De Rerum Natura, V, vv 1138-1162 (“La peste di Atene”)

Haec ratio quondam morborum et mortifer aestus
finibus in cecropis funestos reddidit agros,
vastavitque vias, exhausit civibus urbem.
nam penitus veniens Aegypti finibus ortus,
aëra permensus multum camposque natantis,
incubuit tandem populo Pandionis omni.
inde catervatim morbo mortique dabantur.
principio caput incensum fervore gerebant
et duplicis oculos suffusa luce rubentes.
sudabant etiam fauces intrinsecus atrae
sanguine et ulceribus vocis via saepta coibat
atque animi interpres manabat lingua cruore
debilitata malis, motu gravis, aspera tactu.
inde ubi per fauces pectus complerat et ipsum
morbida vis in cor maestum confluxerat aegris,
omnia tum vero vitai claustra lababant.
spiritus ore foras taetrum volvebat odorem,
rancida quo perolent proiecta cadavera ritu.
atque animi prorsum vires totius, omne
languebat corpus leti iam limine in ipso.
intolerabilibusque malis erat anxius angor
adsidue comes et gemitu commixta querella,
singultusque frequens noctem per saepe diemque
corripere adsidue nervos et membra coactans
dissoluebat eos, defessos ante, fatigans.

Tale causa di malattie e mortifera emanazione, un tempo, nel paese di Cecrope, rese funerei i campi e spopolò le strade, svuotò di cittadini la città. Venendo infatti dal fondo della terra d’Egitto, ove era nato, dopo aver percorso molta aria e distese fluttuanti, piombò alfine su tutto il popolo di Pandione. Allora, a torme eran preda della malattia e della morte. Dapprima avevano il capo in fiamme per il calore e soffusi di un luccichìo rossastro ambedue gli occhi. La gola, inoltre, nell’interno nera, sudava sangue, e occluso dalle ulcere il passaggio della voce si serrava, e l’interprete dell’animo, la lingua, stillava gocce di sangue, infiacchita dal male, pesante al movimento, scabra al tatto. Poi, quando attraverso la gola la forza della malattia aveva invaso il petto ed era affluita fin dentro il cuore afflitto dei malati, allora davvero vacillavano tutte le barriere della vita. Il fiato che usciva dalla bocca spargeva un puzzo ributtante, simile al fetore che mandano i putridi cadaveri abbandonati.

De Rerum Natura, V, vv. 1379-1411

At liquidas avium voces imitarier ore
ante fuit multo quam levia carmina cantu
concelebrare homines possent aurisque iuvare.
et zephyri cava per calamorum sibila primum
agrestis docuere cavas inflare cicutas.
inde minutatim dulcis didicere querellas,
tibia quas fundit digitis pulsata canentum,
avia per nemora ac silvas saltusque reperta,
per loca pastorum deserta atque otia dia.
[sic unum quicquid paulatim protrahit aetas
in medium ratioque in luminis eruit oras.]
haec animos ollis mulcebant atque iuvabant
cum satiate cibi; nam tum sunt omnia cordi.
saepe itaque inter se prostrati in gramine molli
propter aquae rivom sub ramis arboris altae.
non magnis opibus iucunde corpora habebant,
praesertim cum tempestas ridebat et anni
tempora pingebant viridantis floribus herbas.
tum ioca, tum sermo, tum dulces esse cachinni
consuerant; agrestis enim tum musa vigebat.
tum caput atque umeros plexis redimire coronis
floribus et foliis lascivia laeta movebat,
atque extra numerum procedere membra moventes
duriter et duro terram pede pellere matrem;
unde oriebantur risus dulcesque cachinni,
omnia quod nova tum magis haec et mira vigebant.
et vigilantibus hinc aderant solacia somno
ducere multimodis voces et flectere cantus
et supera calamos unco percurrere labro;
unde etiam vigiles nunc haec accepta tuentur.
et numerum servare genus didicere, neque hilo
maiore interea capiunt dulcedine fructum
quam silvestre genus capiebat terrigenarum.

Ma l’imitare con la bocca le limpide voci degli uccelli
fu molto prima che gli uomini fossero capaci di praticare
il canto di versi armoniosi e dilettare gli orecchi.
E i sibili dello zefiro per le cavità delle canne dapprima
insegnarono ai campagnoli a soffiare entro cave zampogne.
Poi a poco a poco appresero i dolci lamenti
che effonde il flauto toccato dalle dita dei sonatori,
scoperto fra remoti boschi e selve e pascoli,
nei solinghi luoghi dei pastori e negli ozi divini.
[Così gradatamente il tempo rivela ogni cosa,
e la ragione la innalza alle plaghe della luce.]
Questi suoni carezzavano loro gli animi e davano diletto,
quando erano sazi di cibo; allora infatti tutto è caro al cuore.
Spesso, dunque, familiarmente distesi sull’erba morbida,
presso un ruscello, sotto i rami di un albero alto,
con tenui mezzi davano giocondità ai corpi,
soprattutto quando il tempo arrideva e la stagione
dipingeva di fiori le erbe verdeggianti.
Allora solevano esserci gli scherzi, allora i conversari, allora i dolci
scoppi di gaiezza; allora infatti la musa agreste era in rigoglio;
allora una libera allegria li spingeva a ornare il capo
e le spalle con corone intrecciate di fiori e di foglie,
e ad avanzare in danza senza ritmo, duramente movendo
le membra, e a battere con duro piede la madre terra;
di lì nascevano risa e dolci scoppi di gaiezza, perché allora
tutte queste cose, più nuove e meravigliose, erano pregiate.
E se vegliavano, di qui avevano sollievo per il sonno perduto:
far passare la voce per molti toni e modulare il canto,
e correre col labbro incurvato su per le canne del flauto;
donde venne questa usanza che anche ora conservano le scolte,
e hanno imparato a osservare i tipi dei ritmi, ma intanto
non colgono affatto un frutto di dolcezza maggiore di quello
che coglieva la stirpe silvestre dei figli della terra.

De Rerum Natura, I, 1-49

Aeneadum genetrix, hominum divomque voluptas,
alma Venus, caeli subter labentia signa
quae mare navigerum, quae terras frugiferentis
concelebras, per te quoniam genus omne animantum
concipitur visitque exortum lumina solis:
te, dea, te fugiunt venti, te nubila caeli
adventumque tuum, tibi suavis daedala tellus
summittit flores, tibi rident aequora ponti
placatumque nitet diffuso lumine caelum.
nam simul ac species patefactast verna diei
et reserata viget genitabilis aura favoni,
aeriae primum volucris te, diva, tuumque
significant initum perculsae corda tua vi.
inde ferae pecudes persultant pabula laeta
et rapidos tranant amnis: ita capta lepore
te sequitur cupide quo quamque inducere pergis.
denique per maria ac montis fluviosque rapacis
frondiferasque domos avium camposque virentis
omnibus incutiens blandum per pectora amorem
efficis ut cupide generatim saecla propagent.
quae quoniam rerum naturam sola gubernas
nec sine te quicquam dias in luminis oras
exoritur neque fit laetum neque amabile quicquam,
te sociam studeo scribendis versibus esse,
quos ego de rerum natura pangere conor
Memmiadae nostro, quem tu, dea, tempore in omni
omnibus ornatum voluisti excellere rebus.
quo magis aeternum da dictis, diva, leporem.
effice ut interea fera moenera militiai
per maria ac terras omnis sopita quiescant;
nam tu sola potes tranquilla pace iuvare
mortalis, quoniam belli fera moenera Mavors
armipotens regit, in gremium qui saepe tuum se
reiicit aeterno devictus vulnere amoris,
atque ita suspiciens tereti cervice reposta
pascit amore avidos inhians in te, dea, visus
eque tuo pendet resupini spiritus ore.
hunc tu, diva, tuo recubantem corpore sancto
circum fusa super, suavis ex ore loquellas
funde petens placidam Romanis, incluta, pacem;
nam neque nos agere hoc patriai tempore iniquo
possumus aequo animo nec Memmi clara propago
talibus in rebus communi desse saluti.
omnis enim per se divum natura necessest
immortali aevo summa cum pace fruatur
semota ab nostris rebus seiunctaque longe;
nam privata dolore omni, privata periclis,
ipsa suis pollens opibus, nihil indiga nostri,
nec bene promeritis capitur nec tangitur ira.

Progenitrice degli Eneadi, delizia degli uomini e degli dei,
madre Venere, che sotto lo scorrere degli astri celesti
inondi di vita il mare navigabile e le terre fruttifere,
grazie a te si perpetua ogni specie d’esseri animati
e il neonato è condotto a vedere la luce del sole:
dinanzi a te, dea, e alla tua presenza fuggono i venti
e i nembi del cielo, al tuo passaggio la laboriosa terra
fa sorgere i fiori profumati, ti sorride la distesa del mare
e risplende di luce diffusa il cielo rasserenato.
Non appena si svela la bellezza dei giorni primaverili
e prende apertamente vigore il soffio vitale dello zefiro,
per primi gli uccelli dell’aria annunciano te, diva,
e il tuo avvento, colpiti al cuore dalla tua potenza.
E poi gli animali selvatici saltellano sui pascoli ridenti
e guadano fiumi impetuosi: così, presi dal diletto,
ti seguono bramosamente dovunque continui a guidarli.
Alfine, per mari e per monti, e per fiumi voraci,
e sui frondosi nidi degli uccelli, e nei campi rigogliosi,
instillando a ciascuno nel petto il delicato amore
fai che per ogni razza le generazioni si riproducano bramose.
Poiché tu sola governi la natura d’ogni cosa
e nulla senza te può innalzarsi alle divine sorgenti
di luce, come nulla ci sarà gradito né amabile,
desidero che tu mi sia compagna nel comporre i versi
che io mi affanno a plasmare sulla natura del mondo
in onore del caro Memmiade, che tu, dea, hai voluto
che, provvisto di ogni virtù, eccellesse in ogni frangente.
Perciò tanto più, diva, concedi alle mie parole eterna bellezza.
Fa’ che nel frattempo le crudeli opere di guerra
tutte assopite per mare e per terra si plachino.
Ché tu sola puoi rinfrancare i mortali con pace serena,
dal momento che Marte, il signore dell’armi, che pur guida
le forze spietate di guerra, così spesso sul tuo grembo
s’abbandona, sconfitto dall’eterna ferita d’amore,
e con lo sguardo all’insù, rovesciato all’indietro il bel collo,
ciba d’amore i suoi occhi avidi, anelante d’amore per te, dea,
e, così supino, il suo spirito pende dalle tue labbra.
Tu, divina, abbracciando dall’alto col tuo sacro corpo
il suo che si trova riverso, effondi di bocca soavi parole
chiedendo, illustrissima, per i Romani una pace tranquilla.
Ché non possiamo, in un momento tanto avverso per la patria,
attendere con animo sereno a questi versi, né la gloriosa stirpe
di Memmio può in tal frangente distrarsi dal bene comune.
Ché di per sé ogni natura divina ha bisogno
di godere vita immortale nell’eccelsa quiete,
separata e parecchio distante dalle umane vicende.
Priva di qualsiasi dolore, lontana dai pericoli, infatti,
potente per le sue facoltà, per nulla di noi bisognosa,
non è attirata dai nostri meriti né sfiorata dalla nostra ira.