Epistulae Morales Ad Lucilium, XIV, 28

Quae sint mala, quae videantur ostendit; vanitatem exuit mentibus, dat magnitudinem solidam, inflatam vero et ex inani speciosam reprimit, nec ignorari sinit inter magna quid intersit et tumida; totius naturae notitiam ac sui tradit. Quid sint di qualesque declarat, quid inferi, quid lares et genii, quid in secundam numinum formam animae perpetitae, ubi consistant, quid agant, quid possint, quid velint. Haec eius initiamenta sunt, per quae non municipale sacrum sed ingens deorum omnium templum, mundus ipse, reseratur, cuius vera simulacra verasque facies cernendas mentibus protulit; nam ad spectacula tam magna hebes visus est. Ad initia deinde rerum redit aeternamque rationem toti inditam et vim omnium seminum singula proprie figurantem. Tum de animo coepit inquirere, unde esset, ubi, quamdiu, in quot membra divisus. Deinde a corporibus se ad incorporalia transtulit veritatemque et argumenta eius excussit; post haec quemadmodum discernerentur vitae aut vocis ambigua; in utraque enim falsa veris inmixta sunt.

Ci mostra i mali veri e quelli apparenti; libera la mente da ogni vanità, dà la grandezza autentica e reprime quella tronfia, fatta di vuote apparenze, vuole che sappiamo la differenza tra grandezza e superbia; ci fa conoscere se stessa e la totalità della natura. Ci rivela l’essenza e le qualità degli dèi, che cosa siano gli inferi, i lari, i genii, le anime che sopravvivono sotto forma di divinità secondarie, la loro sede, la loro attività, il loro potere e volontà. Questa è l’iniziazione attraverso la quale essa ci schiude non il sacrario di una città, ma il vasto tempio di tutti gli dèi, l’universo stesso, di cui ha offerto all’esame dell’intelligenza l’immagine vera, il vero aspetto: l’occhio umano è debole per spettacoli così grandi. È ritornata, poi, ai principi delle cose, alla ragione eterna immanente nell’universo e alla forza di tutti i semi che dà ai singoli esseri una propria forma. Ha cominciato a indagare sull’anima, sulla sua origine, la sua sede, la sua durata, e sulle parti in cui è divisa. È poi passata dal corporeo all’incorporeo e ha esaminato la verità e le prove della verità; ha, quindi, mostrato come si possono distinguere le ambiguità nella vita e nelle parole, perché in entrambe vero e falso sono confusi insieme.

De Ira, I, 21

Nihil ergo in ira, ne cum videtur quidem vehemens et deos hominesque despiciens, magnum, nihil nobile est. Aut si videtur alicui magnum animum ira producere, videaturet luxuria: ebore sustineri vult, purpura vestiri, auro tegi, terras transferre, maria concludere, flumina praecipitare, nemora suspendere; videaturet avaritia magni animi: acervis auri argentique incubat et provinciarum nominibus agros colit et sub singulis vilicis latiores habet fines quam quos consules sortiebantur; videatur et libido magni animi: transnat freta, puerorum greges castrat, sub gladium mariti venit morte contempta; videatur et ambitio magni animi: non est contenta honoribus annuis; si fieri potest, uno nomine occupare fastus vult, per omnem orbem titulos disponere. Omnia ista, non refert in quantum procedant extendantque se, angusta sunt, misera depressa; sola sublimis et excelsa virtus est, nec quicquam magnum est nisi quod simul placidum.

Nulla di grande, dunque, nulla di nobile ha l’ira, nemmeno quando disprezza boriosamente gli uomini e gli dèi. E se sembra che possa indurre qualcuno alla magnanimità si dovrebbe pensare la stessa cosa del lusso, visto che anch’esso ama la magnificenza: si stende infatti sull’avorio, si veste di porpora, si copre d’oro, muove grandi distese di terre, imprigiona i mari, devia il corso dei fiumi, s’inventa ingegnose cascate e boschi sospesi per aria. Idem dell’avarizia: se ne sta sdraiata su mucchi d’oro e d’argento, coltiva campi così vasti che prendono i nomi di province e dà da amministrare terreni più estesi di quelli toccati in sorte ai consoli. E a questo punto si dovrebbe pensare che anche l’amore sfrenato possa indurre alla magnanimità, quando vediamo alcuni attraversare a nuoto gli stretti, castrare intere schiere di fanciulli, finire sotto la spada di un marito ridendosene della morte. Lo stesso dovrebbe dirsi dell’ambizione: questa, infatti, non si accontenta di rivestire una carica all’anno, ma se potesse vorrebbe occupare tutti i giorni del calendario con un solo nome e inciderlo su apposite lapidi da piazzare in ogni angolo della terra. Tutte codeste passioni possono crescere quanto vogliono ed abbracciare il mondo, ma sono e resteranno sempre anguste, basse e meschine: solo la virtù vola in alto, sino a toccare il cielo, né c’è alcunché di grande se non è anche mite e sereno.

“Un favore ricambiato”

Causam dicebat apud divum Iulium ex veteranis quidam adversus vicinosuos, et causa premebatur. “Meministi”, inquit, “imperator in Hispania talum te torsisse circa Sucronem?”. Cum Caesar meminisse se dixisset: “Meministi quidem”, inquit, “sub quadam arbore minimum umbrae spargente, cum velles residere ferventissimo sole, et esset asperrimus locus, quemdam ex cornmilitonibus paenulam suam substravisse?”. Cum dixisset Caesar: “Quidni meminerim? Et quidem siti confectus, quia impeditus ire ad fontem proximum non poteram, commilito, homo fonis ac strenuus, aquam mihi in galea sua attulit”. “Potes ergo”, inquit, “imperator, agnoscere illum hominem?”. Caesar ait se hominem pulchre agnoscere posse; et adiecit: “Tu utique Ole non es”. “Merito”, inquit, “Caesar, me non agnoscis; nam cum hoc factum est, integer eram; postea ad Mundam in ade oculus mihi effossus est, et in capite lecta ossa”. Vetuit illi exhiberi negotium Caesar, et agellos, in quibus causa litium fuerat, militi suo donavit.

Sosteneva un processo presso il Divo Giulio uno dei veterani contro i suoi vicini e la causa si metteva male. Disse: “Ricordi, comandante, invero che sotto un albero che diffondeva pochissima ombra, volendo tu star seduto al sole assai forte, e essendo il luogo assai aspro, uno dei commilitoni stese la sua penula?”. Avendo detto Cesare: “Cosa dovrei ricordare? E invero consunto dalla sete, perché non potevo andare alla vicina fonte impacciato, un commilitone, uomo forte e valoroso, prese per me dell’acqua nel suo elmo”. Disse: “Dunque, comandante, potresti riconoscere quell’uomo?”. Cesare dice che può riconoscere bene l’uomo e aggiunse: “Tu comunque non sei Ole”. “Giustamente”, disse, “Cesare, non mi riconosci: infatti quando ciò avvenne, ero integro; poi a Munda un occhio mi fu cavato in battaglia, e fui ferito alla testa”. Cesare gli proibì che fosse presentata la faccenda e al suo soldato donò quei campi, nei quali era stato il motivo delle liti.

“Beneficiare malgrado gli ingrati”

Is perdit beneficia, qui cito se perdidisse credit. At qui instat, et onerat priora sequentibus, etiam ex duro et immemori pectore gratiam extundit. Non audebit adversus multa oculos attollere; quocumque se convertit, memoriam suam fugiens, ibi te videat: beneficiis tuis illum cinge. Quorum quae vis, quaeue proprietas sit, dicam, si prius illa, quae ad rem non pertinent, transilire mihi permiseris, quare tres Gratiae, et quare sorores sint, et quare manibus implexis, quare ridentes, iuvenes, et virgines, solutaque ac pellucida veste. Alii quidem videri volunt unam esse, quae det beneficium: alteram, quae accipiat: tertiam, quae reddat. Alii tria beneficiorum genera, promerentium, reddentium, simul et accipientium reddentiumque. Sed utrumlibet ex istis iudicaverim, quid ista nos iuvat scientia? Quid ille consertis manibus in se redeuntium chorus? Ob hoc, quia ordo beneficii per manus transeuntis nihilominus ad dantem revertitur, et totius speciem perdit, si usquam interruptus est: pulcherrimus, si cohaesit, et vices servat. Ideo ridentes: est aliqua tamen maioris dignatio, sicut promerentium. Vultus hilares sunt, quales solent esse qui dant, vel accipiunt beneficia. Iuvenes: quia non debet beneficiorum memoria senescere. Virgines: quia incorrupta sunt, et sincera, et omnibus sancta, in quibus nihil esse alligati debet, nec adscripti; solutis itaque tunicis utuntur: pellucidis autem, quia beneficia conspici volunt.

Questo non riceverà i benifici che si aspetta, colui che crede di averli persi troppo presto. Ma colui che insiste, e accumula benefici nuovi ai primi, riuscirà a ricevere gratitudine anche dal petto più duro e immemore. L’ingrato non oserà sollevare gli occhi contro molti, ovunque scappi, fuggendo dalla sua memoria, lì possa vederti: cerchialo con i tuoi benefici. Dirò quale sia la forza o la proprietà di questi (i benefici), se tu prima mi avrai permesso di trattare di quelle cose che non riguardano ciò di cui stiamo parlando, perchè le Grazie siano tre, e perchè siano sorelle, e perchè se ne stiano con le mani intrecciate, perchè siano sorridenti, giovani, e vergini, e la veste sia slegata e trasparente. Alcuni vogliono che sembri che la prima sia quella che da il beneficio, la seconda, quella che lo riceve, la terza quella che lo restituisce. Altri (vogliono che sembri) che ci (siano) tre generi di benefici, quelli di coloro che se lo sono meritati (lett: dei meritevoli), quelli di coloro che ricambiano (dei “ricambiatori”), quelli di quelli che contemporaneamente li ricevono e ricambiano (insieme dei riceventi e dei ricambiatori). Dunque giudica quale di questi sia vero: a che cosa ci giova questa conoscenza? Che senso ha quel coro che danza tenendosi per mano? Per questo, perchè la natura del beneficio passando di mano in mano non ritorna a colui che l’ha dato in minor valore, e perde la natura di intero, se mai viene interrotto: rimane bellissimo, se continua e garantisce la scambievolezza. In esso vi è tuttavia una posizione di primo piano come di coloro che fanno il beneficio. I volti sono felici, come sono soliti essere coloro che danno, o ricevono benefici. Giovani perchè non deve invecchiare il ricordo dei benefici, vergini perchè i benefici sono incorrotti e puri e sacri per tutti; e in questi non è bene che vi sia nulla che crei vincoli ne che li stringa: tuttavia usano tuniche sciolte, trasparenti, perchè i benefici vogliono essere visti.

De Beneficiis, III, 20

Errat, si quis existimat servitutem in totum hominem descendere: pars melior eius excepta est. Corpora obnoxia sunt, et adscripta dominis: mens quidem sui iuris; quae adeo libera et vaga est, ut ne ab hoc quidem carcere cui inclusa est teneri queat, quo minus impetu suo utatur, et ingentia agat, et in infinitum comes coelestibus exeat. Corpus itaque est, quod domino fortuna tradicit.
Hoc emit, hoc vendit: interior illa pars mancipio dari non potest. Ab hac quidquid venit, liberum est; non enim aut nos omnia iubere possumus, aut in omnia servi parere coguntur: contra rempublicam imperata non facient; nulli sceleri manus commodabunt.

Se qualcuno pensa che la schiavitù riguardi l’uomo nella sua totalità, sbaglia: la sua parte migliore ne è esclusa. I corpi sono soggetti e assegnati ai padroni, ma indipendente è la mente, che è libera e vagante a tal punto che nemmeno dal carcere, nel quale è rinchiusa, possa essere trattenuta dall’usare il suo ardore e dal compiere cose immense e dal librarsi all’infinito come compagna dei celesti. Dunque è il corpo, quello che la sorte assegna ad un padrone.
Questo compra, questo vende: quella parte più profonda non può essere venduta. Tutto ciò che da questa proviene, è libero; nè infatti noi possiamo ordinare ogni cosa, nè gli schiavi sono costretti ad obbedire in tutto e per tutto; non eseguiranno ordini contro lo stato, non si presteranno ad alcun crimine.

De Beneficiis, I, 7

Si beneficia in rebus, non ipsa benefaciendi voluntate consisterent, eo maiora essent, quo maiora sunt, quae accipimus. Id autem falsum est; nonnunquam magis nos obligat, qui dedit parua magnifice; qui regum aequauit opes animo; qui exiguum tribuit, sed libenter: qui paupertatis suae oblilus est, dum meam respicit; qui non voluntatem tantum iuvandi habuit, sed cupiditatem; qui accipere se putavit beneficium, quum daret; qui dedit tanquam recepturus, recepit tanquam non dedisset; qui occasionem, qua prodesset, et occupavit et quaesivit. Contra ingrata sunt, ut dixi, licet re ac specie magna videantur, quae danti aut extorquentur, aut excidunt, multoque gravius uenit, quod facili, quam quod plena manu datur: exiguum est quod in me contutit, sed amplius non potuit. At hic quod dedit, magnum est: sed dubitavit, sed distulit, sed quum daret, gemuit, sed superbe dedit, sed circumtulit, et placere ei, cui praestabat, noluit; ambitioni dedit, non mihi.

Se i benefici consistessero nelle cose donate e non nella volontà stessa di fare il bene, sarebbero tanto maggiori quanto maggiori sono i doni che riceviamo. Questo, invece, è falso: non di rado ci sentiamo maggiormente in debito con chi ci ha donato poco, ma con generosità, con chi eguagliava le ricchezze dei re con la disposizione d’animo, con chi ci ha reso un servizio minimo, ma di buon animo, con chi ha dimenticato la sua povertà guardando la mia, con chi ha avuto non soltanto la volontà, ma quasi la brama di aiutarmi, con chi ha ritenuto di ricevere egli stesso un beneficio facendolo a me, con chi ha ricevuto il contraccambio come se non avesse mai donato, con chi ha cercato e ha colto l’occasione per essermi utile. Invece, non sono graditi, come ho detto, benché sembrino di valore e molto belli, quei doni che vengono quasi carpiti o che cadono di mano al donatore, poiché risulta molto più gradito un dono che giunge spontaneamente di uno a piene mani. E’ poco ciò che costui mi ha dato, ma non avrebbe potuto darmi di più; invece, è molto ciò che mi ha dato quell’altro, ma ha esitato, ha rinviato, si è lamentato nel dare, ha dato con arroganza, ha fatto sapere a tutti di quel dono e ha voluto riuscire gradito, ma non a colui al quale l’offriva; ha donato per la sua ambizione, non per me.

De Beneficiis, I, 6

Quid est ergo beneficium? Benevola actio tribuens gaudium, capiensque tribuendo, in id quod facit prona, et sponte sua parata. Raque non quid fiat, aut quid detur, refert, sed qua mente: quia beneficium non in eo quod fit aut datur, consistit, sed in ipso dantis aut facientis animo. Magnum autem esse inter ista discrimen, vel ex hoc intelligas licet, quod beneficium utique bonum est: id autem quod fit, aut datur, nec bonum, nec malum est. Animus est, qui parua extollit, sordida illustrat, magna et in pretio habita dehonestat: ipsa, quae appetuntur, neutram naturam habent, nec boni, nec mali; refert, quo ille rector impellat, a quo forma datur rebus. Non est ergo beneficium ipsum, quod numeratur, aut traditur; sicut nec in victimis quidem, licet opimae sint, auroque praefulgeant, deorum est honos; sed pia ac recta voluntate venerantium. Itaque boni etiam farre ac fitilla religiosi sunt; mali rursus non effugiunt impietatem, quamuis aras sanguine multo cruentaverint.

Che cos’è, dunque, il beneficio? Un’azione benevola che procura gioia e gioisce nel procurarla, accompagnata da una inclinazione e da una disposizione d’animo a compierla. Perciò, non importa ciò che si fa o si dà, ma con quale intenzione, per. ché il beneficio consiste non in ciò che si fa o si dà, ma proprio nella disposizione d’animo di chi dà odi chi fa. Che ci sia una gran differenza tra queste cose, si può capire anche dal fatto che il beneficio è in ogni caso un bene, mentre ciò che si fa o si dà non è né un bene né un male. E la disposizione d’animo che rende grandi le piccole cose, nobilita le cose meschine, rende misere le cose considerate importanti e pregiate; persino le cose che noi desideriamo hanno una natura indifferente, né di bene né di male: ciò che conta è dove le orienta colui che le governa e che dà loro forma. L’essenza del beneficio non consiste in ciò che si possiede o che passa da una mano all’altra, così come l’onore reso agli dèi non consiste affatto nelle vittime, ma nella volontà onesta e religiosa di chi li venera. Pertanto, ai buoni basta un po’ di farro e del vasellame di terracotta per mostrare la loro devozione; i malvagi, invece, non sfuggono all’empietà, per quanti altari bagnino di sangue.

De Beneficiis, III, 18

Quanquam quaeritur a quibusdam, sicut ab Hecatone, an beneficium dare seruus domino posuit? Sunt enim qui ita distinguunt, quaedam beneficia esse, quaedam officia, quaedam ministeria; beneficium esse, quod alienus det: alienus est, qui potuit sine reprehensione cessare; officium esse filii, uxoris, et earum personarum, quas necessitudo suscitat, et ferre opem iubet; ministerium esse serui, quem conditio sua eo loco posuit, ut nihil eorum qui praestat, imputet superiori. Praeterea seruos qui negat dare aliquando domino beneficium, ignarus est iuris humani; refert enim cuius animi sit, qui praestat, non cuius status. Nulli praeclusa uirtus est: omnibus patet, omnes admittit, omnes inuitat, ingenuos, libertinos, seruos, reges, et exsules; non eligit domum, nec censum: nudo homine contenta est. Quid enim erat tuti aduersus repentina; quid animus magnum promitteret sibi, si certam uirtutem fortuna mutaret? Si non dat beneficium seruus domino, nec regi quisquam suo, nec duci suo miles. Quid enim interest, quali quis teneatur imperio, si summo tenetur? Nam si seruo, quo minus in nomen meriti perueniat, necessitas obest, et patiendi ultima timor, idem istud obstabit, et ei qui regem habet, et ei qui ducem; quoniam, sub dispari titulo, paria in illos licent. Atqui dant regibus suis, dant imperatoribus beneficia: ergo et dominis. Potest seruus iustus esse, potest fortis, potest magnanimus: ergo et beneficium dare potest. Nam et hoc uirtutis est; adeoque dominis serui beneficia possunt dare, ut ipsos saepe beneficii sui fecerint.

Tuttavia viene chiesto a qualcuno, come a Ecatone, se un servo possa fare beneficio al padrone. Ci sono coloro che distinguono così, che cosa siano i benefici, che cosa i doveri, che cosa i servizi; il beneficio è, ciò che un altro dà: l’estraneo è chi avrebbe potuto astenersi senza rimprovero; il dovere è proprio del figlio, della moglie e di quelle persone che la parentela spinge e ordina che compino il dovere; il servizio è proprio del servo, che la sua condizione lo pose in quella posizione tale per cui non può attribuirsi come un merito, nei confronti di chi gli è superiore, nessuna di queste cose che fa come un di più. E’ ignaro dei diritti umani colui che dice che il servo non dà mai benefici al padrone; importa infatti di quale animo sia chi fa il servizio non di che livello sociale. La virtù non è preclusa a nessuno; sopporta tutti, ammette tutti, invita tutti, sia liberi sia liberti sia servi sia re sia esuli; non preferisce casa ne censo: è contenta del nudo uomo. Che cosa ci sarebbe di sicuro contro gli avvenimenti improvvisi, che cosa prometterebbe a se stesso l’animo di grande, se la fortuna mutasse la certa virtù? Se il servo non desse beneficio al padrone, neppure qualcuno potrebbe darlo al proprio re, ne il soldato al suo comandante; cosa infatti interessa chi tiene quale potere, se tutto è tenuto da un sommo potere? Infatti se la costrizione e l’estremo timore di sopportare le dure punizioni, si oppone a che il servo possa diventare un benefattore, allo stesso modo questo impedirà anche a colui che ha un re e a colui che ha un condottiero, anche se sotto un nome diverso, anche a questi sono permesse le stesse cose. Eppure danno benefici ai loro re, ne danno ai loro comandanti: quindi anche ai padroni. Il servo può essere giusto, può essere coraggioso, può essere di grande animo: quindi può dare beneficio. Infatti anche ciò fa parte della virtù. Quindi a tal punto i servi possono dare benefici ai padroni che spesso sono fatti grandi dai loro benefici.

“L’ubriachezza del re Cambise”

Cambysen regem nimis deditum vino Praexaspes, unus ex carissimis, monebat ut parcius biberet, turpem esse dicens ebrietatem in rege, quem omnium oculi auresque sequerentur. Ad haec ille: “ut scias” inquit “quemadmodum numquam excidam mihi, adprobabo iam et oculos, post vinum, et manus in officio esse”. Bibit deinde liberalius quam alias capacioribus scyphis et, iam gravis ac vinolentus, obiurgatoris sui filium procedere ultra limen iubet allevataque super caput sinistra manu stare. Tunc intendit arcum et ipsum cor adulescentis (id enim petere se dixerat) figit rescissoque pectore haerens in ipso corde spiculum ostendit ac respiciens patrem interrogavit satisne certam haberet manum.

Pressaspe, uno dei suoi più cari amici, ammoniva il re Cambise, troppo incline al vino, a bere di meno, dicendo che è disonorevole l’ubriachezza in un re, che gli occhi e le orecchie di tutti seguivano. Quello rispose a queste cose: “Affinché tu sappia come non ho perso il mio autocontrollo, ti proverò che, dopo aver bevuto vino, gli occhi e le mani funzionano ancora a dovere”. Bevve poi più abbondantemente del solito, in coppe più grandi e, ormai appesantito e ubriaco fradicio, ordinò al figlio del suo censore di avanzare oltre la soglia e di stare fermo, con la mano sinistra alzata sopra il capo. Allora tese l’arco e trafisse proprio il cuore del ragazzo (aveva detto di mirare a quello) e aperto il petto, mostrando la freccia diritta nel cuore e volgendosi al padre gli chiese se aveva una mano abbastanza ferma.

“La gloria dei figli si riflette sui padri”

Si quis in tantum processit, ut aut eloquentia per gentes notesceret aut iustitia aut bellicis rebus et patri quoque ingentem circumfunderet famam tenebrasque natalium suorum clara luce discuteret, non inaestimabile in parentes suos beneficium contulit? An quisquam Aristonem et Gryllum nisi propter Xenophontem ac Platonem nosset? Ceteros enumerare longum est, qui durant ob nullam aliam causam, quam quod illos liberorum eximia virtus tradidit posteris. Utrum maius beneficium dedi M. Agrippae pater an patri dedit Agrippa navali corona insignis, unicum adeptus inter dona militaria decus, qui tot in urbe maxima opera excitavit, quae et priorem magnificentiam vincerent et nulla postea vincerentur? Utrum Octavius maius beneficium dedit filio an patri divus Augustus? Quantam cepisset voluptatem, si illum post debellata arma civilia vidisset securae paci praesidentiem, non adgnoscens bonum suum nec satis credens, quotiens ad se respexisset, potuisse illum virum in domo sua nasci! Quid nunc ceteros prosequar, quos iam cosumpsisset oblivio, nisi illos filiorum gloria e tenebris eruisset et adhuc in luce retineret?

Se poi qualcuno ha fatto tanti progressi da diventare famoso presso tutti i popoli o per la sua eloquenza o per la sua giustizia o per le sue imprese militari, e ha arrecato grande fama anche al padre, dissipando con la luce della sua fama l’oscurità dei suoi natali, non ha fatto ai suoi genitori un beneficio incomparabile? O forse qualcuno avrebbe conosciuto Aristone e Grillo se non fosse stato per i loro figli Senofonte e Platone? Sarebbe troppo lungo enumerare tutti gli altri dei quali sopravvive il ricordo esclusivamente perchè le qualità eccezionali dei figli lo hanno tramandato ai posteri. E maggiore il beneficio fatto a M. Agrippa dal padre oppure quello che ha fatto al padre Agrippa, famoso per aver ottenuto la corona navale, la più alta fra le onorificenze militari, e per aver fatto erigere a Roma grandissimi edifici che superavano la magnificenza di quelli precedenti e che non furono mai superati nelle epoche successive? Maggiore il beneficio che Ottavio ha fatto a suo figlio o quello che ha fatto a suo padre il divo Augusto? Quale piacere avrebbe provato quel padre, se avesse visto il figlio che, dopo aver sedato le guerre civili, vegliava sulla pace ormai assicurata: non avrebbe riconosciuto che quel bene era dovuto a lui e a stento avrebbe creduto, ogni volta che avesse pensato a se stesso, che un uomo simile era potuto nascere in casa sua! E perchè dovrei proseguire l’enumerazione di coloro che sarebbero già stati travolti dall’oblio, se la gloria dei loro figli non li avesse strappati alle tenebre e non li mantenesse tuttora nella luce?

“Dio mette alla prova i migliori”

Quare deus optimum quemque aut mala valetudine aut luctu aut aliis incommodis afficit? Quia in castris quoque omnia periculosa fortissimis imperantur: dux milites lectissimos mittit qui nocturnis insidiis hostes adgrediantur aut explorent iter aut praesilio potiantur. Di sequuntur in bonis viris eandem rationem, quam in discipulis suis praeceptores, qui plus laboris ab iis exgunt in quibus certior spes est. Numquid tu credis invisos esse lacedaemoniis liberos suos, quorum experiuntur indolem publice verberibus caedentes? Ipsi patres illos adhortantur ut ictus flagellorum fortiter perferant. Fortuna igitur nos verberat et lacerat? Patiamur. Non est saevitia, sed certamen: deus enim dure animos magnos temptat, ut fortiores sint.”

Perchè Dio affligge i migliori o con la cattiva salute o con il dolore o con le disgrazie? Perché anche all’interno dell’accampamento le azioni pericolose sono affidate ai più valorosi: il comandante invia i soldati più abili ad assalire i nemici in imboscate notturne o ad esplorare la strada o a scalzare da un luogo un presidio. Gli dei seguono lo stesso metodo nei confronti degli uomini buoni che seguono gli insegnanti con i loro alunni, da loro esigono molto più lavoro, in loro la speranza è più certa. Che forse tu credi che i loro figli fossero malvisti dagli Spartani, figli dei quali mettono alla prova il carattere colpendoli pubblicamente con frustate? La fortuna dunque ci frusta e ci lacera? Sopportiamo. Non è crudeltà, ma una gara: infatti il Dio mette alla prova duramente i grandi animi affinchè siano più forti.

Ad Lucilium, IV, 36, 1-2

Amicum tuum hortare ut istos magno animo contemnat qui illum obiurgant quod umbram et otium petierit, quod dignitatem suam destituerit et, cum plus consequi posset, praetulerit quietem omnibus; quam utiliter suum negotium gesserit cotidie illis ostentet. Hi quibus invidetur non desinent transire: alii elidentur, alii cadent. Res est inquieta felicitas; ipsa se exagitat. Movet cerebrum non uno genere: alios in aliud irritat, hos in impotentiam, illos in luxuriam; hos inflat, illos mollit et totos resolvit.
“At bene aliquis illam fert”. Sic, quomodo vinum. Itaque non est quod tibi isti persuadeant eum esse felicem qui a multis obsidetur: sic ad illum quemadmodum ad lacum concurritur, quem exhauriunt et turbant. “Nugatorium et inertem vocant”. Scis quosdam perverse loqui et significare contraria. Felicem vocabant: quid ergo? Erat?

Esorta il tuo amico a disprezzare orgogliosamente quelli che lo criticano perché ha scelto una vita umbratile e ritirata, perché ha lasciato la sua brillante posizione e, pur potendo arrivare più in alto, ha anteposto a tutto la tranquillità; mostri loro ogni giorno come abbia fatto utilmente il proprio interesse. Gli uomini oggetto di invidia sono destinati a scomparire: alcuni verranno eliminati, altri cadranno. La prosperità è inquieta; si tormenta da sé. Essa sconvolge la mente in svariati modi: eccita gli uomini a passioni diverse: gli uni alla sete di potere, gli altri alla lussuria; rende tronfi i primi, snerva e svigorisce completamente i secondi.
“Ma qualcuno la regge bene”. Sì, come il vino. Perciò non farti convincere da costoro che è felice chi è assediato da molte persone: corrono da lui come a una sorgente d’acqua che esauriscono e intorbidano. “Lo chiamano buono a nulla e inetto”. Sai che certe persone parlano a rovescio e dànno alle parole il significato opposto. Lo definivano felice: e allora? Lo era veramente?

De Otio, 8

Adice nunc [huc] quod e lege Chrysippi vivere otioso licet: non dico ut otium patiatur, sed ut eligat. Negant nostri sapientem ad quamlibet rem publicam accessurum; quid autem interest quomodo sapiens ad otium veniat, utrum quia res publica illi deest an quia ipse rei publicae, si omnibus defutura res publica est? Semper autem deerit fastidiose quaerentibus.
Interrogo ad quam rem publicam sapiens sit accessurus. Ad Atheniensium, in qua Socrates damnatur, Aristoteles ne damnetur fugit? in qua opprimit invidia virtutes? Negabis mihi accessurum ad hanc rem publicam sapientem. Ad Carthaginiensium ergo rem publicam sapiens accedet, in qua adsidua seditio et optimo cuique infesta libertas est, summa aequi ac boni vilitas, adversus hostes inhumana crudelitas, etiam adversus suos hostilis? Et hanc fugiet.
Si percensere singulas voluero, nullam inveniam quae sapientem aut quam sapiens pati possit. Quodsi non invenitur illa res publica quam nobis fingimus, incipit omnibus esse otium necessarium, quia quod unum praeferri poterat otio nusquam est.
Si quis dicit optimum esse navigare, deinde negat navigandum in eo mari in quo naufragia fieri soleant et frequenter subitae tempestates sint quae rectorem in contrarium rapiant, puto hic me vetat navem solvere, quamquam laudet navigationem.

Aggiungi, a questo punto, adesso, che è ammesso dalla dottrina di Crisippo vivere nell’ozio, non dico che la sopporti, ma che (lo) scelga. I nostri negano che un saggio parteciperà a qualsiasi tipo di vita pubblica; che importa in che modo il saggio vive nell’ozio? Se perchè gli manca uni Stato oppure è lui a mancare allo Stato, sempre, infatti viene meno a coloro che lo cercano con impegno fastidioso.
Domando a che modello di Stato il saggio possa accedere. A quello ateniese dove un Socrate è condannato ed un Aristotele fugge per evitare la condanna? Dove l’invidia opprime la virtù? Dirai che il saggio non accede a questo Stato. Accederà allora a quello cartaginese, dove le sedizioni sono all’ordine del giorno, la libertà è esiziale per tutti i migliori, il bene e la giustizia non valgono assolutamente a nulla, si è disumanamente crudeli con i nemici e si trattano da nemici i concittadini? Fuggirà anche da questo.
Se volessi passarli in rivista ad uno ad uno, non ne troverei nessuno che possa tollerare il saggio o essere da lui tollerato. Ma se quel modello di Stato che noi immaginiamo non esiste, la virtù ritirata incomincia ad essere indispensabile per tutti, perchè la sola cosa che potrebbe essere preferita al ritiro non esiste da nessuna parte.
Se qualcuno mi dice che viaggiare per mare è bellissimo, ma poi aggiunge che non si deve navigare nei mari dove si verificano naufragi e frequenti tempeste improvvise trascinano il pilota contro rotta, io penso che costui mi proibisca di salpare, mentre elogia la navigazione.

“La condizione dell’emigrante”

Liberos coniugesque et graves senio parentes traxerunt. Alii longo errore iactati non iudicio elegerunt locum sed lassitudine proximum occupaverunt, alii armis sibi ius in aliena terra fecerunt; quasdam gentes, cum ignota peterent, mare hausit, quaedam ibi consederunt ubi illas rerum omnium inopia deposuit. Nec omnibus eadem causa relinquendi quaerendique patriam fuit: alios excidia urbium suarum hostilibus armis elapsos in aliena spoliatos suis expulerunt; alios domestica seditio summovit; alios nimia superfluentis populi frequentia ad exonerandas vires emisit; alios pestilentia aut frequentes terrarum hiatus aut aliqua intoleranda infelicis soli vitia eiecerunt; quosdam fertilis orae et in maius laudatae fama corrupit. Alios alia causa excivit domibus suis: illud utique manifestum est, nihil eodem loco mansisse quo genitum est. Adsiduus generis humani discursus est.

Si portano dietro i figli, le mogli, i genitori appesantiti dalla vecchiaia. Alcuni, dopo un lungo errare, non si scelsero deliberatamente una sede, ma per la stanchezza occuparono quella più prossima; altri, con le armi, si conquistarono il diritto di una terra straniera. Alcune popolazioni, avventurandosi verso terre sconosciute, furono inghiottite dal mare, altre si stabilirono là dove la mancanza di tutto le aveva fatte fermare. Non tutti hanno avuto gli stessi motivi per abbandonare la loro patria e cercarne un’altra: alcuni, sfuggiti alla distruzione della loro città e alle armi nemiche e spogliati dei loro beni, si volsero ai territori altrui; altri furono cacciati da lotte intestine; altri furono costretti a emigrare per alleggerire il peso di un’eccessiva densità di popolazione; altri ancora sono stati cacciati dalla pestilenza o dai frequenti terremoti o da altri intollerabili flagelli di una terra infelice, altri, infine, si sono lasciati attirare dalla notizia di una terra fertile e fin troppo decantata. Ognuno ha lasciato la sua casa per una ragione o per l’altra: questo però è certo, che nessuno è rimasto nel luogo dove è nato. Incessante è il peregrinare dell’uomo.

“Gli schiavi sono uomini”

Vis tu cogitare istum, quem servum tuum vocas, ex isdem seminibus ortum eodem frui caelo, aeque spirare, aeque vivere, aeque mori! Tam tu illum videre ingenuum potes quam ille te servum. Variana clade multos splendidissime natos, senatorium per militiam auspicantes gradum, fortuna depressit, alium ex illis pastorem, alium custodem casae fecit: contemne nunc eius fortunae hominem, in quam transire, dum contemnis, potes. Nolo in ingentem me locum immittere ed de usu servorum disputare, in quos superbissimi, crudelissimi, contumeliosissimi sumus. Haec tamen praecepti mei summa est: sic cum inferiore vivas, quemadmodum tecum superiorem velis vivere. Quotiens in mentem venerit, quantum tibi in servum tuum liceat, veniat in mentem tantumdem in te domino tuo licere. “At ego” inquis “nullum habeo dominum”. Bona aetas est: forsitan habebis. Nescis qua aetate Hecuba servire coeperit, qua Croesus, qua Darei mater, qua Plato, qua Diogenes? Vive cum servo clementer, comiter quoque, et in sermonem illum admitte et in consilium et in convictum.

Considera che costui, che tu chiami tuo schiavo, è nato dallo stesso seme, gode dello stesso cielo, respira, vive, muore come te! Tu puoi vederlo libero, come lui può vederti schiavo. Con la sconfitta di Varo la sorte degradò socialmente molti uomini di nobilissima origine, che attraverso il servizio militare aspiravano al grado di senatori: qualcuno lo fece diventare pastore, qualche altro guardiano di una casa. E ora disprezza pure l’uomo che si trova in uno stato in cui, proprio mentre lo disprezzi, puoi capitare anche tu. Non voglio cacciarmi in un argomento tanto impegnativo e discutere sul trattamento degli schiavi: verso di loro siamo eccessivamente superbi, crudeli e insolenti. Questo è il succo dei miei insegnamenti: comportati con il tuo inferiore come vorresti che il tuo superiore agisse con te. Tutte le volte che ti verrà in mente quanto potere hai sul tuo schiavo, pensa che il tuo padrone ha su di te altrettanto potere. “Ma io”, ribatti, “non ho padrone.” Per adesso ti va bene; forse, però lo avrai. Non sai a che età Ecuba divenne schiava, e Creso, e la madre di Dario, e Platone, e Diogene? Sii clemente con il tuo servo e anche affabile; parla con lui, chiedigli consiglio, mangia insieme a lui.

“Tre innocenti condannati a morte”

Cnaeus Piso fuit memoria nostra uir a multis uitiis integer, sed prauus et cui placebat pro constantia rigor. Is cum iratus duci iussisset eum qui ex commeatu sine commilitone redierat, quasi interfecisset quem non exhibebat, roganti tempus aliquid ad conquirendum non dedit. Damnatus extra uallum productus est et iam ceruicem porrigebat, cum subito apparuit ille commilito qui occisus uidebatur. Tunc centurio supplicio praepositus condere gladium speculatorem iubet, damnatum ad Pisonem reducit redditurus Pisoni innocentiam; nam militi fortuna reddiderat. Ingenti concursu deducuntur complexi alter alterum cum magno gaudio castrorum commilitones. Conscendit tribunal furens Piso ac iubet duci utrumque, et eum militem qui non occiderat et eum qui non perierat. Quid hoc indignius? Quia unus innocens apparuerat, duo peribant. Piso adiecit et tertium; nam ipsum centurionem qui damnatum reduxerat duci iussit. Constituti sunt in eodem illo loco perituri tres ob unius innocentiam. O quam sollers est iracundia ad fingendas causas furoris! “Te” inquit “duci iubeo, quia damnatus es; te, quia causa damnationis commilitoni fuisti; te, quia iussus occidere imperatori non paruisti”.

Gneo Pisone, uomo che ricordiamo, fu esente da molti vizi, ma fu un perverso che scambiava per costanza il rigore. Costui, avendo ordinato, in preda all’ira, la pena di morte per un soldato che era tornato da un permesso senza il commilitone, pensando che avesse ucciso colui che non era in grado di presentare, non aderì alla sua richiesta di un breve rinvio per una ricerca. Il condannato fu condotto fuori del recinto e ormai porgeva il collo, quando, all’improvviso, apparve quel commilitone che si pretendeva fosse stato assassinato. Allora il centurione, responsabile dell’esecuzione, comanda all’ordinanza di riporre la spada e riconduce il condannato da Pisone, per restituire a Pisone l’innocenza: al soldato, l’aveva già restituita un colpo di fortuna. Circondati da tutti, vengono condotti, mentre s’abbracciano l’un l’altro tra l’esultanza dell’accampamento, i due compagni d’armi. Pisone, furibondo, sale sul tribunale ed ordina l’esecuzione di tutti e due, tanto del soldato che non aveva ucciso, quanto di quello che non era morto. Poteva esserci iniquità peggiore? Perchè uno s’era dimostrato innocente, ne dovevano morire due. Pisone aggiunse anche il terzo: ordinò infatti addirittura l’esecuzione del centurione che aveva condotto indietro il condannato. Così furono schierati per morire nello stesso posto tre uomini, a causa dell’innocenza di uno. Oh, quanto è avveduta l’iracondia, nell’inventare cause di furore! “Ordino” – disse – “la tua esecuzione, perchè sei stato condannato; la tua, perchè sei stato la causa della condanna del tuo compagno; la tua, perchè, ricevuto l’ordine di uccidere, non hai ubbidito al comandante supremo”.

Ad Lucilium, V, 45, 9(“In che cosa consiste la vera felicità”)

Hoc nos doce, beatum non eum esse quem vulgus appellat, ad quem pecunia magna confluxit, sed illum cui bonum omne in animo est, erectum et excelsum et mirabilia calcantem, qui neminem videt cum quo se commutatum velit, qui hominem ea sola parte aestimat qua homo est, qui natura magistra utitur, ad illius leges componitur, sic vivit quomodo illa praescripsit; cui bona sua nulla vis excutit, qui mala in bonum vertit, certus iudicii, inconcussus, intrepidus; quem aliqua vis movet, nulla perturbat; quem fortuna, cum quod habuit telum nocentissimum vi maxima intorsit, pungit, non vulnerat, et hoc raro; nam cetera eius tela, quibus genus humanum debellatur, grandinis more dissultant, quae incussa tectis sine ullo habitatoris incommodo crepitat ac solvitur.

Insegnaci che non è felice l’uomo definito tale dalla massa, e che dispone di molto denaro, ma quello che possiede ogni suo bene nell’intimo e si erge fiero e nobile calpestando ciò che desta l’ammirazione degli altri; che non trova nessuno con cui vorrebbe cambiarsi; che stima un uomo per quella sola parte per cui è uomo; che si avvale del magistero della natura, si uniforma alle sue leggi e vive secondo le sue regole; l’uomo al quale nessuna forza può strappare i propri beni, che volge il male in bene, sicuro nei giudizi, costante, intrepido; che una qualche forza può scuotere, nessuna può turbare; che la sorte, quando gli scaglia contro la sua arma più micidiale con la massima violenza, riesce a pungere, e raramente, ma non a ferire; le altre armi, con cui la fortuna prostra il genere umano, rimbalzano come la grandine, che battendo sui tetti senza causare danni agli inquilini, crepita e si scioglie.

Ad Lucilium, XV, 95, 51-52-53 (“Filosofia e felicità“)

Ecce altera quaestio, quomodo hominibus sit utendum. Quid agimus? Quae damus praecepta? Ut parcamus sanguini humano? Quantulum est ei non nocere cui debeas prodesse! Magna scilicet laus est si homo mansuetus homini est. Praecipiemus ut naufrago manum porrigat, erranti viam monstret, cum esuriente panem suum dividat? Quare omnia quae praestanda ac vitanda sunt dicam? Cum possim breviter hanc illi formulam humani offici tradere: omne hoc quod vides, quo divina atque humana conclusa sunt, unum est; membra sumus corporis magni. Natura nos cognatos edidit, cum ex isdem et in eadem gigneret; haec nobis amorem indidit mutuum et sociabiles fecit. Illa aequum iustumque composuit; ex illius constitutione miserius est nocere quam laedi; ex illius imperio paratae sint iuvandis manus. Ille versus et in pectore et in ore sit: “Homo sum, humani nihil a me alienum puto”. Habeamus in commune: nati sumus. Societas nostra lapidum fornicationi simillima est, quae, casura nisi in vicem obstarent, hoc ipso sustinetur.

Ecco un altro problema, come dobbiamo comportarci con gli uomini? Che cosa dobbiamo fare? quali precetti dobbiamo dare? E che dobbiamo risparmiare il sangue umano? Che poca cosa è non nuocere a colui tu devi giovare! È davvero grande cosa se un uomo è clemente con un altro uomo. Consiglieremo di porgere la mano al naufrago, di mostrare la via al viaggiatore, di dividere il suo pane con colui che ha fame? Quando dirò tutte le cose che si devono fare e quali si devono evitare? Mentre posso brevemente trasmettergli questa formula dei doveri umani e tutto questo che vedi da cui è racchiuso ogni elemento divino ed umano, è unico e siamo membra di un grande corpo. La natura ci ha creato parenti poiché ci ha generato da quelli e in vista di quelli. Questa ci ha infuso un amore reciproco e ci ha fatto “sociali”. Quella metteva insieme il giusto e l’equo, sulla base delle sue norme è più misero nuocere che ricevere un’offesa: ai suoi comandi le mai siano pronte ad aiutare. Quel verso sia ben radicato nel cuore e sulle labbra: “Sono un uomo, nulla di umano ritengo a me estraneo”. Teniamo presente questo: siamo nati per vivere in comune: la nostra società è molto simile ad una volta di pietre che, è destinata a cadere se non si sorreggessero a vicenda, proprio per questo è sostenuta.

De Brevitate Vitae, 14 (“Solo il sapiens è libero”)

Soli omnium otiosi sunt qui sapientiae vacant soli vivunt; nec enim suam tantum aetatem bene tuentur: omne aevum suo adiciunt; quicquid annorum ante illos actum est illis adquisitum est. Nisi ingratissimi sumus illi clarissimi sacrarum opinionum conditores nobis nati sunt nobis vitam praeparaverunt. Ad res pulcherrimas ex tenebris ad lucem erutas alieno labore deducimur; nullo nobis saeculo interdictum est in omnia admittimur et si magnitudine animi egredi humanae imbecillitatis angustias libet multum per quod spatiemur temporis est. Disputare cum Socrate licet dubitare cum Carneade cum Epicuro quiescere hominis naturam cum Stoicis vincere cum Cynicis excedere. Cum rerum natura in consortium omnis aevi patiatur incedere quidni ab hoc exiguo et caduco temporis transitu in illa toto nos demus animo quae immensa quae aeterna sunt quae cum melioribus communia? Isti qui per officia discursant qui se aliosque inquietant cum bene insanierint cum omnium limina cotidie perambulaverint nec ullas apertas fores praeterierint cum per diversissimas domos meritoriam salutationem circumtulerint quotum quemque ex tam immensa et variis cupiditatibus districta urbe poterunt videre? Quam multi erunt quorum illos aut somnus aut luxuria aut inhumanitas summoveat! Quam multi qui illos cum diu torserint simulata festinatione transcurrant! Quam multi per refertum clientibus atrium prodire vitabunt et per obscuros aedium aditus profugient quasi non inhumanius sit decipere quam excludere! Quam multi hesterna crapula semisomnes et graves illis miseris suum somnum rumpentibus ut alienum exspectent vix allevatis labris insusurratum miliens nomen oscitatione superbissima reddent! Hos in veris officiis morari putamus licet dicant qui Zenonem qui Pythagoran cotidie et Democritum ceterosque antistites bonarum artium qui Aristotelen et Theophrastum volent habere quam familiarissimos. Nemo horum non vacabit nemo non venientem ad se beatiorem amantiorem sui dimittet nemo quemquam vacuis a se manibus abire patietur; nocte conveniri interdiu ab omnibus mortalibus possunt.

Soli tra tutti sono sfaccendati coloro che si dedicano alla saggezza, essi soli vivono; e infatti non solo custodiscono bene la propria vita: aggiungono ogni età alla propria; qualsiasi cosa degli anni prima di essi è stata fatta, per essi è cosa acquisita. Se non siamo persone molto ingrate, quegli illustrissimi fondatori di sacre dottrine sono nati per noi, per noi hanno preparato la vita. Siamo guidati dalla fatica altrui verso nobilissime imprese, fatte uscire fuori dalle tenebre verso la luce; non siamo vietati a nessun secolo, in tutti siamo ammessi e, se ci aggrada di venir fuori con la grandezza dell’animo dalle angustie della debolezza umana, vi è molto tempo attraverso cui potremo spaziare. Possiamo discorrere con Socrate, dubitare con Carneade, riposare con Epicuro, vincere con gli Stoici la natura dell’uomo, andarvi oltre con i Cinici. Permettendoci la natura di estenderci nella partecipazione di ogni tempo, perché non (elevarci) con tutto il nostro spirito da questo esiguo e caduco passar del tempo verso quelle cose che sono immense, eterne e in comune con i migliori? Costoro, che corrono di qua e di là per gli impegni, che non lasciano in pace se stessi e gli altri, quando sono bene impazziti, quando hanno quotidianamente peregrinato per gli usci gli tutti e non hanno trascurato nessuna porta aperta, quando hanno portato per case lontanissime il saluto interessato [del cliente verso il patrono, ricompensato in cibarie], quanto e chi hanno potuto vedere di una città tanto immensa e avvinta in varie passioni? Quanti saranno quelli di cui il sonno o la libidine o la grossolanità li respingerà! Quanti quelli che, dopo averli tormentati a lungo, li trascureranno con finta premura! Quanti eviteranno di mostrarsi per l’atrio zeppo di clienti e fuggiranno via attraverso uscite segrete delle case, come se non fosse più scortese l’inganno che il non lasciarli entrare! Quanti mezzo addormentati e imbolsiti dalla gozzoviglia del giorno precedente, a quei miseri che interrompono il proprio sonno per aspettare quello altrui, a stento sollevando le labbra emetteranno con arroganti sbadigli il nome mille volte sussurrato! Si può ben dire che indugiano in veri impegni coloro che vogliono essere ogni giorno quanto più intimi di Zenone, di Pitagora, di Democrito e degli altri sacerdoti delle buone arti, di Aristotele e di Teofrasto. Nessuno di costoro non avrà tempo, nessuno non accomiaterà chi viene a lui più felice ed affezionato a sé, nessuno permetterà che qualcuno vada via da lui a mani vuote; da tutti i mortali possono essere incontrati, di notte e di giorno.

De Consolatione, Ad Helviam, 8

Adversus ipsam commutationem locorum, detractis ceteris incommodis quae exilio adhaerent, satis hoc remedii putat Varro, doctissimus Romanorum, quod quocumque venimus eadem rerum natura utendum est; M. Brutus satis hoc putat, quod licet in exilium euntibus virtutes suas secum ferre.
Haec etiam si quis singula parum iudicat efficacia ad consolandum exulem, utraque in unum conlata fatebitur plurimum posse. Quantulum enim est quod perdimus! duo quae pulcherrima sunt quocumque nos moverimus sequentur, natura communis et propria virtus.
Id actum est, mihi crede, ab illo, quisquis formator universi fuit, sive ille deus est potens omnium, sive incorporalis ratio ingentium operum artifex, sive divinus spiritus per omnia maxima ac minima aequali intentione diffusus, sive fatum et inmutabilis causarum inter se cohaerentium series — id, inquam, actum est ut in alienum arbitrium nisi vilissima quaeque non caderent.
Quidquid optimum homini est, id extra humanam potentiam iacet, nec dari nec eripi potest. Mundus hic, quo nihil neque maius neque ornatius rerum natura genuit, animus contemplator admiratorque mundi, pars eius magnificentissima, propria nobis et perpetua et tam diu nobiscum mansura sunt quam diu ipsi manebimus.
Alacres itaque et erecti quocumque res tulerit intrepido gradu properemus, emetiamur quascumque terras: nullum inveniri exilium intra mundum est alienum homini est. Undecumque ex aequo ad caelum erigitur acies, paribus intervallis omnia divina ab omnibus humanis distant.
Proinde, dum oculi mei ab illo spectaculo cuius insatiabiles sunt non abducantur, dum mihi solem lunamque intueri liceat, dum ceteris inhaerere sideribus, dum ortus eorum occasusque et intervalla et causas investigare vel ocius meandi vel tardius, spectare tot per noctem stellas micantis et alias inmobiles, alias non in magnum spatium exeuntis sed intra suum se circumagentis vestigium, quasdam subito erumpentis, quasdam igne fuso praestringentis aciem, quasi decidant, vel longo tractu cum luce multa praetervolantis, dum cum his sim et caelestibus, qua homini fas est, inmiscear, dum animum ad cognatarum rerum conspectum tendentem in sublimi semper habeam, quantum refert mea quid calcem?

Contro il cambiamento di luogo, a prescindere dagli altri svantaggi che vi sono connessi, Varrone, il più dotto dei Romani, ritiene che rimedio sufficiente sia il fatto che dovunque noi andiamo abbiamo a che fare con la medesima natura; M. Bruto, invece, pensa che basti, per chi va in esilio, portare con sé le proprie virtù. Anche se qualcuno giudica di scarsa efficacia per un esule questi rimedi se presi singolarmente, bisogna dire che, messi insieme, essi sono efficacissimi. Quanto poco è, infatti, quello che perdiamo! Due cose ci seguono dovunque noi andiamo e sono le più belle che esistono: la natura, che è comune a tutti, e la nostra virtù personale. Questo è voluto, credimi, dal creatore dell’universo, chiunque egli sia, un Dio signore di tutte le cose o una mente incorporea artefice di opere meravigliose, o uno spirito divino uniformemente diffuso in tutte le cose, le più grandi come le più piccole, o il destino e la successione immutabile di cause connesse fra loro; questo, ripeto, è voluto perché soltanto le cose infime fossero soggette all’arbitrio altrui. Ciò che vi è di meglio nell’uomo è sottratto al potere umano e non può essere né dato né tolto. Questo universo che di tutte le creazioni della natura è la più grande e la più bella, il nostro animo che questo universo contempla e ammira e del quale è parte splendidissima, appartengono a noi per sempre e resteranno con noi tanto più a lungo quanto noi stessi più a lungo esisteremo. Perciò, di buon animo e fieri, affrettiamoci con passo fermo dovunque la sorte ci spinga. Percorriamo tutta la terra, non vi sarà nessun esilio; infatti al mondo non c’è luogo che sia straniero all’uomo. Da ogni parte, egualmente, si può volgere lo sguardo al cielo; la distanza che separa l’uomo da Dio è sempre la stessa. Per questo, purché i miei occhi non siano privati di quello spettacolo di cui sono insaziabili, purché mi sia consentito di guardare il sole e la luna, purché io possa fissare gli altri astri e studiarne il sorgere e il tramontare, le loro distanze e le cause del loro moto, ora più veloce ora più lento, e ammirare le tante stelle che brillano nella notte, alcune immobili altre che si spostano, non però nello spazio infinito ma in un’orbita che si sono tracciata, altre ancora che spuntano all’improvviso, altre che quasi abbagliano in un guizzo di fiamma e sembra che cadano o che, per un lungo tratto di cielo, passano oltre con una gran luce, purché io possa contemplare tutto questo e, per quanto sia lecito a un uomo, partecipare alla vita del cielo, purché l’animo mio che tende alle cose a lui affini sia sempre rivolto al cielo, che cosa mi importa quale terra io calpesti?

Ad Lucilium, I, 6, 13-14

13 – Concipere animo non potes quantum momenti afferri mihi singulos dies videam. ‘Mitte’ inquis ‘et nobis ista quae tam efficacia expertus es.’ Ego vero omnia in te cupio transfundere, et in hoc aliquid gaudeo discere, ut doceam; nec me ulla res delectabit, licet sit eximia et salutaris, quam mihi uni sciturus sum. Si cum hac exceptione detur sapientia, ut illam inclusam teneam nec enuntiem, reiciam: nullius boni sine socio iucunda possessio est.
14 – Mittam itaque ipsos tibi libros, et ne multum operae impendas dum passim profutura sectaris, imponam notas, ut ad ipsa protinus quae probo et miror accedas. Plus tamen tibi et viva vox et convictus quam oratio proderit; in rem praesentem venias oportet, primum quia homines amplius oculis quam auribus credunt, deinde quia longum iter est per praecepta, breve et efficax per exempla.

13 – Non puoi immaginare quali progressi io mi accorga di compiere giorno per giorno. Tu mi dici: “Riferisci anche a me questo metodo che hai trovato così efficace.” Certo desidero travasare in te tutto il mio sapere e sono lieto di imparare qualcosa appunto per insegnarla. Di nessuna nozione potrei compiacermi, per quanto straordinaria e vantaggiosa, se ne avessi conoscenza per me solo. Se mi fosse concessa la sapienza a condizione di tenerla chiusa in me senza trasmetterla ad altri, rifiuterei: non dà gioia il possesso di nessun bene, se non puoi dividerlo con altri.
14 – Ti manderò perciò i miei libri e perché tu non perda tempo a rintracciare qua e là i passi utili, li sottolineerò: così troverai subito quello che condivido e apprezzo. Più che un discorso scritto, però ti sarà utile il poter vivere e conversare insieme; al momento è necessario che tu venga, primo perché gli uomini credono di più ai loro occhi che alle loro orecchie, poi perché attraverso i precetti il cammino è lungo, mentre è breve ed efficace attraverso gli esempi.

Ad Lucilium, I, 3, 4-5-6

4 – Quidam quae tantum amicis committenda sunt obviis narrant, et in quaslibet aures quidquid illos urit exonerant; quidam rursus etiam carissimorum conscientiam reformidant et, si possent, ne sibi quidem credituri interius premunt omne secretum. Neutrum faciendum est; utrumque enim vitium est, et omnibus credere et nulli, sed alterum honestius dixerim vitium, alterum tutius.
5 – Sic utrosque reprehendas, et eos qui semper inquieti sunt, et eos qui semper quiescunt. Nam illa tumultu gaudens non est industria sed exagitatae mentis concursatio, et haec non est quies quae motum omnem molestiam iudicat, sed dissolutio et languor.
6 – Itaque hoc quod apud Pomponium legi animo mandabitur: ‘quidam adeo in latebras refugerunt ut putent in turbido esse quidquid in luce est’. Inter se ista miscenda sunt: et quiescenti agendum et agenti quiescendum est. Cum rerum natura delibera: illa dicet tibi et diem fecisse se et noctem. Vale.

4 – Alcuni raccontano ai passanti di cose che è bene riservare solo agli amici e confidano alle orecchie di chiunque le proprie preoccupazioni. D’altra parte ci sono alcuni invece che temono anche la coscienza dei più cari, e si cacciano sempre più dentro ogni segreto, riluttanti come sono a concederli persino a loro stessi. È bene stare nel mezzo. Entrambe le cose sono da evitare: sia dar fiducia a tutti, sia non darla a nessuno. Anche se il primo lo direi un vizio più onesto e il secondo più cauto.
5 – Tieniti dunque a egual distanza da entrambi, sia da quelli che sono sempre troppo inquieti, sia da quelli mai brillanti. L’operosità infatti non gode di disordine, come invece l’irrequietezza di una mente troppo vivace. Analogamente però non si tratta di quiete quando ogni movimento è considerato un fastidio, ma flemma e dissoluzione.
6 – Ti verrà affidata questa frase che ho letto sfogliando Pomponio: “Vi son quelli che tanto rifuggono sotterra che ritengono turpe tutto ciò che sta sotto il sole”. Bisogna saper confondere queste due tendenze, ed è bene che il flemmatico prenda iniziative e che chi è sempre in attività sappia apprezzare la quiete. Consigliati con la natura, ti dirà di aver creato sia il giorno sia la notte. Sta’ bene.

De Beneficiis, VI, 3 (“Io ho quel che ho donato”)

Egregie mihi videtur M. Antonius apud Rabirium poetam, cum fortunam suam transeuntem alio videat et sibi nihil relictum praeter ius mortis, id quoque, si cito occupaverit, exclamare:

“Hoc habeo, quodcumque dedi.”

O! quantum habere potuit, si voluisset! Hae sunt divitiae certae in quacumque sortis humanae levitate uno loco permansurae; quae quo maiores fuerint, hoc minorem habebunt invidiam. Quid tamquam tuo parcis? procurator es. Omnia ista, quae vos tumidos et supra humana elatos oblivisci cogunt vestrae fragilitatis, quae ferreis claustris custoditis armati, quae ex alieno sanguine rapta vestro defenditis, propter quae classes cruentaturas maria deducitis, propter quae quassatis urbes ignari, quantum telorum in aversos fortuna conparet, propter quae ruptis totiens adfinitatis, amicitiae, conlegii foederibus inter contendentes duos terrarum orbis elisus est, non sunt vestra; in depositi causa sunt iam iamque ad alium dominum spectantia; aut hostis illa aut hostilis animi successor invadet. Quaeris, quomodo illa tua facias? dona dando. Consule igitur rebus tuis et certam tibi earum atque inexpugnabilem possessionem para honestiores illas, non solum tutiores facturus. Istud, quod suspicis, quo te divitem ac potentem putas, quam diu possides, sub nomine sordido iacet: domus est, servus est, nummi sunt; cum donasti, beneficium est.

A me pare che, nel poeta Rabirio, M. Antonio, quando vede che la sua fortuna passa ormai ad altri e che a lui nulla più rimane se non la facoltà di morire ed anche questa a patto che egli la sfrutti immediatamente, dica splendidamente “io ho quello che ho donato”. Oh quanto avrebbe potuto se solo l’avesse voluto! Queste sono le ricchezze sicure, destinate a rimanere sempre allo stesso posto in qualsiasi volubilità della sorte umana; e quanto maggiori diventeranno, tanto minore invidia provocheranno. Perché risparmi, come se queste cose fossero tue? Tu ne sei solo l’amministratore. Tutte queste cose, che costringono voi, superbi e sprezzanti sopra le sorte umane, a farvi dimenticare la vostra fragilità, queste cose voi, armati, custodite in ferree cassaforti, che, arraffate dal sangue degli altri, difendete a prezzo del vostro sangue, queste cose per le quali varate flotte destinate ad insanguinare i mari, per le quali voi devastate le città senza sapere quanti colpi la fortuna prepari alle vostre spalle, queste cose per le quali, violati tante volte i legami della parentela, dell’amicizia, della società, tutto il mondo fu diviso fra due contendenti, nono sono vostre! Esee sono in conto di deposito mentre guardano da un momento all’altro ad un altro padrone: o un nemico o un erede dell’animo ostile se ne impossesserà. Tu mi chiedi come puoi rendere tue quelle cose dandole come doni. Provvedi dunque alle tue cose e di esse procurati un possesso sicuro ed inespugnabile per renderle non solo più sicure ma anche più oneste. Tutto ciò che ora ammiri, grazie al quale ti consideri ricco e potente, fin quando lo possiedi, va sotto nomi volgari: è, la casa, è lo schiavo, sono i denari; quando tutto ciò hai donato, è beneficio.

Ad Lucilium, III, 28

Seneca Lucilio suo salutem
Hoc tibi soli putas accidisse et admiraris quasi rem novam quod peregrinatione tam longa et tot locorum varietatibus non discussisti tristitiam gravitatemque mentis? Animum debes mutare, non caelum. Licet vastum traieceris mare, licet, ut ait Vergilius noster,

terraeque urbesque recedant,

sequentur te quocumque perveneris vitia. Hoc idem querenti cuidam Socrates ait, ‘quid miraris nihil tibi peregrinationes prodesse, cum te circumferas? Premit te eadem causa quae expulit’. Quid terrarum iuvare novitas potest? Quid cognitio urbium aut locorum? In irritum cedit ista iactatio. Quaeris quare te fuga ista non adiuvet? Tecum fugis. Onus animi deponendum est: non ante tibi ullus placebit locus. Talem nunc esse habitum tuum cogita qualem Vergilius noster vatis inducit iam concitatae et instigatae multumque habentis se spiritus non sui:

bacchatur vates, magnum si pectore possit
excussisse deum.

Vadis huc illuc ut excutias insidens pondus quod ipsa iactatione incommodius fit, sicut in navi onera immota minus urgent, inaequaliter convoluta citius eam partem in quam incubuere demergunt. Quidquid facis, contra te facis et motu ipso noces tibi; aegrum enim concutis. At cum istuc exemeris malum, omnis mutatio loci iucunda fiet; in ultimas expellaris terras licebit, in quolibet barbariae angulo colloceris, hospitalis tibi illa qualiscumque sedes erit. Magis quis veneris quam quo interest, et ideo nulli loco addicere debemus animum. Cum hac persuasione vivendum est: ‘non sum uni angulo natus, patria mea totus hic mundus est’. Quod si liqueret tibi, non admirareris nil adiuvari te regionum varietatibus in quas subinde priorum taedio migras; prima enim quaeque placuisset si omnem tuam crederes. Nunc peregrinaris sed erras et ageris ac locum ex loco mutas, cum illud quod quaeris, bene vivere, omni loco positum sit. Num quid tam turbidum fieri potest quam forum? Ibi quoque licet quiete vivere, si necesse sit. Sed si liceat disponere se, conspectum quoque et viciniam fori procul fugiam; nam ut loca gravia etiam firmissimam valetudinem temptant, ita bonae quoque menti necdum adhuc perfectae et convalescenti sunt aliqua parum salubria. Dissentio ab his qui in fluctus medios eunt et tumultuosam probantes vitam cotidie cum difficultatibus rerum magno animo colluctantur. Sapiens feret ista, non eliget, et malet in pace esse quam in pugna; non multum prodest vitia sua proiecisse, si cum alienis rixandum est. ‘Triginta’ inquit ‘tyranni Socraten circumsteterunt nec potuerunt animum eius infringere.’ Quid interest quot domini sint? Servitus una est; hanc qui contempsit in quanta libet turba dominantium liber est.
Tempus est desinere, sed si prius portorium solvero. ‘Initium est salutis notitia peccati.’ Egregie mihi hoc dixisse videtur Epicurus; nam qui peccare se nescit corrigi non vult; deprehendas te oportet antequam emendes. Quidam vitiis gloriantur: tu existimas aliquid de remedio cogitare qui mala sua virtutum loco numerant? Ideo quantum potes te ipse coargue, inquire in te; accusatoris primum partibus fungere, deinde iudicis, novissime deprecatoris; aliquando te offende. Vale.

Seneca saluta il suo Lucilio.
Pensi che sia capitato solo a te e ti stupisci come di un fatto inaudito, perché, pur avendo viaggiato a lungo e in tanti posti diversi, non ti sei scrollato di dosso la tua tristezza e il tuo malessere spirituale? Devi cambiare animo, non cielo. Attraversa pure il mare, lascia, come dice il nostro Virgilio, che

Scompaiano terre e città, all’orizzonte,

i tuoi vizi ti seguiranno dovunque andrai. Socrate, a un tale che si lagnava per la stessa ragione, disse: “Perché ti stupisci se viaggiare non ti serve? Porti in giro te stesso. Ti perseguitano i medesimi motivi che ti hanno fatto fuggire”. A che possono giovare nuove terre? A che la conoscenza di città e posti diversi? Tutto questo agitarsi è vano. Chiedi perché questa fuga non ti sia di aiuto? Tu fuggi con te stesso. Deponi il peso dell’anima: prima di allora non ti andrà a genio nessun luogo. Pensa che la tua condizione è simile a quella che il nostro Virgilio rappresenta nella profetessa esaltata, spronata e invasata da uno spirito non suo:

La profetessa si dimena tentando di scacciare il dio dalla sua anima.

Vai di qua e di là per scuoterti di dosso il peso che ti opprime e che diventa più gravoso proprio per questa tua agitazione; così in una nave il carico stabile grava di meno, mentre, se è sballottato qua e là in maniera diseguale, fa affondare il fianco su cui pesa. Qualunque cosa fai, si risolve in un danno per te e gli stessi continui spostamenti ti nuocciono: tu muovi un ammalato. Ma quando avrai rimosso questo male, ogni cambiamento di sede diventerà piacevole. Anche se verrai esiliato in terre lontanissime o sarai trasferito in un qualsiasi paese barbaro, quel posto, comunque sia, ti sembrerà ospitale. Conta più lo stato d’animo che il luogo dove arrivi, perciò l’animo non va reso schiavo di nessun posto. Bisogna vivere con questa convinzione: non sono nato per un solo cantuccio, la mia patria è il mondo intero. Se ti fosse chiaro questo concetto, non ti stupiresti che non ti serva a niente cambiare continuamente regione, perché sei stanco delle precedenti; ti sarebbe piaciuta già la prima, se le considerassi tutte come tue. Ora non viaggi, vai errando e ti lasci condurre e ti sposti da un luogo a un altro, mentre quello che cerchi, vivere serenamente, si trova dovunque. C’è forse un posto più turbolento del foro? Anche qui, se è necessario, si può vivere tranquilli. Ma se potessimo decidere di noi stessi, fuggirei lontano anche dalla vista e dalla vicinanza del foro; come i luoghi insalubri minano anche una salute di ferro, così per uno spirito sano, ma non ancora perfetto e vigoroso, ci sono posti malsani. Non sono d’accordo con quelli che si spingono in mezzo alle onde e prediligono una vita agitata e lottano ogni giorno animosamente con mille difficoltà. Il saggio dovrà sopportarle, non andarsele a cercare, e preferire la tranquillità alla lotta; non giova a molto essersi liberati dai propri vizi per poi combattere con quelli degli altri. “Trenta tiranni,” ribatti, “fecero pressione su Socrate, ma non poterono fiaccarne lo spirito.” Che importa quanti siano i padroni? La schiavitù è una sola; se uno la disprezza, per quanti padroni abbia, è libero.
È tempo di finire, purché prima io paghi il pedaggio. “Aver coscienza delle proprie colpe è il primo passo verso la salvezza.” A me pare che Epicuro abbia espresso un concetto molto giusto: se uno non sa di sbagliare, non vuole correggersi; devi coglierti in fallo, prima di correggerti. Certi si gloriano dei propri vizi: e tu pensi che cerchi un rimedio chi considera virtù i suoi vizi? Perciò per quanto puoi, accùsati, fa’ un esame di coscienza; assumi prima il ruolo di accusatore, poi di giudice, da ultimo quello di intercessore; e talvolta punisciti. Stammi bene.

De tranquillitate animi, 15

In hoc ita flectendi sumus, ut omnia vulgi vitia non invisa nobis, sed ridicula videantur, et Democritus nos iuvet potius quam Heraclitus: hic enim, quotiens in publicum processerat, flebat, ille ridebat; huic omnia quae agimus miseriae, illi ineptiae videbantur. Elevanda ergo ominia et facili animo ferenda sunt: humanius est deridere vitam quam deplorare, humanum quoque genus melius adiuvat qui ridet illud quam qui luget: ille aliquid sperat, hic autem stulte deflet quae corrigi posse desperat. Satius autem est publicos mores et humana vitia placide accipere nec ea ridere nec nimis flere: nam aliena mala dolere aeterna miseria est, aliena mala gaudere voluptas inhumana.

In ciò dobbiamo esser persuasi tanto che tutti i vizi della gente ci sembrino non odiosi, ma ridicoli, e che Democrito ci sia gradito piuttosto che Eraclito: questo infatti, ogni volta che compariva in pubblico, piangeva, quello rideva; a questo ogni cosa che facciamo sembrava miseria, a quello sciocchezza. Dunque bisogna alleviare e sopportare ogni cosa con animo sereno: è più conforme alla natura umana deridere la vita piuttosto che piangervi sopra, è più utile al genere umano chi lo deride di chi lo piange: quello spera in qualcosa, questo invece stoltamente piange ciò che dispera possa esser corretto. È sufficiente poi sopportare tranquillamente i costumi pubblici e gli umani vizi e non deriderli né piangere troppo: infatti dolersi per i mali altrui è una sciagura senza fine, godere dei mali altrui un piacere crudele.

Apokolokyntosis, 1

Quid actum sit in caelo ante diem tertium idus Octobris anno novo, initio saeculi felicessimi, volo memoriae tradere. Nihil nec offensae nec gratiae dabitur. Haec ita uera si quis quaesiuerit unde sciam, primum, si noluero, non respondebo. Quis coacturus est? Ego scio me liberum factum, ex quo suum diem obiit ille, qui uerum prouerbium fecerat, “Aut regem aut fatuum nasci oportere”. Si libuerit respondere, dicam quod mihi in buccam venerit. Quis umquam ab historico iuratores exegit? Tamen si necesse fuerit auctorem producere, quaerito ab eo qui Drusillam euntem in caelum vidit. Idem Claudium vidisse se dicet iter facientem “non passibus aequis”. Velit nolit, necesse est illi omnia videre, quae in caelo aguntur: Appiae viae curator est, qua scis et divum Augustum et Tiberium Caesarem ad deos isse. Hunc si interrogaveris, soli narrabit: coram pluribus nunquam verbum faciet. Nam ex quo in senatu iuravit se Drusillam vidisse caelum ascendentem et illi pro tam bono nuntio nemo credidit, quod viderit, verbis conceptis affirmavit se non indicaturum, etiam si in medio foro hominem occisum vidisset. Ab hoc ego quae tum audivi, certa clara affero, ita illum saluum et felicem habeam.

I fatti che si svolsero nei cieli il tredici ottobre dell’anno di grazia, primo di un’era di beatitudine, ecco quanto voglio tramandare alla storia. Qui non si farà posto né ai risentimenti né alle simpatie. Se per caso qualcuno domanderà come faccio a sapere le cose così precise, prima di tutto, se non mi garba, non risponderò: e chi mi può obbligare? So pure di essere diventato un uomo libero sin da quando finì i suoi giorni colui che aveva confermato la verità del proverbio: “o si nasce re o si nasce cretino”. Se mi piacerà di rispondere, dirò quello che mi viene alla bocca. Gli storici? Chi ha mai preteso da loro dei testimoni giurati? E poi, se proprio bisognerà mettere avanti la fonte, domandatelo a quello che vide Drusilla salire al cielo: lui vi dirà magari anche di aver visto fare a Claudio “trimpellando coi suoi passetti” quello stesso viaggio. Volere o no, gli tocca pure di vedere tutto quello che succede in cielo; soprintende alla via Appia, che presero, lo sai, anche Augusto e Tiberio Cesare, per andare fra gli dèi. Se lo domandi a lui, a quattr’occhi, te lo dirà: davanti a più persone non si lascerà cavare una parola: perché dal giorno che in senato giurò di avere visto Drusilla salire in cielo, e, per ringraziamento di una notizia così bella, nessuno volle credere quello che egli aveva pur visto, proclamò solennemente che non avrebbe fatto più rivelazioni neanche se avesse visto ammazzare un uomo nel mezzo del foro. Quanto seppi da lui allora, io ve lo riporto pari pari, per quanto mi è caro saperlo contento e in buona salute.

De Tranquillitate Animi, 17

1 – Est et illa sollicitudinum non mediocris materia, si te anxie componas nec ullis simpliciter ostendas, qualis multorum uita est, ficta, ostentationi parata: torquet enim assidua obseruatio sui et deprehendi aliter ac solet metuit. Nec umquam cura soluimur, ubi totiens nos aestimari putamus quotiens aspici. Nam et multa incidunt quae inuitos denudant, et, ut bene cedat tanta sui diligentia, non tamen iucunda uita aut secura est semper sub persona uiuentium.
2 – At illa quantum habet uoluptatis sincera et per se inornata simplicitas, nihil obtendens moribus suis! Subit tamen et haec uita contemptus periculum, si omnia omnibus patent: sunt enim qui fastidiant quicquid propius adierunt. Sed nec uirtuti periculum est ne admota oculis reuilescat, et satius est simplicitate contemni quam perpetua simulatione torqueri. Modum tamen rei adhibeamus: multum interest, simpliciter uiuas an neglegenter.
3 – Multum et in se recedendum est: conuersatio enim dissimilium bene composita disturbat et renouat affectus et quicquid imbecillum in animo nec percuratum est exulcerat. Miscenda tamen ista et alternanda sunt, solitudo et frequentia. Illa nobis faciet hominum desiderium, haec nostri, et erit altera alterius remedium: odium turbae sanabit solitudo, taedium solitudinis turba.
4 – Nec in eadem intentione aequaliter retinenda mens est, sed ad iocos deuocanda. Cum puerulis Socrates ludere non erubescebat, et Cato uiuo laxabat animum curis publicis fatigatum, et Scipio triumphale illud ac militare corpus mouebat ad numeros, non molliter se infringens, ut nunc mos est etiam incessu ipso ultra muliebrem mollitiam fluentibus, sed ut antiqui illi uiri solebant inter lusum ac festa tempora uirilem in modum tripudiare, non facturi detrimentum etiam si ab hostibus suis spectarentur.
5 – Danda est animis remissio: meliores acrioresque requieti surgent. Vt fertilibus agris non est imperandum (cito enim illos exhauriet numquam intermissa fecunditas), ita animorum impetus assiduus labor franget; uires recipient paulum resoluti et remissi. Nascitur ex assiduitate laborum animorum hebetatio quaedam et languor.
6 – Nec ad hoc tanta hominum cupiditas tenderet, nisi naturalem quandam uoluptatem haberet lusus iocusque. Quorum frequens usus omne animis pondus omnemque uim eripiet: nam et somnus refectioni necessarius est, hune tamen si per diem noctemque continues, mors erit. Multum interest, remittas aliquid an soluas.
7 – Legum conditores festos instituerunt dies ut ad hilaritatem homines publice cogerentur, tamquam necessarium laboribus interponentes temperamentum, et magni iudicii uiri quidam sibi menstruas certis diebus ferias dabant, quiddam nullum non diem inter otium et curas diuidebant. Qualem Pollionem Asinium oratorem magnum meminimus, quem nulla res ultra decumam detinuit: ne epistulas quidem post eam horam 1egebat, ne quid nouae curae nasceretur, sed totius diei lassitudinem duabus illis horis ponebat. Quidam medio die interiunxerunt et in postmeridianas horas aliquid leuioris operae distulerunt. Maiores quoque nostri nouam relationem post horam decumam in senatu fieri uetabant. Miles uigilias diuidit, et nox immunis est ab expeditione redeuntium.
8 – Indulgendum est animo dandumque subinde otium, quod alimenti ac uirium loco sit. Et in ambulationibus apertis uagandum, ut caelo libero et multo spiritu augeat attollatque se animus; aliquando uectatio iterque et mutata regio uigorem dabunt, conuictusque et liberalior potio. Nonnumquam et usque ad ebrietatem ueniendum, non ut mergat nos, sed ut deprimat: eluit enim curas et ab imo animum mouet et, ut morbis quibusdam, ita tristitiae medetur, Liberque non ob licentiam linguae dictus est inuentor uini, sed quia liberat seruitio curarum animum et asserit uegetatque et audaciorem in omnes conatus facit.
9 – Sed, ut libertatis, ita uini salubris moderatio est. Solonem Arcesilanque indulsisse uino eredunt; Catoni ebrietas obiecta est: facilius efficient crimen honestum quam turpem Catonem. Sed nec saepe faciendum est, ne animus malam consuetudinem ducat, et aliquando tamen in exsultationem libertatemque extrahendus tristisque sobrietas remouenda paulisper.
10 – Nam, siue graeco poetae credimus, “aliquando et insanire iucundum est”; siue Platoni, “frustra poeticas fores compos sui pepulit”; siue Aristoteli, “nullum magnum ingenium sine mixtura dementiae fuit”.
11 – Non potest grande aliquid et super ceteros loqui nisi mota mens. Cum uulgaria et solita contempsit instinctuque sacro surrexit excelsior, tunc demum aliquid cecinit grandius ore mortali. Non potest sublime quicquam et in arduo positum contingere, quamdiu apud se est: desciscat oportet a solito et efferatur et mordeat frenos et rectorem rapiat suum, eoque ferat quo per se timuisset escendere.
12 – Habes, Serene carissime, quae possint tranquillitatem tueri, quae restituere, quae subrepentibus uitiis resistant. Illud tamen scito, nihil horum satis esse ualidum rem imbecillam seruantibus, nisi intenta et assidua cura circumit animum labentem.

1 – Anche quella è materia non trascurabile di inquietudini, se tu ti affatichi a darti una posa e non ti mostri a nessuno nella tua schiettezza, così come fanno molti, la cui vita è finta e costruita per l’esibizione; infatti è fonte di tormento la continua osservazione di se stessi, e alimenta il timore di essere scoperti diversi da come si è soliti presentarsi. Né mai ci liberiamo dall’ansietà, se pensiamo di essere giudicati ogni volta che siamo guardati; infatti, da una parte accadono molte cose che contro la nostra volontà ci mettono a nudo, dall’altra, per quanto abbia successo tanta cura di sé, tuttavia non è piacevole o sicura una vita che si nasconde sempre sotto la maschera.
2 – Al contrario, quanto piacere possiede quella schiettezza sincera e di per sé priva di ornamenti, che non si serve di nulla per coprire la propria indole! Tuttavia, anche questa vita va incontro al pericolo del disprezzo, se tutto è scoperto a tutti; ci sono infatti persone che provano fastidio per tutto ciò a cui si sono potute accostare troppo da vicino. Ma per la virtù non c’è il pericolo di avvilirsi se è posta sotto gli occhi ed è meglio essere disprezzati per la schiettezza che tormentati da una continua finzione. Usiamo tuttavia misura nella cosa: c’è molta differenza tra il vivere con semplicità o con trascuratezza.
3 – Occorre sapersi ritirare molto anche in sé; infatti la frequentazione di persone dissimili turba il buon equilibrio raggiunto, rinnova le emozioni ed esaspera ciò che nell’animo è ancora debole e non pienamente guarito. Tuttavia queste condizioni vanno mescolate e alternate, la solitudine e la compagnia: quella genererà in noi nostalgia degli uomini, questa di noi stessi, e l’una sarà rimedio dell’altra; la solitudine guarirà l’insofferenza della folla, la folla la noia della solitudine.
4 – Nemmeno bisogna tenere la mente uniformemente nella stessa applicazione, ma occorre richiamarla agli svaghi. Socrate non si vergognava di giocare coi fanciulli, Catone rilassava col vino l’animo provato dalle fatiche politiche” e Scipione muoveva a tempo di musica quel corpo avvezzo ai trionfi e alle fatiche di guerra, non snervandosi in mollezze, come ora è abitudine di quanti ondeggiano persino nell’andatura superando la mollezza femminica, ma come quegli antichi uomini erano soliti tra lo svago e i giorni di festa danzare in modo virile, non andando incontro a una perdita di dignità, anche qualora venissero guardati dai loro nemici.
5 – Occorre concedere una pausa agli animi: riposati, rinasceranno migliori e più combattivi. Come non si deve essere impositivi coi campi fertili ? infatti una produttività mai interrotta li esaurirà in fretta ? cosi una fatica continua indebolirà gli slanci degli animi, e questi riacquisteranno le forze se per un po’ risparmiati e lasciati a riposo; dal protrarsi delle fatiche nascono un certo qual torpore e un infiacchimento degli animi.
6 – E a ciò non tenderebbe un tanto grande desiderio degli uomini, se lo svago e il gioco non possedessero un certo naturale piacere; però il ricorso frequente a questi toglierà ogni gravità e ogni forza dagli animi; infatti, anche il sonno è necessario a ridare forze, tuttavia qualora tu lo continui giorno e notte, diventerà la morte. C’è molta differenza tra l’allentare una tensione e dissolverla del tutto.
7 – I legislatori istituirono i giorni festivi, perché gli uomini fossero costretti pubblicamente a divertirsi, come interponendo la necessaria moderazione alle fatiche; e come ho detto alcuni grandi uomini si concedevano in determinati giorni feste mensili, alcuni non c’era giorno che non dividessero tra l’ozio e gli impegni. Tra questi ricordiamo il grande oratore Asinio Pollione che soleva non farsi trattenere da nessuna occupazione oltre l’ora decima; non leggeva nemmeno le lettere dopo quell’ora, perché non gliene derivasse una qualche nuova preoccupazione, ma si liberava della stanchezza di tutta una giornata in quelle due ore. Alcuni sogliono fare pausa a metà della giornata e rimandare alle ore pomeridiane una qualche occupazione più leggera. Anche i nostri antenati vietavano che in senato ci fosse una nuova mozione oltre l’ora decima. I soldati si dividono i turni di guardia, e la notte è libera dalla ronda per coloro che ritornano da una spedizione.
8 – Bisogna essere indulgenti con l’animo e concedergli ripetutamente il riposo che funga da alimento e forze. Bisogna fare anche passeggiate all’aperto, affinché l’animo si arricchisca e si innalzi grazie all’apertura degli orizzonti e all’abbondanza di aria pura da inspirare; talvolta un viaggio o un cammino e il cambiare luoghi e le cene e le bevute più generose daranno energia. Talvolta è opportuno arrivare anche fino all’ebbrezza, non perché ci sommerga, ma perché abbia effetto tranquillante; infatti dissolve gli affanni e muove l’animo dal profondo e come cura alcune malattie così anche la tristezza, e Libero non è detto così per la libertà di parola ma perché libera l’animo dalla schiavitù delle preoccupazioni e gli dà indipendenza e forza e lo rende più audace verso ogni impresa.
9 – Ma nella libertà come nel vino è salutare la moderazione. Si crede che Solone e Arcesilao abbiano accondisceso al vino, a Catone fu rinfacciata l’ebbrezza: chiunque gliela rinfacci, potrà rendere più facilmente onesto un vizio che turpe Catone. Ma non bisogna farlo nemmeno spesso, in modo che l’animo non prenda una cattiva abitudine, e tuttavia talvolta occorre spingerlo all’esultanza e alla libertà, e la triste sobrietà va per un po’ abbandonata.
10 – Infatti sia che diamo retta al poeta greco:” “Talvolta è piacevole anche fare follie”, sia a Platone: “Invano chi è padrone di sé bussa alla porta della poesia”, sia ad Ari stotele: “Non ci fu nessun grande ingegno senza un pizzico di follia”.
11 – non può esprimere qualcosa di grande e superiore agli altri se non una mente eccitata. Una volta che ha disprezzato le cose usuali e comuni e per divina ispirazione si è elevata più in alto, allora infine suole cantare qualcosa di più grande delle capacità umane. Non può attingere qualcosa di sublime e di elevato finché rimane in sé:” è necessario si stacchi dal consueto e scarti verso l’alto e morda i freni e trascini il suo auriga e lo conduca là dove da solo avrebbe avuto paura di salire.
12 – Tu hai, carissimo Sereno, i mezzi che possono difendere la tranquillità, che possono restituirla, che resistono ai mali striscianti; sappi tuttavia che nessuno di loro è sufficientemente efficace per coloro che salvaguardano una situazione di debolezza, a meno che una cura sollecita e assidua non circondi l’animo vacillante.

“Lo svago è necessario”

Miscenda ista sunt: solitudo et frequentia: sic erit altera alterius remedium. Nam odium turbae sanabit solitudo taedium solitudinis turbae. Nec semper in eadem intentione aequaliter retinenda est mens sed interdum ad iocos revocanda. Cum puerulis Socrates ludere non erubescebat et Cato ille cuius severi mores omnibus noti sunt vino laxabat animun curis publicis defatigatum et Scipio corpus movebat at numeros non molliter et inverecunde sed ut antiqui illi viri solebant inter lusum ac festa tempora in modum virilem tripudiare. Danda est animis remissio: ex remissione et requiete meliores acrioresque surgent.

Bisogna mescolare queste cose: la solitudine e la frequenza, uno sarà il rimedio dell’altro. Infatti la solitudine guarirà l’odio della folla, la folla la noia della solitudine. Non bisogna trattenere la mente sempre nella stessa condizione, bisogna talvolta richiamarla ai giochi. Socrate non si vergognava a giocare con i fanciulli e lo stesso Catone, di cui i severi costumi sono noti a tutti, rilassava con il vino l’animo stanco dagli impegni pubblici, Scipione muoveva a tempo di musica il corpo, non mollemente e spudoratamente, ma come quegli antichi uomini erano soliti danzare in modo virile tra lo svago e i giorni di festa. Bisogna dare agli animi riposo: dal riposo e dalla quiete sorgeranno migliori e più combattivi.