“Anche gli imperatori facevano la “pennichella””

Post cibum meridianum, ita ut vestitus calceatusque erat, paulisper Augustus conquiescebat, manum ad oculos opponens. A cena in lecticulam lucubratoriam se recipiebat. Ibi, residuum laborem aut reliqua officia conficiens, ad multam noctem permanebat. In ledum inde Cubans circiter septem horas dormiebat, ac ne continuas quidem, sed in illo temporis spatio ter aut quater surgebat. Quoniam, ut saepe evenit, interruptum somnum non recuperabat, lectores aut fabulatores arcessens, resumebat producebatque ultra primam lucem. Matutina vigilia offendebatur. Si propter officium maturius somno solvi debebat, numquam id contra commodum fecit, sed in proximo domesticorum cenáculo manebat. Sic quoque saepe, indigens somni, cum per vicos deportabatur, servos deponere lecticam iubebat ac inter moras dormiebat.

Dopo il pasto di mezzogiorno, Augusto, così com’era vestito e calzato, si riposava un po’, mettendo una mano davanti agli occhi. Si ritirava dalla cena sulla lettiga per lo studio notturno. Lì, portando a termine il lavoro residuo o altre incombenze, restava fino a tarda notte. Quindi, stendendosi sul letto, dormiva circa sette ore, ma neppure continue, anzi in quell’intervallo di tempo si alzava tre o quattro volte. Poiché, come spesso succede, non recuperava il sonno interrotto, mandando a chiamare lettori e narratori, riassumeva e produceva fin dopo l’alba. Era disturbato dalla sveglia mattutina. Se, a causa di un impegno, doveva essere svegliato prima del tempo, non lo faceva mai contro il (suo) comodo, ma restava nella più vicina stanza dei domestici. Anche così, avendo bisogno di dormire, quando era trasportato per le strade, ordinava ai servi di deporre la lettiga e dormiva nel frattempo.

Divus Iulius, 37

Confectis bellis quinquiens triumphavit, post devictum Scipionem quater eodem mense, sed interiectis diebus, et rursus semel post superatos Pompei liberos. Primum et excellentissimum triumphum egit Gallicum, sequentem Alexandrinum, deinde Ponticum, huic proximum Africanum, novissimum Hispaniensem, diverso quemque apparatu et instrumento. 2 Gallici triumphi die Velabrum praetervehens paene curru excessus est axe diffracto ascenditque Capitolium ad lumina, quadraginta elephantis dextra sinistraque lychnuchos gestantibus. Pontico triumpho inter pompae fercula trium verborum praetulit titulum VENI·VIDI·VICI non acta belli significantem sicut ceteris, sed celeriter confecti notam.

Concluse le guerre, riportò il trionfo cinque volte: quattro volte nello stesso mese, ma a qualche giorno di intervallo, dopo aver sconfitto Scipione, e una volta ancora, dopo aver superato i figli di Pompeo. Il primo, e il più bello, dei suoi trionfi fu quello Gallico, poi l’Alessandrino, quindi il Pontico, dopo l’Africano e infine lo Spagnolo, ciascuno differente per apparato e varietà di particolari. Nel giorno del trionfo sui Galli, attraversando il Velabro, per poco non fu sbalzato dal carro a causa della rottura di un assale; salì poi sul Campidoglio alla luce delle fiaccole che quaranta elefanti, a destra e a sinistra, recavano sui candelieri. Nel corso del trionfo Pontico, tra gli altri carri presenti nel corteo, fece portare davanti a sé un cartello con queste tre parole: “Venni, vidi, vinsi”, volendo indicare non tanto le imprese della guerra, come aveva fatto per le altre, quanto la rapidità con cui era stata conclusa.

“Il dado è tratto”

Cum Caesar cum cohortibus ad Rubiconem flumen, quod Galliae Cisalpinaefinis erat, advenisset, paulum constitit. Nam, cum ponticulum suas copias traducturus esset, proximis dixit: “Si vero ponticulum transcensuri erimus, bellum civile exardescet”. Dum alia dicturus est, prodigium apparuit, quod omen faustum putatum est. Tum caesar dixit: “Age, alea iacta est!”. Cum haec verba dixisset, Rubiconem flumen trascendit.

Dopo che Cesare fu giunto con le sue coorti presso il fiume Rubicone, che era il confine della Gallia Cisalpina, si fermò un po’. Infatti, essendo sul punto di trasportare le sue truppe al di là del ponticello, disse ai più vicini: “Se attraverseremo il ponticello, scoppierà la guerra civile”. Mentre stava dicendo altre cose, apparve un presagio che fu considerato di buon augurio. Allora Cesare disse: “Orsù, il dado è tratto”. Dopo aver pronunciato queste parole, oltrepassò il fiume Rubicone.

“L’incendio di Roma”

Nero quasi offensus deformitate veterum aedificorum etangustiis flexurisque vicorum, incendit urbem tam palam, ut plerique consulares cubicularios eius cum stuppa taedaque in praediis suis deprehensos non attigerint, et quaedam horrea circum domum Auream, quorum spatium maxime desiderabat, ut bellicis machinis labefacta atque inflammata sint quod saxeo muro constructa erant. Per sex dies septemque noctes ea clade saevitum est ad monumentorum bustorumque deversoria plebe compulsa. Tunc praeter immensum numerum insularum domus priscorum ducum arserunt hostilibus adhuc spoliis adornatae deorumque aedes ab regibus ac deinde Punicis et Gallicis bellis votae dedicataeque, et quidquid visendum atque memorabile ex antiquitate duraverat. Hoc incendium e turre Maecenantina prospectans laetusque “flammae”, ut aiebat, “pulchritudine” Halosin Ilii in illo suo scaenico habitu decantavit.

Nerone con il pretesto che era disgustato dalla bruttezza degli antichi edifici e dalla strettezza e sinuosità delle strade, incendiò Roma e lo fece così apertamente che molti ex consoli, avendo sorpreso nei loro possedimenti alcuni suoi servi di camera con stoppa e torce tra le mani, non osarono toccarli, mentre alcuni magazzini di grano, che occupavano presso la “Casa dorata” un terreno da lui ardentemente desiderato, furono abbattuti con macchine da guerra e incendiati perché erano stati costruiti con muri di pietra. Il fuoco divampò per sei giorni e sette notti, obbligando la plebe a cercare alloggio nei monumenti pubblici e nelle tombe. Allora, oltre ad un incalcolabile numero di agglomerati di case, il fuoco divorò le abitazioni dei generali di un tempo, ancora adornate delle spoglie dei nemici, i templi degli dei che erano stati votati e consacrati sia al tempo dei re, sia durante le guerre puniche e galliche e infine tutti i monumenti curiosi e memorabili che restavano del passato. Nerone contemplò questo incendio dall’alto della torre di Mecenate e affascinato, come diceva, dalla “bellezza della fiamma”, cantò la a Presa di Troia, indossando il suo vestito da teatro.

Divus Claudius, 2

Claudius natus est Iullo Antonio Fabio Africano conss. Kal. Aug. Luguduni eo ipso die quo primum ara ibi Augusto dedicata est, appellatusque Tiberius Claudius Drusus. Mox fratre maiore in Iuliam familiam adoptato Germanici cognomen assumpsit. Infans autem relictus a patre ac per omne fere pueritiae atque adulescentiae tempus variis et tenacibus morbis conflictatus est, adeo ut animo simul et corpore hebetato ne progressa quidem aetate ulli publico privatoque muneri habilis existimaretur. Diu atque etiam post tutelam receptam alieni arbitrii et sub paedagogo fuit; quem barbarum et olim superiumentarium ex industria sibi appositum, ut se quibuscumque de causis quam saevissime coerceret, ipse quodam libello conqueritur. Ob hanc eandem valitudinem et gladiatorio munere, quod simul cum fratre memoriae patris edebat, palliolatus novo more praesedit; et togae virilis die circa mediam noctem sine sollemni officio lectica in Capitolium latus est.

Claudio nacque durante il consolato di Giulio Antonio e Fabio Africano, a Lione, il primo agosto nello stesso giorno in cui vi si consacrò per la prima volta un altare ad Augusto, e fu chiamato Tiberio Claudio Druso. In seguito, quando suo fratello maggiore entrò a titolo di adozione nella famiglia Giulia, prese il soprannome di Germanico. Perse il padre quando era ancora bambino e per quasi tutta la fanciullezza e l’adolescenza fu tormentato da diverse malattie persistenti, tanto che, debole di spirito come di corpo, lo si giudicò inabile, anche in un’età più avanzata, a tutte le funzioni pubbliche e private. Per parecchio tempo, anche dopo che fu uscito di tutela, rimase sotto il controllo degli altri e sotto la direzione di un precettore: lui stesso, nelle sue memorie, lamenta che quest’uomo, un barbaro a suo tempo sovraintendente di mandrie, gli era stato imposto per castigarlo il più severamente possibile, con il più futile pretesto. Sempre a causa della sua salute, presiedette un combattimento di gladiatori, che aveva organizzato unitamente al fratello in ricordo del padre, con un cappuccio in testa, cosa contraria ad ogni tradizione; e quando prese la toga virile, verso la mezzanotte fu portato in lettiga al Campidoglio, senza nessuna solennità.

“Avidità di Giulio Cesare”

Abstinentiam neque in imperiis neque in magistratibus praestitit. Ut enim quidam monumentis suis testati sunt, in Hispania pro consule et a sociis pecunias accepit emendicatas in auxilium aeris alieni et Lusitanorum quaedam oppida, quanquam nec imperata detrectarent et aduenienti portas patefacerent, diripuit hostiliter. In Gallia fana templaque deum donis referta expilauit, urbes diruit saepius ob praedam quam ob delictum; unde factum, ut auro abundaret ternisque milibus nummum in libras promercale per Italiam prouinciasque diuenderet. In primo consulatu tria milia pondo auri furatus e Capitolio tantundem inaurati aeris reposuit. Societates ac regna pretio dedit, ut qui uni Ptolemaeo prope sex milia talentorum suo Pompeique nomine abstulerit. Postea uero euidentissimis rapinis ac sacrilegis et onera bellorum ciuilium et triumphorum ac munerum sustinuit impendia.

Secondo quanto affermano alcuni autori nei loro scritti, quando era proconsole in Spagna, non si fece riguardo di prendere denaro dai suoi alleati, dopo averlo mendicato, per pagare i suoi debiti, e distrusse, come nemiche, alcune città dei Lusitani, sebbene non si fossero rifiutate di versare i contributi imposti e gli avessero aperto le porte al suo arrivo. In Gallia spogliò le cappelle e i templi degli dei, piene di offerte votive e distrusse città più spesso per far bottino che per rappresaglia. In tal modo arrivò ad essere così pieno d’oro da farlo vendere in Italia e nelle province a tremila sesterzi la libbra. Durante il suo primo consolato sottrasse dal Campidoglio tremila libbre d’oro e le rimpiazzò con un peso uguale di bronzo dorato. Concesse alleanze e regni, dietro versamento di denaro, e al solo Tolomeo estorse, a nome suo e di Pompeo, circa seimila talenti. È chiaro quindi che grazie a queste evidenti rapine e a questi sacrilegi poté sostenere sia gli oneri delle guerre civili, sia le spese dei trionfi e degli spettacoli.

Divus Claudius, 34

Saevum et sanguinarium natura fuisse, magnis minimisque apparuit rebus.Tormenta quaestionum poenasque parricidarum repraesentabat exigebatque coram. Cum spectare antiqui moris supplicium Tiburi concupisset et deligatis ad palum noxiis carnifex deesset, accitum ab urbe vesperam usque opperiri perseveravit. Qvocumque gladiatorio munere, vel suo vel alieno, etiam forte prolapsos iugulari iubebat, maxime retiarios, ut expirantium facies videret. Cum par quoddam mutuis ictibus concidisset, cultellos sibi paruulos ex utroque ferro in usum fieri sine mora iussit. Bestiaris meridianisque adeo delectabatur, ut et prima luce ad spectaculum descenderet et meridie dimisso ad prandium populo persederet praeterque destinatos etiam levi subitaque de causa quosdam committeret, de fabrorum quoque ac ministrorum atque id genus numero, si automatum vel pegma vel quid tale aliud parum cessisset. Induxit et unum ex nomenculatoribus suis, sic ut erat togatus.

Per natura fu crudele e sanguinario, e ciò lo si vide sia nelle grandi, sia nelle piccole cose. Sottoponeva a tortura e puniva i parricidi senza nessun indugio e sotto i suoi occhi. Un giorno che desiderava assistere a Tivoli ad un supplizio di vecchio tipo, poiché il boia non arrivava, mentre il condannato era già legato al palo, ne fece venire uno da Roma e lo attese pazientemente fino a sera. In tutti i combattimenti di gladiatori, dati da lui o da qualcun altro, fece sgozzare anche quelli che cadevano casualmente, soprattutto i reziari, per osservare i loro volti quando spiravano. Una volta che due gladiatori si erano reciprocamente colpiti a morte, ordinò immediatamente di fabbricargli con le loro armi due piccoli coltelli per uso personale. Le lotte dei bestiari e quelle del mezzogiorno gli piacevano talmente che non solo si recava allo spettacolo all’alba, ma restava al suo posto anche a mezzogiorno, quando il popolo usciva per andare a mangiare, e, oltre ai gladiatori già stabiliti, costringeva a combattere, anche per un futile motivo, perfino gli operai, gli addetti al circo o le persone di questa categoria, quando un meccanismo, o un tavolato o un qualsiasi altro congegno non aveva funzionato a dovere. Fece scendere nell’arena anche uno dei suoi nomenclatori, così come si trovava, con la toga indosso.

Divus Iulius, 4

Ceterum composita seditione civili Cornelium Dolabellam consularem et triumphalem repetundarum postulavit; absolutoque Rhodum secedere statuit, et ad declinandam invidiam et ut per otium ac requiem Apollonio Moloni clarissimo tunc dicendi magistro operam daret. Huc dum hibernis iam mensibus traicit, circa Pharmacussam insulam a praedonibus captus est mansitque apud eos non sine summa indignatione prope quadraginta dies cum uno medico et cubicularis duobus. Nam comites servosque ceteros initio statim ad expediendas pecunias, quibus redimeretur, dimiserat. Numeratis deinde quinquaginta talentis expositus in litore non distulit quin e vestigio classe deducta persequeretur abeuntis ac redactos in potestatem supplicio, quod saepe illis minatus inter iocum fuerat, adficeret. Vastante regiones proximas Mithridate, ne desidere in discrimine sociorum videretur, ab Rhodo, quo pertenderat, transiit in Asiam auxiliisque contractis et praefecto regis provincia expulso nutantis ac dubias civitates retinuit in fide.

Quando la discordia civile fu domata, Cesare incriminò per concussione Cornelio Dolabella, un ex console che aveva meritato il trionfo. Poiché l’imputato era stato assolto, decise di andarsene a Rodi, un po’ per sottrarsi ad eventuali vendette, un po’ per seguire durante quel periodo di inattività e di riposo, le lezioni di Apollonio Molone, a quel tempo il più celebre maestro di oratoria. Durante la navigazione verso Rodi, avvenuta nella stagione invernale, fu fatto prigioniero dai pirati presso l’isola di Farmacusa, e rimase con loro, non senza la più viva indignazione, per circa quaranta giorni, in compagnia di un medico e di due schiavi. I compagni di viaggio, infatti, e tutti gli altri servi erano stati inviati immediatamente a Roma per raccogliere i soldi del riscatto. Quando furono pagati i cinquanta talenti stabiliti, venne sbarcato su una spiaggia e allora, senza perdere tempo, assoldò una flotta e si lanciò all’inseguimento dei pirati: li catturò e li condannò a quel supplizio che spesso aveva minacciato loro per scherzo. Mitridate, intanto, devastava le regioni vicine al suo regno e Cesare, per non apparire inattivo, mentre altri si trovavano in difficoltà, da Rodi, dove era giunto, passò in Asia con un certo numero di truppe che aveva raccolto, scacciò dalla provincia il luogotenente del re e ridiede fiducia alle popolazioni incerte e dubbiose.

Divus Iulius, 54 (“Avidità di Giulio Cesare”)

Abstinentiam neque in imperiis neque in magistratibus praestitit. Ut enim quidam monumentis suis testati sunt, in Hispania pro consule et a sociis pecunias accepit emendicatas in auxilium aeris alieni et Lusitanorum quaedam oppida, quanquam nec imperata detrectarent et advenienti portas patefacerent, diripuit hostiliter. In Gallia fana templaque deum donis referta expilavit, urbes diruit saepius ob praedam quam ob delictum; unde factum, ut auro abundaret ternisque milibus nummum in libras promercale per Italiam provinciasque divenderet. In primo consulatu tria milia pondo auri furatus e Capitolio tantundem inaurati aeris reposuit. Societates ac regna pretio dedit, ut qui uni Ptolemaeo prope sex milia talentorum suo Pompeique nomine abstulerit. Postea vero evidentissimis rapinis ac sacrilegis et onera bellorum civilium et triumphorum ac munerum sustinuit impendia.

Non mostrò moderazione né durante il comando né durante le magistrature. Come infatti alcuni hanno dichiarato nei loro documenti, in Spagna prese dagli alleati denaro in aiuto per i debiti contratti e per desiderio di preda distrusse con ostilità alcune città fortificate dei Lusitani benché esse non si rifiutassero ai suoi ordini e avessero aperto le porte a lui che arrivava. In Gallia saccheggiò santuari e templi pieni di doni per il Dio, distrusse città, più spesso per bramosia di preda che per colpa dei nemici. Da qui consegue il fatto che abbondasse d’oro che mise in vendita, in Italia e nelle province, a tremila sesterzi la libbra. Nel primo consolato, rubò dal Campidoglio tremila libbre d’oro ed altrettaante ve ne rimise di bronzo dorato. Vendette per denaro alleanze e regni e per uno a Tolomeo, re degli Egizi, portò via quasi seimila talenti. Dopo in verità sostenne con evidentissime rapine e sacrilegi gli oneri delle guerre civili e le spese dei trionfi.

Divus Vespasianus, 1 (“Origini della Gens Flavia”)

Rebellione trium principum et caede incertum diu et quasi vagum imperium suscepit firmavitque tandem gens Flavia, obscura illa quidem ac sine ullis maiorum imaginibus, sed tamen rei p. Nequaquam paenitenda; constet licet, Domitianum cupiditatis ac saevitiae merito poenas luisse. T. Flavius Petro, municeps Reatinus, bello civili Pompeianarum partium centurio an evocatus, profugit ex Pharsalica, acie domumque se contulit, ubi deinde venia et missione impetrata coactiones argentarias factitavit. Huius filium, cognomine Sabinus, expers militiae (etsi quidem eum primipilarem, nonnulli, cum adhuc ordiens duceret, sacramento solutum per causam valitudinis tradunt) publicum quadragesimae in Asia egit; manebantque imagines a civitatibus ei positae sub hoc titulo: kalos telonesanti. Postea faenus apud Helvetios exercuit ibique diem obiit superstitibus uxore Vespasia Polla et duobus ex ea liberis, quorum maior Sabinus ad praefecturam urbis, minor Vespasianus ad principatum usque processit. Polla, Nursiae honesto genere orta, patrem habuit Vespasium Pollionem, ter tribunum militum praefectumque castrorum, fratrem senatorem praetoriae dignitatis. Locus etiam ad sextum miliarium a Nursia Spoletium euntibus in monte summo appellatur Vespasiae, ubi Vespasiorum complura monumenta exstant, magnum indicium splendoris familiae et vetustatis. Non negaverim iactatum a quibusdam Petronis patrem e regione Transpadana fuisse mancipem operarum, quae ex Umbria in Sabinos ad culturam agrorum quotannis commeare soleant; subsedisse autem in oppido Reatino, uxore ibidem ducta. Ipse ne vestigium quidem de hoc, quamvis satis curiose inquirerem, inveni.

L’Impero, reso a lungo instabile e quasi vacillante dalla rivolta e dalla morte di tre principi, fu alla fine raccolto e consolidato dalla famiglia Flavia, che fu senza dubbio oscura e senza antenati degni di rilievo, ma di cui, ad ogni modo, lo Stato non ebbe mai motivo di rammaricarsi, anche se è noto che Domiziano pagò giustamente il fio della sua cupidigia e della sua crudeltà. T. Flavio Petrone, originario del municipio di Rieti, centurione o richiamato dell’armata di Pompeo durante la guerra civile, dopo la battaglia di Farsalo se ne fuggì e si ritirò nel suo paese dove, più tardi, ottenuto il perdono e il congedo, esercitò la professione di cassiere delle vendite all’asta. Suo figlio, soprannominato Sabino, estraneo al mestiere militare (anche se alcuni dicono che era primipilo ed altri che fu esentato dal servizio per ragioni di salute quando era ancora comandante di centuria), fu esattore dell’imposta del quarantesimo in Asia; erano rimaste perfino alcune statue che le città gli avevano eretto con questa iscrizione: “All’esattore onesto.” Praticò poi il mestiere dell’usuraio presso gli Elvezi, dove morì lasciando una vedova, Vespasia Polla, e i due figli che ne aveva avuto; il maggiore, Sabino, arrivò ad essere prefetto di Roma, il minore, Vespasiano, giunse fino alla conquista del potere. Polla, nata da un’ottima famiglia di Norcia, ebbe per padre Vespasio Pollione, che fu tre volte tribuno dei soldati e poi prefetto dell’accampamento, e per fratello un senatore dell’ordine pretorio. Ancora si trova a sei miglia da Norcia, lungo la strada per Spoleto, una località in cima ad una collina chiamata Vespasia, dove restano numerosi monumenti dei Vespasi, autorevole testimonianza della grandezza e dell’antichità di questa famiglia. Alcuni hanno detto, ed io non posso contestarlo, che il padre di Petrone reclutava i braccianti che tutti gli anni si portavano dall’Umbria nel paese dei Sabini per coltivarvi la terra e che si stabilì a Rieti dove pure si era sposato. Personalmente, nonostante le minuziose ricerche fatte, non ho trovato traccia della cosa.

Divus Iulius, 31

Cum ergo sublatam tribunorum intercessionem ipsosque urbe cessisse nuntiatum esset, praemissis confestim clam cohortibus, ne qua suspicio moveretur, et spectaculo publico per dissimulationem interfuit et formam, qua ludum gladiatorium erat aedificaturus, consideravit et ex consuetudine convivio se frequenti dedit. Dein post solis occasum mulis e proximo pistrino ad vehiculum iunctis occultissimum iter modico comitatu ingressus est; et cum luminibus extinctis decessisset via, diu errabundus tandem ad lucem duce reperto per angustissimos tramites pedibus evasit. Consecutusque cohortis ad Rubiconem flumen, qui provinciae eius finis erat, paulum constitit, ac reputans quantum moliretur, conversus ad proximos: ‘etiam nunc,’ inquit, ‘regredi possumus; quod si ponticulum transierimus, omnia armis agenda erunt’.

Quando dunque gli fu riferito che non si era tenuto conto dell’opposizione dei tribuni e che questi avevano abbandonato Roma, subito fece andare avanti segretamente alcune coorti, per non destare sospetti. Poi, con lo scopo di trarre in inganno, si fece vedere ad uno spettacolo pubblico, esaminò i progetti di una scuola di gladiatori che aveva intenzione di costruire e, secondo le sue abitudini, pranzò in numerosa compagnia. Dopo il tramonto del sole, aggiogati ad un carro i muli di un vicino mulino, partì in gran segreto, con un’esile scorta. Quando le fiaccole si spensero, smarrì la strada e vagò a lungo, finché all’alba, trovata una guida, raggiunse a piedi la meta, attraverso sentieri strettissimi. Raggiunte le coorti presso il fiume Rubicone, che era il confine della nostra provincia, rimase fermo alcuni istanti, riflettendo su quanto facesse, e poi, rivoltosi ai soldati vicini, disse: “Possiamo tornare indietro anche subito; infatti se attraversiamo il ponticello ogni cosa dovrà essere portata a termine con le armi”.

Divus Augustus, 43

Spectaculorum et assiduitate et varietate et magnificentia omnes antecessit. Fecisse se ludos ait suo nomine quater, pro aliis magistratibus, qui aut abessent aut non sufficerent, ter et vicies. Fecitque nonnumquam etiam vicatim ac pluribus scaenis per omnium linguarum histriones, munera non in Foro modo, nec in amphitheatro, sed et in Circo et in Saeptis, et aliquando nihil praeter venationem edidit; athletas quoque exstructis in campo Martio sedilibus ligneis; item navale proelium circa Tiberim cavato solo, in quo nunc Caesarum nemus est. Quibus diebus custodes in urbe disposuit, ne raritate remanentium grassatoribus obnoxia esset. In Circo aurigas cursoresque et confectores ferarum, et nonnumquam ex nobilissima iuventute, produxit. Sed et Troiae lusum edidit frequentissime maiorum minorumque puerorum, prisci decorique moris existimans clarae stirpis indolem sic notescere. In hoc ludicro Nonium Asprenatem lapsu debilitatum aureo torque donavit passusque est ipsum posterosque Torquati ferre cognomen. Mox finem fecit talia edendi Asinio Pollione oratore graviter invidioseque in curia questo Aesernini nepotis sui casum, qui et ipse crus fregerat. Ad scaenicas quoque et gladiatorias operas et equitibus Romanis aliquando usus est, verum prius quam senatus consulto interdiceretur. Postea nihil sane praeterquam adulescentulum Lycium honeste natum exhibuit, tantum ut ostenderet, quod erat bipedali minor, librarum septemdecim ac vocis immensae. Quodam autem muneris die Parthorum obsides tunc primum missos per mediam harenam ad spectaculum induxit superque se subsellio secundo collocavit. Solebat etiam citra spectaculorum dies, si quando quid invisitatum dignumque cognitu advectum esset, id extra ordinem quolibet loco publicare, ut rhinocerotem apud Saepta, tigrim in scaena, anguem quin quaginta cubitorum pro Comitio. Accidit votivis circensibus, ut correptus valitudine lectica cubans tensas deduceret; rursus commissione ludorum, quibus theatrum Marcelli dedicabat, evenit ut laxatis sellae curulis compagibus caderet supinus. Nepotum quoque suorum munere cum consternatum ruinae metu populum retinere et confirmare nullo modo posset, transiit e loco suo atque in ea parte consedit, quae suspecta maxime erat.

Per numero, varietà e magnificenza di spettacoli superò tutti i suoi predecessori. Egli stesso dice che, a suo nome, celebrò giochi pubblici quattro volte e ventitré volte per altri magistrati che erano assenti o mancavano di mezzi. Qualche volta ne celebrò anche nei differenti quartieri, con numerose scene, servendosi di attori che parlavano tutte le lingue; diede spettacoli non solo nel foro e nell’anfiteatro, ma anche nel circo e nei recinti per le elezioni e talvolta si trattava soltanto di battute di caccia; organizzò anche incontri di lotta fra atleti nel Campo di Marte, dove furono disposte panche di legno, e una battaglia navale, per la quale fece scavare il terreno nei pressi del Tevere, dove ora si trova il bosco dei Cesari. Durante i giorni degli spettacoli istituì un servizio di guardia in città, perché non divenisse preda dei briganti dato l’esiguo numero di coloro che vi erano rimasti. Fece esibire nel circo aurighi, corridori e bestiari, reclutati tal volta tra i giovani della migliore nobiltà. Inoltre organizzò spesso i giochi troiani tra ragazzi di età differente, perché pensava che era una nobile usanza antica mettere così in luce il valore di una stirpe illustre. Poiché in queste gare Nonio Asprenate si era infortunato per una caduta durante la corsa, gli regalò una collana d’oro, autorizzandolo a portare, lui e i suoi discendenti, il nome di Torquato. Più tardi però pose fine a queste manifestazioni, perché l’oratore Asinio Pollione, con viva amarezza, si era lamentato davanti al Senato per il caso di suo nipote Esernino, che si era rotto le gambe. Qualche volta fece partecipare alle rappresentazioni teatrali e ai combattimenti gladiatorii anche i cavalieri romani, finché un decreto del Senato non lo vietò. In seguito non presentò più nessuno, ad eccezione di un ragazzo molto giovane, un certo Licio, di buona famiglia, e solo perché era alto meno di due piedi, pesava diciassette libbre e possedeva una voce formidabile. In un giorno di rappresentazione condusse allo spettacolo alcuni ostaggi parti, i primi che fossero inviati a Roma, li fece passare in mezzo all’arena, e li sistemò in seconda fila, sopra di sé. Aveva preso l’abitudine nei giorni che precedevano gli spettacoli, se per caso era stato portato a Roma qualche animale curioso che meritava di essere visto, di presentarlo al popolo a titolo straordinario, in un luogo qualsiasi: per esempio un rinoceronte presso i recinti delle elezioni, una tigre su una scena, un serpente di cinquanta cubiti davanti alla piazza dei comizi. Durante alcuni giochi votivi celebrati nel circo, una improvvisa indisposizione lo costrinse a restare sdraiato nella sua lettiga per aprire la sfilata dei carri sacri. Un’altra volta, all’inaugurazione dei giochi per la consacrazione del Teatro di Marcello le connessure della sua sedia curule si allentarono ed egli cadde supino. Inoltre, durante uno spettacolo organizzato dai suoi nipoti, quando si accorse che il popolo era spaventato dal timore di un crollo e non si poteva né trattenerlo né rassicurarlo, si alzò dal suo posto e andò a sedersi proprio in quella parte che più era esposta alla minaccia.

“Un indecoroso modo di diventare imperatore”

Post Caligulae necem, Claudius eius patruus, quinquagesimum annum agens, imperium cepit mirabili casu. Nam, ab insidiatoribus Caligulae neglectus, cum illi turbam propinquorum et servorum submoverent, ille in diaetma, cui nomen est Hermaeum, recessertat. Neque multo post, rumore caedis exterritus, prorepsit ad solarium proximum et inter praetenta foribus vela se abdidit. Qui, cum lateret, forte graegarius miles, animadversis pedibus, eum agnovit, extractumque et prae metu ad genua procumbentem, imperatorem salutavit. Hinc ad alios commilitones fluctuantes et frementes eum perduxit. Ab his lecticae impositus, in castra delatus est, tristis ac trepidus, miserante obvia turba, quasi ad poenam ferretur insons. Receptus intra vallum, inter excubias militum pernoctavit, magis timens quam sperans. Verum postero die, multitudine unum rectorem rei publicae exposcente, ad omnibus imperator salutatus est.

Dopo l’uccisione di Caligola, Claudio suo cognato, cinquantenne, divenne imperatore per uno strano caso. Infatti, trascurato dai dissidenti di Caligola, avendo quelli portato via il numero dei congiunti e dei servi di questo, egli s’era nascosto in una sala di nome Ermeo. Non molto dopo, spaventato dal rumore della porta, prosegui’ verso il vicino solarium e si mise dietro alle tende tese davanti all’ ingresso. Qui, essendosi tenuto nascosto ancora, un soldato gregario, vistine i piedi, non lo riconobbe, e lo saluto’ imperatore, tiratolo fuori ed inginocchiatosi per il timore. Poi lo condusse dagli altri soldati, esitanti e frementi. Posto dai suoi sulla lettiga, fu portato nell’ accampamento, triste e trepidante, mentre la folla che incontravano lo commiserava, quasi stesse per essere giustiziato pur essendo innocente. Ricevuto entro il vallo, pernotto’ tra le tende dei soldati, temendo piu’ che sperando. Invero all’ indomani, reclamando il popolo una guida per lo Stato, fu salutato da tutti imperatore.