“Patrizi e plebei nell’antica repubblica”

In duas partes ego civitatem nostram divisam esse scio, ut maiores nostri tradiderunt, in patres et plebem. Antea in patribus summa auctoritas erat, vis multo maxima in plebe, itaque saepius in civitate secessio fuit semperque nobilitatis opes deminutae sunt et ius populi amplificatum est. Sed plebs libere agitabat, quia nullius potentia super leges erat, neque divitiis aut superbia sed bona fama factisque fortibus nobilis ignobilem superabat, cives humillimi omnium, in agris aut in militia, nullius honestae rei egebant.

So che la nostra città, come tramandarono i nostri antenati, è divisa in due parti: in patriziato e plebe. In passato nei patrizi c’era grandissima autorità, una forza molto più grande nella plebe. Perciò molto spesso in città ci fu una secessione e sempre le ricchezze della nobiltà furono ridotte e il diritto del popolo amplificato. Ma la plebe agiva liberamente, poiché il potere di nessuno era al di sopra delle leggi, e il nobile non superava l’umile per ricchezza o superbia, ma per buona fama e imprese meritorie, i cittadini più umili di tutti, nei campi o nell’esercito, non mancavano di un’esistenza onesta.

De Coniuratione Catilinae, 37

Neque solum illis aliena menserat, qui conscii coniurationis fuerant, sed omnino cuncta plebes nouarum rerum studio Catilinae incepta probabat. Id adeo more suo videbatur facere. Nam semper in civitate, quibus opes nullae sunt, bonis invident, malos extollunt, vetera odere, noua exoptant, odio suarum rerum mutari omnia student, turba atque seditionibus sine cura aluntur, quoniam egestas facile habetur sine damno. Sed urbana plebes, ea vero praeceps erat de multis causis. Primum omnium qui ubique probro atque petulantia maxime praestabant, item alii per dedecora patrimoniis amissis, postremo omnes quos flagitium aut facinus domo expulerat, ii Romam sicut in sentinam confluxerant. Deinde multi memores Sullanae victoriae, quod ex gregariis militibus alios senatores videbant, alios ita divites, ut regio victu atque cultu aetatem agerent, sibi quisque, si in armis foret, ex victoria talia sperabat. praeterea iuventus, quae in agris manuum mercede inopiam toleraverat, priuatis atque publicis largitionibus excita urbanum otium ingrato labori praetulerat. Eos atque alios omnis malum publicum alebat. Quo minus mirandum est homines egentis, malis moribus, maxima spe rei publicae iuxta ac sibi consuluisse. praeterea, quorum victoria Sullae parentes proscripti, bona erepta, ius libertatis imminutum erat, haud sane alio animo belli eventum expectabant. Ad hoc quicumque aliarum atque senatus partium erant, conturbari rem publicam quam minus valere ipsi malebant. Id adeo malum multos post annos in civitatem reverterat.

E non solo quelli che erano complici della congiura avevano la mente stravolta, ma tutta intera la plebe, per cupidigia di nuove cose, approvava le imprese di Catilina. Evidentemente sembrava fare ciò secondo la sua consuetudine. Infatti,sempre nello Stato, coloro che non hanno ricchezze invidiano sempre i cittadini dabbene, lodano i malvagi, esecrano il vecchio, bramano il nuovo, per odio delle loro cose si adoperano che tutte le cose siano cambiate, vivono senza cura di torbidi e di sommosse dal momento che la miseria è considerata facile da ogni danno. Ma la plebe romana aveva davvero molte ragioni di gettarsi nel tumulto. Prima di tutto, coloro tra questi dovunque emergevano per turpitudine e sfrenatezza, poi gli altri per cose vergognose avevano dissipato il patrimonio, infine tutti coloro che un’ignominia o un delitto aveva scacciato dalla patria, tutti costoro erano confluiti a Roma come in una sentina. Poi, molti, memori della vittoria di Silla, poiché vedevano da gregari soldati altri senatori, altri così ricchi da trascorrere il tempo in un lusso regale, ognuno, se prendeva le armi, sperava dalla vittoria tali cose. Inoltre la gioventù che nei campi con il lavoro manuale sopportava la miseria, stimolata dalle largizioni pubbliche e private, aveva preferito l’ozio urbano a un lavoro ingrato. Essi e tutti gli altri vivevano del pubblico danno. Non c’è dunque da meravigliarsi se uomini bisognosi, di cattivi abitudini,di sconfinata ambizione, facevano buon mercato dello Stato come di se stessi. Inoltre, coloro dei quali la vittoria di Silla aveva proscritto i parenti, strappato i beni, diminuito il diritto alla libertà, non attendevano certo con altro animo il successo della guerra. Poi, chiunque fosse di un partito diverso da quello del Senato, preferiva che fosse sconvolto lo Stato piuttosto che diminuita la propria influenza. È così che dopo molti anni il male aveva di nuovo invaso la città.

“Cattura di Giugurta”

Cum locus delectus et tempus constitutum esset ad colloquium, rex Bocchus Sullam modo, modo Iugurthae legatum appellabat, benigne habebat, idem eis promittebat. Illi pariter laeti ac spei bonae pleni erant. Sed nocte proxima ante diem colloquio decretum, Maurus amicos adhibuit ac statim removit secum ipse multa volvens, vultu et oculis et animo varius. Postremo Sullam arcessi iubet et ex illius sententia Numidae insidias tendit. Deinde, ubi dies advenit et ei nuntiatum est Iugurtham haud procul esse, cum paucis amicis et quatore nostro quasi honoris causa obvius procedit in tumulum, ita ut omnes illos conspiciant. Ad eundem tumulum Numida cum nonnulis necessariis suis, inermis, accedit ac statim, signo dato, eum simul invadunt milites. Ceteri obtruncantur, Iugurtha vinctus Sullae traditur et ab eo ad Marium deducitur.

Scelto il luogo e essendo stato deciso il tempo per il colloquio, il re Bocco chiamava sia Silla che il luogotenente di Giugurta, li trattava benevolmente e allo stesso modo ad essi faceva promesse. Quelli erano ugualmente lieti e pieni di buona speranza. Ma nella notte successiva prima del giorno deciso per il colloquio, Mauro convocò gli amici e subito dopo li allontanò da sè, meditando a lungo fra sé, pensando molte cose e cambiato nell’espressione del volto e degli occhi dell’animo. Alla fine, tuttavia, ordina che sia chiamato Silla e secondo il suo consiglio tende un agguato a Numida. Infine, quando viene il giorno e gli fu annunziato che Giugurta non era lontano, con pochi amici e col nostro questore gli va incontro su un’altura come per rendergli onore in modo che tutti quelli vedano. Su quell’altura Numida, con un gran numero di suoi amici, senz’armi si reca, e d’improvviso, dato il segnale, i soldati lo assalgono da tutte le parti contemporaneamente. Tutti gli altri sono trucidati; Giugurta, sconfitto, viene consegnato a Silla e da lui è condotto a Mario.

De Coniuratione Catilinae, 14 (“L’ambiente cittadino in cui viveva Catilina”)

In tanta tamque corrupta civitate Catilina, id quod factu facillimum erat, omnium flagitiorum atque facinorum circum se tamquam stipatorum cateruas habebat. Nam quicumque impudicus adulter ganeo manu ventre pene bona patria laceraverat, quique alienum aes grande conflaverat, quo flagitium aut facinus redimeret, praeterea omnes undique parricidae sacrilegi conuicti iudiciis aut pro factis iudicium timentes, ad hoc quos manus atque lingua periurio aut sanguine civili alebat, postremo omnes quos flagitium egestas conscius animus exagitabat, ii Catilinae proximi familiaresque erant. Quod si quis etiam a culpa vacuos in amicitiam eius inciderat, cottidiano usu atque illecebris facile par similisque ceteris efficiebatur. Sed maxime adulescentium familiaritates appetebat: eorum animi molles etiam et [aetate] fluxi dolis haud difficulter capiebantur. Nam ut cuiusque studium ex aetate flagrabat, aliis scorta praebere, aliis canes atque equos mercare; postremo neque sumptui neque modestiae suae parcere, dum illos obnoxios fidosque sibi faceret. Scio fuisse nonnullos, qui ita existimarent iuventutem, quae domum Catilinae frequentabat, parum honeste pudicitiam habuisse; sed ex aliis rebus magis, quam quod cuiquam id compertum foret, haec fama valebat.

In una città così grande e corrotta Catilina, cosa che era facilissima a farsi, aveva attorno a se bande di depravati e di criminali come guardie del corpo. Infatti qualsiasi impudico, adultero, crapulone che aveva scialacquato il patrimonio ereditato con il gioco, con i banchetti e col sesso, e quello che aveva contratto un grande debito, per riscattare una vergogna, un delitto, e inoltre da ogni parte tutti i parricidi, i sacrileghi, i pregiudicati e quelli che temevano un processo per le (loro) azioni, inoltre coloro ai quali davano sostentamento la mano e la lingua con lo spergiuro e con il sangue civile, e infine tutti quelli che il delitto, la povertà, il rimorso tormentava, (tutti) questi erano amici intimi di Catilina. E se qualcuno era caduto nella sua amicizia anche vuoto di colpa, con la frequentazione quotidiana e con le lusinghe facilmente era reso del tutto simile agli altri. Ma desiderava moltissimo la compagnia dei giovani: i loro animi molli e malleabili per l’età erano presi senza difficoltà dalle frodi. Infatti a seconda di come il desiderio di entrambi ardeva a causa dell’età, ad alcuni procurava donne, ad altri comprava cani e cavalli; infine non badava né a spese né alla sua reputazione, purché rendesse quelli obbedienti e fidati verso di lui. So che c’è stato qualcuno, che così pensava, (e cioè) che la gioventù, che frequentava la casa di Catilina, fosse stata sfacciatamente impudica, ma questa voce correva per altri motivi, più perché qualcuno l’avesse accertato.

De Coniuratione Catilinae, 54 (“Cesare e Catone”)

Igitur iis genus aetas eloquentia prope aequalia fuere, magnitudo animi par, item gloria, sed alia alii. Caesar beneficiis ac munificentia magnus habebatur, integritate vitae Cato. Ille mansuetudine et misericordia clarus factus, huic seueritas dignitatem addiderat. Caesar dando subleuando ignoscendo, Cato nihil largiendo gloriam adeptus est. In altero miseris perfugium erat, in altero malis pernicies. Illius facilitas, huius constantia laudabatur. Postremo Caesar in animum induxerat laborare, vigilare; negotiis amicorum intentus sua neglegere, nihil denegare quod dono dignum esset; sibi magnum imperium, exercitum, bellum novum exoptabat, ubi virtus enitescere posset. At Catoni studium modestiae, decoris, sed maxime seueritatis erat; non divitiis cum divite neque factione cum factioso, sed cum strenuo virtute, cum modesto pudore, cum innocente abstinentia certabat; esse quam videri bonus malebat: ita, quo minus petebat gloriam, eo magis illum assequebatur.

Dunque, essi, furono pressoché uguali per età, nascita e eloquenza, pari per grandezza d’animo, parimenti per fama ma era diversa per ciascuno dei due. Cesare era considerato grande per i suoi privilegi e la sua generosità, Catone per la sua integrità di vita. Quello fu reso famoso dalla mitezza e generosità, a questo aveva aggiunto dignità il rigore morale. Cesare conseguì la gloria con la prodigalità, con il soccorso prestato ad altri, con il perdono, Catone non elargendo niente. Nell’uno c’era rifugio per i miseri, nell’altro la rovina per i malvagi. Di quello era lodata la condiscendenza, dell’altro la tenacia. Insomma, Cesare si era proposto di lavorare, vegliare e di trascurare i propri interessi per gli affari degli amici, non rifiutava niente che fosse adatto per essere dato in dono. Per sé desiderava un grande potere, un esercito, una nuova guerra in cui il suo valore avesse la possibilità di risplendere. Catone, invece, aveva amore per la modestia, la dignità e la severità. Non lottava col ricco per la ricchezza, né col fazioso per gli intrighi; ma con il valoroso per la virtù, con il modesto per il pudore, con l’onesto per l’integrità. Preferiva essere retto più che sembrarlo, così che egli quanto meno inseguiva la fama, tanto più se la guadagnava.

“La congiura di Catilina”

Coniuraverunt contra rem publicam mali et corrupti cives,qui ducem habebant Catilinam. Is, cupiditate imperii incensus. In suam amicitiam familiaritatemque traxerat eos qui, in desperationem adducti, res novas optabant, aut eos qui,aere alieno oppressi, res familiares effuderant, praeterea imnes homines perditos, facinorosos, infames, audaces. Inter coniuratos erant senatores et equites, inm primis P. Lentulus Sura, qui post consulatum ob mores corruptos a senatu amotus erat, multi Sillani milites, qui, olim apud Faesulas in colonias deducti, divitias consumpserant et spe novarum rapinarum adducti bellum optabant. Catilina, omnibus rebus instructis et insidiis consulibus paratis, animos eorum omnium incitavit: “Iam rem publicam occaputuri sumus: cum bonos et divites cives trucidaveimus, mihi dominatio,vobis magistratus, provinciae, dignitates erunt.

Cittadini malvagi e corrotti, che avevano per capo Catilina, congiurarono contro la repubblica. Questo, era acceso dal desiderio di comando. Aveva spinto nella sua amicizia e familiarietà tutti quelli che spinti dalla disperazione, desideravano nuove cose e quelli che, oppressi dai debiti, avevano dilapidato i beni di famiglia, inoltre tutti gli uomini perduti, facinorosi, infami e audaci. Tra i congiurati c’erano senatori e cavalieri, in primis Lentulo Sira, che dopo il consolato per i costumi corrotti fu allontanato dal senato, molti soldati sillani, che, una volta condotti nelle colonie presso Fiesole, avevano consumato le (loro) ricchezze e spinti dalla speranza di nuove rapine desideravano la guerra. Catilina preparate tutte le cose e le insidie ai consoli, incitò gli animi di quei cittadini: già stiamo per occupare lo stato, quando uccideremo i cittadini buoni e ricchi, a me sarà il dominio a voi le magistrature, le province e gli onori.

Bellum Iugurthinum, 63 (“Ritratto di Mario”)

Per idem tempus Vticae forte C. Mario per hostias dis supplicanti magna atque mirabilia portendi haruspex dixerat: proinde quae animo agitabat, fretus dis ageret, fortunam quam saepissime experiretur; concta prospere eventura. At illum iam antea consulatus ingens cupido exagitabat, ad quem capiendum praeter uetustatem familiae alia omnia abunde erant: industria, probitas, militiae magna scientia, animus belli ingens domi modicus, libidinis et divitiarum victor, tantummodo gloriae auidus. Sed is natus et omnem pueritiam Arpini altus, ubi primum aetas militiae patiens fuit, stipendiis faciendis, non Graeca facundia neque urbanis munditiis sese exercuit: ita inter artis bonas integrum ingenium brevi adoleuit. Ergo, ubi primum tribunatum militarem a populo petit, plerisque faciem eius ignorantibus facile factis notus per omnis tribus declaratur. Deinde ab eo magistratu alium, post alium sibi peperit, semperque in potestatibus eo modo agitabat, ut ampliore quam gerebat dignus haberetur. Tamen is ad id locorum talis vir–nam postea ambitione praeceps datus est–consulatum appetere non audebat. Etiam tum alios magistratus plebs, consulatum nobilitas inter se per manus tradebat. Nouos nemo tam clarus neque tam egregiis factis erat, quin indignus illo honore et is quasi pollutus haberetur.

In quello stesso periodo, il caso volle che Gaio Mario, trovandosi a Utica, offrisse un sacrificio agli dèi; l’aruspice gli comunicò che si annunziava per lui un grande e meraviglioso destino: confidasse dunque nell’aiuto degli dèi per tutte le imprese che aveva in animo e tentasse la fortuna molte volte; tutto gli sarebbe riuscito nel migliore dei modi. Veramente già da tempo Mario era divorato dall’ambizione di diventare console e, tranne la nobiltà della stirpe, possedeva tutte le doti necessarie a ricoprire tale carica: energia, rettitudine, grande esperienza militare e un animo indomito in guerra, equilibrato in pace, capace di dominare le tentazioni dei sensi e della ricchezza, avido soltanto di gloria. Nato ad Arpino, dove aveva trascorso tutta la sua fanciullezza, appena fu in età di portare le armi, intraprese la carriera militare, noncurante di eloquenza greca e di raffinatezze cittadine: così, fra quelle sane occupazioni il suo carattere integro maturò precocemente. Perciò quando presentò al popolo la propria candidatura al tribunato militare, benché ai più fosse ignoto il suo aspetto, la sua sola reputazione fu sufficiente a procurargli il voto di tutte le tribù. Dopo quella egli ottenne una carica dietro l’altra e ogni volta esercitò la magistratura in modo tale, da essere considerato meritevole di rivestirne un’altra più importante. Eppure un uomo così eccezionale fino a quel momento – più tardi fu rovinato dall’ambizione – non osava aspirare al consolato: era ancora il tempo in cui la plebe poteva ottenere le altre cariche, ma il consolato passava dalla mano di un nobile a quella di un altro. Non c’era “uomo nuovo”, per quanto illustre e di alti meriti, che non venisse considerato indegno di quell’onore e quasi contaminato da qualche infamia.

Bellum Iugurthinum, 6 (“Il ritratto di Giugurta”)

Qui ubi primum adolevit, pollens viribus, decora facie, sed multo maxime ingenio validus, non se luxu neque inertiae corrumpendum dedit, sed, uti mos gentis illius est, equitare, iaculari; cursu cum aequalibus certare et, cum omnis gloria anteiret, omnibus tamen carus esse; ad hoc pleraque tempora in venando agere, leonem atque alias feras primus aut in primis ferire: plurimum facere, [et] minimum ipse de se loqui. Quibus rebus Micipsa tametsi initio laetus fuerat, existimans virtutem Iugurthae regno suo gloriae fore, tamen, postquam hominem adulescentem exacta sua aetate et parvis liberis magis magisque crescere intellegit, vehementer eo negotio permotus multa cum animo suo voluebat. Terrebat eum natura mortalium auida imperi et praeceps ad explendam animi cupidinem, praeterea opportunitas suae liberorumque aetatis, quae etiam mediocris viros spe praedae transversos agit, ad hoc studia Numidarum in Iugurtham accensa, ex quibus, si talem virum dolis interfecisset, ne qua seditio aut bellum oriretur, anxius erat.

Appena che Giugurta diventò adulto, forte, di bello aspetto, ma assai più valido nell’intelligenza, non si lasciò corrompere né dal lusso né dall’indolenza, bensì, secondo l’usanza di quel popolo, cavalcò e lanciò dardi; gareggiò nella corsa con i coetanei e, sebbene si dimostrava superiore a tutti ricevendo riconoscimenti di gloria, stava tuttavia simpatico a tutti; oltre a questo la maggior parte del tempo cacciava, per primo o da principio feriva un leone o altre bestie feroci: più faceva e meno parlava di se stesso. Sebbene Micipsa all’inizio era stato contento di questa qualità, credendo che il valore di Giugurta avrebbe portato gloria al suo regno, tuttavia, dopo che comprese che quel giovane cresceva sempre più in potenza, visto che la sua vita stava terminando e i suoi figli erano piccoli, fortemente tormentato da quella preoccupazione, nel suo animo oscillava fra diverse soluzioni. Lo spaventava la natura degli uomini avida del potere e pronta a lanciarsi a capofitto per appagare la bramosia dell’animo, inoltre l’opportunità della sua età e di quella dei suoi figli, la quale con la speranza di un profitto mette di traverso anche persone moderate, e oltre a questo le simpatie dei Numidi raccolte da Giugurta: da questi, se avesse ucciso con l’inganno un tale uomo, temeva che sarebbe nata qualche sommossa o guerra.

De Coniuratione Catilinae, 58 (“Catilina sprona i suoi soldati”)

“Compertum ego habeo, milites, verba virtutem non addere, neque ex ignavo strenuum neque fortem ex timido exercitum oratione imperatoris fieri. Quanta cuiusque animo audacia natura aut moribus inest, tanta in bello patere solet. Quem neque gloria neque pericula excitant, nequiquam hortere; timor animi auribus officit. Sed ego vos, quo pauca monerem, advocavi, simul uti causam mei consili aperirem. Scitis equidem, milites, socordia atque ignavia Lentuli quantam ipsi nobisque cladem attulerit, quoque modo, dum ex urbe praesidia opperior, in Galliam proficisci nequiverim. Nunc vero quo loco res nostrae sint, iuxta mecum omnes intellegitis. Exercitus hostium duo, unus ab urbe, alter a Gallia obstant; diutius in his locis esse, si maxume animus ferat, frumenti atque aliarum rerum egestas prohibet; quocumque ire placet, ferro iter aperiundum est. Quapropter vos moneo, uti forti atque parato animo sitis, et, cum proelium inibitis, memineritis vos divitias, decus, gloriam, praeterea libertatem atque patriam in dextris vostris portare. Si vincimus, omnia nobis tuta erunt, commeatus abunde, municipia atque coloniae patebunt: sin metu cesserimus, eadem illa advorsa fient; neque locus neque amicus quisquam teget, quem arma non texerint. Praeterea, milites, non eadem nobis et illis necessitudo impendet: nos pro patria, pro libertate, pro vita certamus; illis supervacaneum est pro potentia paucorum pugnare. Quo audacius aggrediamini, memores pristinae virtutis. Licuit vobis cum summa turpitudine in exsilio aetatem agere; potuistis nonnulli Romae, amissis bonis, alienas opes exspectare; quia illa foeda atque intoleranda viris videbantur, haec sequi decrevistis. Si haec relinquere voltis, audacia opus est; nemo nisi victor pace bellum mutavit. Nam in fuga salutem sperare, cum arma, quibus corpus tegitur, ab hostibus avorteris, ea vero dementia est. Semper in proelio iis maxumum est periculum, qui maxume timent; audacia pro muro habetur. Cum vos considero, milites, et cum facta vostra aestumo, magna me spes victoriae tenet. Animus, aetas, virtus vostra me hortantur, praeterea necessitudo, quae etiam timidos fortis facit. Nam multitudo hostium ne circumvenire queat, prohibent angustiae loci. Quod si virtuti vostrae fortuna inviderit, cavete inulti animam amittatis, neu capti potius sicuti pecora trucidemini, quam virorum more pugnantes cruentam atque luctuosam victoriam hostibus relinquatis”.

“So bene, soldati, che le parole non donano il coraggio, e che nessun esercito da ignavo diventa strenuo, né forte da timoroso per un discorso del comandante. Quanta audacia è nell’animo di ciascuno per natura o per indole, tanta suole rivelarsi in guerra. Si esorterebbe invano chi non è infiammato né dalla gloria né dai rischi; la paura gli occlude le orecchie. Ma io vi ho chiamati per darvi brevi consigli e insieme per svelarvi la ragione della mia scelta. Sapete certamente, soldati, quanta rovina ci abbia arrecato la mollezza e la viltà di Lentulo, e in qual modo l’attesa dei rinforzi dalla città m’ha impedito di marciare verso la Gallia. E ora in quale situazione ci troviamo lo comprendete tutti come me. Ci si oppongono due eserciti nemici, uno dalla città, uno dalla Gallia. Rimanere più a lungo in questi luoghi, anche se l’animo lo sopportasse, ci è impedito dalla mancanza di frumento e di altro. Dovunque vogliamo andare dobbiamo aprirci la via con il ferro. Perciò vi esorto ad essere di animo strenuo e pronto a tutto, e quando entrerete in battaglia, ricordate che avete in pugno la ricchezza, l’onore, la gloria e inoltre la libertà e la patria. Se vinciamo, tutto sarà sicuro per noi: avremo viveri in abbondanza, i municipi e le colonie ci apriranno le porte. Ma se cederemo alla paura, tutte quelle stesse cose ci si faranno avverse, né vi sarà luogo o amico che protegga chi non sarà stato difeso dalle sue armi. Inoltre, soldati noi e loro non siamo sovrastati dalla stessa necessità; noi lottiamo per la patria, per la libertà, per la vita, per essi è un sovrappiù il combattere per la potenza di pochi. Perciò con maggiore slancio assaliteli, memori dell’antico valore. Avreste potuto trascorrere in esilio la vita con sommo disdoro; alcuni, persi i loro beni avrebbero potuto sperare di vivere a Roma della liberalità altrui. Ma poiché ciò sembrava turpe e intollerabile per dei veri uomini, sceglieste di affrontare questo pericolo. Se volete uscirne, c’è bisogno di audacia, nessuno, se non vincitore, poté mutare la guerra nella pace. Infatti, sperare salvezza nella fuga, quando hai sviato dal nemico le armi che ti proteggono le membra, è pura follia. Sempre, in battaglia, è più grave il pericolo per coloro che hanno il maggior timore; l’audacia è un baluardo. “Quando vi guardo, o soldati, e rivolgo nel mio animo le vostre imprese passate, mi prende una grande speranza di vittoria. L’animo, l’età, il valore vostri mi infondono fiducia, e pure la necessità che rende forti anche i timorosi. Per di più l’angustia del luogo impedisce alla moltitudine dei nemici di circondarci. Che se la fortuna si rifiuterà di assecondare il vostro valore, badate di non perdere la vita invendicati, e piuttosto di lasciarvi prendere e trucidare come bestie, combattendo da uomini lasciate al nemico una vittoria insanguinata e luttuosa”.

Epistulae ad Caesarem, I, 5 (“La decadenza morale e politica della plebe romana”)

In duas partes ego civitatem divisam arbitror, sicut a maioribus accepi:in patres et in plebem. Antea in partibus summa auctoritas erat, vis multo maiore in plebe. Itaque saepius in civitate secessio fuit semperque nobilitatis opes deminutae sunt et ius populi amplificatum. Sed plebs libere agitabat quia nullius potentia super leges erat, neque divitiis aut superbia, sed bona fama factisque fortibus, nobilis ignobilem anteibat: humillimus quisque in arvis aut in militia, nullius honestae rei egens, satis sibi et satis patriae habebat. Sed, ubi eos paulatim expulsos agris inertia atque inopia incertas domos habere subegit, coepere alienas opes petere, libertatem suam et rem publicam venalem habere. Ita paulatim populos, qui dominus erat et cinctis gentibus imperitabat, dilapsus est et pro communi imperio privatim sibi quisque servitutem peperit. Haec igitur multitudo, malis moribus imbuta, nullo modo inter se congruens, parum mihi idonea videtur ad capessendam rem pubblicam.

Ritengo che la popolazione (risulti effettivamente) divisa in 2 classi, così come ho appreso dalla tradizione: (ovvero) in patriziato e plebe. In un primo momento, il potere politico assoluto era detenuto dal patriziato, quand’era invece la plebe ad avere un’incidenza molto maggiore. E così, (la plebe) sempre più spesso adottò (l’arma politica della) secessione, tale che – ad una diminuzione delle prerogative della nobiltà – corrispose un’amplificazione del diritto del popolo.
Tuttavia, la plebe poteva agire senza impedimenti perché non c’era alcuna autorità, la cui forza fosse al di sopra delle leggi, e l’aristocratico superava il plebeo non in ragione delle ricchezze o della prepotenza, ma in quanto a gloria ed imprese meritorie: chiunque – anche il più umile – (lavorasse) nei campi o (militasse) nell’esercito – s’accontentava di un’esistenza e di una condizione sociale, per quanto frugale, comunque onesta. Tuttavia, quando l’inerzia e l’indigenza allontanarono, a poco a poco, i plebei dai campi e li costrinsero ad un’esistenza precaria, cominciarono a mettere gli occhi sulle ricchezze altrui (per ottenere le quali) misero in vendita la propria libertà e la “cosa pubblica”. In questo modo, a poco a poco, il popolo – che aveva il comando assoluto su tutte (le altre) genti – si sfaldò e, invece di (concorrere al) comando comune, ognuno si procurò – per sé e per conto proprio – la servitù. Insomma, questa moltitudine – estremamente eterogenea e pregna di cattivi costumi – mi sembra davvero poco adatta alla vita politica.

Bellum Catilinae, 1

Omnis homines, qui sese student praestare ceteris animalibus, summa ope niti decet, ne vitam silentio transeant veluti pecora, quae natura prona atque ventri oboedientia finxit. Sed nostra omnis vis in animo et corpore sita est: animi imperio, corporis servitio magis utimur; alterum nobis cum dis, alterum cum beluis commune est. Quo mihi rectius videtur ingeni quam virium opibus gloriam quaerere et, quoniam vita ipsa, qua fruimur, brevis est, memoriam nostri quam maxume longam efficere. Nam divitiarum et formae gloria fluxa atque fragilis est, virtus clara aeternaque habetur. Sed diu magnum inter mortalis certamen fuit, vine corporis an virtute animi res militaris magis procederet. Nam et, prius quam incipias, consulto et, ubi consulue ris, mature facto opus est. Ita utrumque per se indigens alterum alterius auxilio eget.

Tutti gli uomini che si studiano di superare ogni altro vivente, con somma energia conviene si adoprino per non trascorrere la vita nel silenzio, come le bestie che la natura fece chine in terra e solo ubbidienti agli impulsi del ventre. Ora, tutta la nostra forza risiede nell’animo e nel corpo; dell’animo usiamo il potere, del corpo l’ubbidienza; quello abbiamo in comune con gli Dèi, questo con gli animali. Perciò mi sembra più giusto cercare la gloria con la forza dell’ingegno che con quella delle membra, e poiché la vita di cui fruiamo è breve, rendere durevole quanto più possibile la memoria di noi. Infatti la gloria della ricchezza e della beltà è fragile e fugace, la virtù dura splendida e eterna. Ma a lungo tra i mortali vi fu aspra contesa se la gloria militare provenisse dalla forza del corpo o dal valore dell’animo. Infatti prima d’intraprendere bisogna decidere, e quando tu abbia deciso, si deve rapidamente operare. Così entrambe le cose, di per sé difettose, necessitano ciascuna dell’aiuto dell’altra.