proelium adgreditur. Nam cedentem manipulus hostium cum horrido clamore, veluti iacentem obtruncaturus, circumsteterat; at ille citius, corpore collecto, magnas strages edidit. Cum ad unum opprimendum undique hostes convolarent, dum procerum quondam petit, gladius ei e manu elapsus in mediam cohortem hostium decidit; ad quem reciperandum, umbone se protegens, inspectante utroque exercitu, inter hostium mucrones sese immersit, recollectoque gladio, multis vulneribus exceptis, ad suos cum clamore hostium revertitur. Huius audaciam ceteri imitati, victoriam peperere.

Durante la battaglia, M. Catone – figlio dell’oratore Catone – mentre combatte, mostrando straordinario valore, tra i nemici serrati (intorno a lui), caduto da cavallo, si trova ad affrontare lo scontro a mo’ di fante. Infatti, un manipolo di nemici – con terribile urlo (di guerra) – l’aveva circondato mentre egli cadeva, con l’intenzione di sgozzarlo mentre era a terra. Ma egli, rialzatosi molto in fretta, fece una strage. Mentre da ogni parte piombavano nemici per far fuori uno solo, egli si getta all’attacco di un (soldato) di notevole stazza; la spada, sfuggitagli di mano, cadde in mezzo alla schiera nemica; al fine di recuperarla, (Catone) – proteggendosi con lo scudo – sotto gli occhi di entrambi gli eserciti, si gettò tra le armi nemiche e, recuperata la spada, a costo di molteplici ferite, rientra tra i suoi (soldati), tra le grida di rabbia dei nemici. Gli altri (soldati), spinti ad emulare il suo coraggio, conquistarono la vittoria.

“La morte di Codro, leggendario re di Atene”

Antiquitis magnum bellum inter Athenienses et Lacedaemonios fuit. Lacedaemonii ob gravem annoman in Atticam venerunt, incolas pepulerunt et ad urbem castra posuerunt. Tum Athensienses legatos ad oraculum Delphicum miserunt et de eventu belli Apollinem consuluerunt. Pythia, Apollinis sacerdos, interrogata est a legatis et ita respondit: “Victores eritis, Athenienses, si hostes vestrum regem necabunt”. Quare, cum in bellum venerunt, Lacedaemonii ante omnia suis militibus custodiam regis praeceperunt. Tum Atheniensium rex Codrus erat: cum cognovit dei responsum hostiumque praecepta, regiam vestem mutavit et pannosus ac sarmenta collo gerens in hostium castra intravit. Ibi astu Lacedaemonium militem falce vulneravit et miles ira Codrum gladio necavit. Lacedaemonii, cum regis corpus agnoverunt, oraculi memores, sine proelio discesserunt. Atque ita Codrus rex virtute pro patriae salute mortem expetivit et Athenienses bello liberavit.

Anticamente vi fu una grande guerra tra Ateniesi e Spartani. Gli Spartani per la pesante annona, vennero in Attica, cacciarono gli abitanti e posero l’accampamento alla città. Allora gli Ateniesi mandarono ambasciatori per l’oracolo di Delfi e consultarono Apollo sull’esito della guerra. La Pizia, sacerdotessa di Apollo, fu interrogata dagli ambasciatori e così rispose: “Sarete vincitori, Ateniesi, se i nemici uccideranno il vostro re”. Per tale ragione, quando vennero in guerra, gli Spartani prima di ogni cosa raccomandarono ai loro soldati l’incolumità del re. Allora il re degli Ateniesi era Codro: quando seppe il responso del dio e i precetti dei nemici, cambiò la veste regia portando una veste pannosa e sacchi al collo, entrò nell’accampamento dei nemici. Qui intenzionalmente ferì con una falce un soldato degli Spartani e il soldato per l’ira uccise con la spada Codro. I Lacedemoni, quando riconobbero il corpo del re, memori dell’oracolo, se ne andarono senza scontro. E così il re Codro, per virtù andò incontro alla morte per la salvezza della patria e liberò dalla guerra gli Ateniesi.

“Gli spartani chiedono ad Atene un generale e in cambio ricevono… un poeta!”

Interea Messenii, cumn virtute non possent, per insidias expugnantur. Dein cum per annos octoginta gravia servitutis verbera, plerumque et vinc ula ceteraque mala toleravissent, post longam poenarum patientiam bellum restaurant. Lacedaemonii quoque conspiratius ad arma concurrunt, quod adversus servos dimicabant. Itaque cum hinc iniuria, inde indignitas animos acueret, Lacedaemonii de belli eventu oraculim Delphis consuluerunt et e responso ducem belli ab Atheniensibus pativerunt. Porro Athenienses, cum responsum cognovissent, in contemtum Spartanorum Tyrtaeum, paetam claudo pede, miserunt, qui tribus proeliis fusus est et eo usque desperationis Spartanos adduxit, ut servos suos ad supplemntum exercitus manumitterent eisque interfectorum matrimonia promitterent, ut non numero tantum amissorum civium, sed et dignitati succederent.

Intanto i Messeni, non potendo in virtù, vengono espugnati per insidie. Poi per ottanta anni avendo sopportato i gravi pesi della servitù e molti vincoli e altri mali, dopo una lunga sopportazione delle pene rinnovano la guerra. Gli Spartani anche accorrono alle armi, perchè combattono contro i servi. E così essendosi inasprita l’offesa e la dignità degli animi, un oracolo consultato a Delfi sull’esito della guerra comanda agli Spartani di chiedere agli Ateniesi un comandante della guerra. Subito gli Ateniesi, avendo conosciuto il responso, mandarono per esprimere il loro disgusto, un poeta zoppo, Tirteo, che, sconfitto in tre combattimenti, portò alla disperazione gli Spartani, al punto da liberare i loro i servi per supplemento dell’esercito e promisero a questi in matrimonio le donne vedove per morte dei mariti, affinchè succedessero non tanto al numero dei cittadini persi ma anche alla dignità.

Epitomae, XX, 4

Pythagoras, Sami natus, Aegyptum primo, mox Babyloniam ad perdiscendos siderum motus originemque mundi spectandam profectus summam scientiam consecutus erat. Inde regressus, Cretam et Lacedaemona ad cognoscendas Minois et Lycurgi inclitas ea tempestate leges contenderat. Quibus omnibus instructus, Crotonam venit populumque in luxuriam lapsum auctoritate sua ad usum frugalitatis revocavit.Docebat nunc matronas pudicitiam et obsequia in viros, nunc illos modestiam et litterarum studium.Inter haec velut genetricem virtutum frugalitatem omnibus ingerebat consecutusque disputationum adsiduitate erat ut matronae auratas vestes ceteraque dignitatis suae ornamenta velut instrumenta luxuriae deponerent eaque omnia delata in Iunonis aedem ipsi deae consecrarent, prae se ferentes vera ornamenta matronatum pudicitiam, non vestes esse.

Pitagora, nativo di Samo ““ recatosi in un primo momento in Egitto, quindi in Babilonia per approfondire la ricerca sui moti stellari e sull’origine dell’universo ““ aveva conseguito un sommo grado di conoscenza. Tornato di lì, s’era recato a Creta e a Sparta per studiare le costituzioni, famose a quel tempo, di Minosse e Licurgo. Imbevutosi di tutte queste dottrine, giunse a Crotone e, facendo valere la propria autorevolezza, richiamò il popolo ““ (nel frattempo) caduto in lussuria ““ all’esercizio della temperanza. (Pitagora) ora insegnava alle donne la morigeratezza e l’obbedienza nei confronti dei propri mariti, ora insegnava a questi ultimi la disciplina e l’amore per la cultura. Così facendo, cercava di instillare in tutti (i cittadini) la temperanza, (che è,) per così dire, la madre di (tutte le) virtù; e, a furia di discorrerne, era riuscito ad ottenere che le donne deponessero le vesti trapuntate d’oro e gli altri orpelli della propria bellezza ““ (che sono) per così dire i fregi della lussuria ““, portassero tutti questi (ornamenti) nel tempio di Giunone e li consacrassero alla stessa dea, mostrando che la vera prerogativa delle donne è la pudicizia, non già l’abbigliamento.

Epitomae, I, 1-2

Antiquissimis temporibus primi in Asia Assyrii regnum condidisse feruntur. Quorum rex Ninus, primum finitimis, tum aliis populis perdomitis, totius Orientis populos subegit. Postremoilli bellum cum Zoroastre, rege Bactrianorum, fuit, qui primus dicitur artes magicas invenisse siderumque motus diligentissime spectasse. Hoc occiso etiam ipse decessit, relicto impubere filio Ninya et uxore Semiramide. Semiramis, nec filio immaturo ausa tradere imperium, nec ipsa palam capessere, sexum dissimulans, brachia et crura velamentis, caput tiara tegit; et, ne novo habitu aliquid occultare videretur, eodem modo etiam populum vestiri iussit; sic Semiramis primis regni initiis Ninyas esse credita est. Magnas deinde res gessit, ita ut mulier etiam viros virtute superare videretur. Babyloniam condidit muroque urbem cocto latere circumdedit, Aethiopiam imperio adiecit et Indis bellum intulit. Ad postremum a filio interfecta est, cum duo et quadraginta annos post Ninum regnavisset.

Leggenda vuole che, in un passato molto remoto, gli Assiri fossero stati i primi a fondare un regno in Asia. Nino, il loro re, assoggettò i popoli dell’intero Oriente, dopo aver soggiogato, in un primo momento, i popoli confinanti, poi (tutti) gli altri. In ultimo, entrò in guerra contro Zoroastro, re dei Battriani, il quale ““ secondo la leggenda ““ inventò per primo le arti magiche e (per primo) osservò, con molta attenzione il moto delle stelle. Dopo averlo ucciso, anch’egli (Nino) morì, lasciando il figlioletto Ninia e la moglie Semiramide. Semiramide, non osando affidare il regno al figlio (che era) molto giovane, né (osando) assumer(lo) ella stessa in modo manifesto, (si) coprì la chioma con un turbante, nascondendo i propri attributi femminili, le braccia e le gambe con veli; e per non dar l’impressione di (voler) nascondere qualcosa con quel singolare vestiario, ordinò che anche il popolo si vestisse allo stesso modo. Così, ai primi tempi del regno, Semiramide passò per Ninia. In seguito, compì grandi imprese, tal che, benché donna, parve superare gli uomini in valore. Fondò Babilonia, e circondò la città con una solida muraglia, annetté al regno l’Etiopia e dichiarò guerra agl’Indi. Alla fine, dopo aver regnato 42 anni dalla morte di Nino, venne (a sua volta) uccisa dal figlio.

“La peste di Atene”

Postquam Archidamus, Lacedaemoniorum rex, in Atticam cum magno exercitu irruit, omnium civium multitudo in urbem confugit, atque eodem tempore pestilentia gravis Piraei portum occupavit et in cives ingruit, qui intra moenia Athenarum erant congregati. Brevi tempore in cives omnium ordinum morbus et contagio saevit. Nec divites magis quam pauperes, nec viros magis quam feminas pestis iactavit. In tota urbe luctus erat et et ingens fletus et gemitus. In animalia quoque incidit morbus: viae ac porticus, ubi homines et animalia iacebant, spectaculum praebebant horribilem.

Giacché Archidamo, re di Sparta, invase l’Attica con un grande esercito, l’intera popolazione (ateniese) si rifugiò nella città; contemporaneamente, una peste terribile si diffuse nel porto del Pireo e s’accani contro i cittadini che s’erano ammassati entro le mura di Atene. In breve tempo, la contagiosa malattia infierì contro i cittadini d’ogni ordine (sociale): la peste colpì tanto i ricchi quanto i poveri, tanto gli uomini quanto le donne. In tutta la città, c’era (aria di) lutto, e pianti a fiumi e lamenti. Il morbo colpì anche gli animali: le vie ed i portici, dove giacevano (i cadaveri di) uomini e (le carcasse degli) animali, offrivano uno spettacolo orribile.