“Audacia di Scipione l’Africano”

Publio et Gnaeo Scipionibus in Hispania cum maiore parte exercitus acie Punica oppressis omnibusque provinciae eius nationibus Karthaginiensium amicitiam secutis, nullo ducum nostrorum illuc ad corrigendam rem proficisci audente, P. Scipio quartum et vicesimum agens annum iturum se pollicitus est. Qua quidem fiducia populo Romano salutis ac victoriae spem dedit. Eademque in ipsa Hispania usus est: nam cum oppidum Badiam circumsederet, tribunal suum adeuntis in aedem, quae intra moenia hostium erat, vadimonia in posterum diem facere iussit continuoque urbe potitus et tempore et loco, quo praedixerat, sella posita ius eis dixit. Nihil hac fiducia generosius, nihil praedictione verius, nihil celeritate efficacius, nihil etiam dignitate dignius.

Essendo Publio e Gneo Scipione con la maggiore parte del loro esercito uccisi in Spagna dall’esercito d’Africa, e seguitando tutte le nazioni di quella provincia alleati dei Cartaginesi, nessuno dei nostri duchi avendo ardire di andare lì per correggere la cosa, Scipione avendo 24 anni si offrì ad andarvi, per la qual fiducia di sé, diede certa speranza al popolo di Roma di salute e di vittoria. E quella medesima fiducia di sé usò in Spagna: infatti assediò un castello detto Badia, comandò che coloro che venivano per domandare ragione alla sua sede giudiziaria, che era tra i muri del castello dei nemici, avrebbero dovuto dare impegno a comparire in giudizio il giorno seguente. E immediatamente avuta la terra, al tempo e al luogo che egli aveva detto, posta la sedia, diede ragione a loro. Nessuna cosa fu più nobile di questa fiducia: nessuna cosa fu più vera di questa predizione, nessuna cosa fu più efficace che quella prontezza, nessuna ancora più degna che quella dignità.

Factorum Et Dictorum Memorabilium, VI, 7 (“Esempi di mogli fedeli”)

Atque ut uxoriam quoque fidem attingamus, Tertia Aemilia, Africani prioris uxor, mater Corneliae Gracchorum, tantae fuit comitatis et patientiae, ut, cum sciret uiro suo ancillulam ex suis gratam esse, dissimulauerit, ne domitorem orbis Africanum femina ~ magnum uirum inpatientiae reum ageret, tantumque a uindicta mens eius afuit, ut post mortem Africani manu missam ancillam in matrimonium liberto suo daret. Q. Lucretium proscriptum a triumuiris uxor Turia inter cameram et tectum cubiculi abditum una conscia ancillula ab inminente exitio non sine magno periculo suo tutum praestitit singularique fide id egit, ut, cum ceteri proscripti in alienis et hostilibus regionibus per summos corporis et animi cruciatus uix euaderent, ille in cubiculo et in coniugis sinu salutem retineret. Sulpicia autem, cum a matre Iulia diligentissime custodiretur, ne Lentulum Cruscellionem, uirum suum proscriptum a triumuiris in Siciliam persequeretur, nihilo minus famulari ueste sumpta cum duabus ancillis totidemque seruis ad eum clandestina fuga peruenit nec recusauit se ipsam proscribere, ut ei fides sua in coniuge proscripto constaret.

E, affinché citiamo anche la lealtà di una moglie, Terzia Emilia, Terzia Emilia, moglie del primo Africano e madre della Cornelia dei Gracchi, fu così gentile e paziente che, pur sapendo della simpatia nutrita da suo marito per una giovane ancella, fece finta di nulla, ad evitare che una donna accusasse il trionfatore del mondo intero e che la sua incapacità di sopportare facesse chiamare in giudizio un grand’uomo come lui; e il suo animo fu tanto lontano dal nutrire sentimenti di vendetta che, liberatala dopo la morte di suo marito, la diede in isposa ad un suo liberto. Quinto Lucrezio, che era stato proscritto dai triumviri, fu salvato con grave rischio dair imminente pericolo di vita sulla soffitta della camera da letto da sua moglie Turia con la complicità di una sola ancella, e ciò Turia fece con una fedeltà tale che, mentre gli altri proscritti riuscivano a stento a salvarsi in regioni estranee ed ostili a prezzo di gravi sofferenze fisiche e morali, egli ebbe salva la vita in una camera da letto e sul seno della moglie. E Sulpicia, pur sorvegliata assai attentamente da sua madre Giulia perché non seguisse in Sicilia suo marito Lentulo Cruscellione, ch’era stato proscritto dai triumviri, nondimeno, indossato un abito servile e in compagnia di due ancelle e altrettanti servi, fuggì clandestinamente e lo raggiunse, non rifiutando di proscrivere sé stessa per essere coerentemente fedele al marito pur proscritto.

“Un presagio mostra ai Romani il modo per conquistare Veio”

Cum bello acri et diutino Veientes, a Romanis intra moenia compulsi, capi non possent, ea mora non minus obsidentibus quam obsessis intolerabilis videbatur. Tum vero mirum prodigium factum est, quo di immortales iter ad victoriam ostendere visi sunt. Subito enim Albus lacus, neque caelestibus aucuts imbribus neque inundatione ullius amnis aditus, solitum stagni modum excessit. Cuis rei explorandae gratia Romanis visum est legatos ad Delphicum oraculum mittere, qui rettulerunt praecipi sortibus ut aquam eius lacus emissam per agros diffunderent: sic enim Veios venturos in potestatem populi Romani. At priusquam legati id renuntiarent, aruspex Veientium, a milite nostro raptus et in castra perlatus, eadem praedixerat. Ergo senatus, duplici praedictione monitus, eodem paene tempore et religioni paruit et hostium urbe potitus est.

Poichè i Veienti, costretti dai Romani all’interno delle loro mura, non potevano essere catturati pur con aspra e lunga guerra, quello stillicidio iniziò a sembrare insopportabile agli assediati non meno che agli assedianti. Ed ecco apparire uno straordinario prodigio, col quale sembrò che gli dèi immortali stessero mostrando il cammino verso la vittoria. D’un tratto infatti il lago Albano, senza essere ingrossato dalle piogge né accresciuto dalla piena di alcun fiume, oltrepassò il consueto livello delle acque. Per cercare di scoprire la causa di questo evento, i Romani pensarono bene di inviare ambasciatori a interrogare l’oracolo di Delfi; essi riferirono di aver avuto indicazione, dalle sorti, di far fuoriuscire l’acqua di quel lago e dispederla per i campi: giacché in questo modo Veio sarebbe caduta sotto il dominio del popolo romano. Addirittura, prima che gli ambasciatori riferissero l’oracolo, un indovino di Veio, che era stato rapito da un nostro soldato e trascinato nell’accampamento, aveva fatto la medesima predizione. Perciò il Senato, avvertito dalla duplice profezia, ascoltò il segno divino e quasi nello stesso istante riuscì ad impadronirsi della città nemica.

“Il senatore e il gallo”

Romana iuventus, Gallorum exercitu pulsa, in Capitolinam arcem se contulit; senes vero in plana parte urbis relīquit. Ii, in curulibus sellis considentes cum insignibus magistratuum quos gesserant sacerdotiorumque quae obtinuerant, in tam gravi discrimine splendorem et ornamenta peritae vitae retinebant. Venerabilis eorum aspectus primo hostibus apparet, qui novitate rei et magnificentia cultus et audaciae genere commoventur. Sed M. Attilius Gallo, barbam suam permulcenti, scipionem veementi ictu capiti infligit; tum hostis propter dolorem in senem ruit eumque interfĭcit. Vir vero patientiam dedecus ignorat, et nova speciosa genera interitus excogitat.

La gioventù romana, spinta dall’esercito dei Galli, si radunò nella fortezza del Campidoglio; in realtà abbandonò i vecchi nella parte pianeggiante della città. Essi, mentre sedevano sulle sedie curuli con le insegne dei magistrati che avevano con sè e che avevano ottenuto dei sacerdoti, in tanta grave divisione tenevano lo splendore e l’equipaggiamento delle persone esperte. In un primo tempo l’aspetto dei medesimi appare venerabile ai nemici, che sono commossi dalla novità e dalla magnificenza del culto e dal genere di audacia. Ma M. Attilio Gallo, mentre lisciava la sua barba, colpì Scipione con un forte colpo alla testa; allora il nemico cadde nel Senato a causa del dolore e lo uccise. In verità l’uomo disonorato ignora la pazienza, e escogita un nuovo genere evidente di morte.

“Avidità punita”

Nicotris sapiens et clara Babyloniorum regina, antequam e vita excederet, ministris suis imperavit ut in sepulcro suo haec verba inscriberentur: hic ingens thesaurus latet: si Babyloniorum rex in gravi pecuniae inopia erit, sepulcrum aperite atque thesaurum sumite, si autem sepulcrum violaverit nulla nessitate adductus, aviditatis suae poenas solvet”. Per multos annos Nicotridis sepulcrum violatum non est, sed cum Dareus factus est Persarum rex, divitiarum cupiditate motus, sepulcrum aperuit ut thesaurum sumeret: reginae cadaver tantum invenit et apud cadaver haec verba scripta: “Si tuam pecuniae aviditatem contìnere scires, mortuorum scelera non violares!”. Temperantia enim magnus thesaurus est.

Nicotridi sapiente e famosa regina dei Babilonesi prima di morire comandò ai suoi ministri di incidere sul suo sepolcro queste parole: “Qui è nascosto un ingente tesoro: se il re dei Babilonesi si troverà in grave mancanza di denaro, apra il sepolcro e prenda il tesoro, se invece violerà il sepolcro senza nessuna necessità, pagherà la pena della sua avidità”. Per molti anni il sepolcro di Nicotridi non venne violato, ma quando Dario divenne re dei Persiani, mosso dalla cupidigia di ricchezze, aprì il sepolcro per prendere il tesoro. All’interno, però trovò solamente il cadavere della regina e presso il cadavere questa scritta: “Se sapessi trattenere la tua avidità di ricchezze non violeresti i sepolcri dei morti. La temperanza infatti è un grande tesoro”.

Factorum Et Dictorum Memorabilium, III 7 ext 1 (“De aestimatione sui”)

Ne Euripides quidem Athenis arrogans visus est, cum postulante vi populo ut ex tragoedia quandam sententiam tolleret progressus in scaenam dixit se, ut eum doceret, non ut ab eo disceret, fabulas conponere solere. laudanda profecto fiducia est, quae aestimationem sui certo pondere examinat, tantum sibi adrogans, quantum a contemptu et insolentia distare satis est. itaque etiam quod Alcestidi tragico poetae respondit probabile. apud quem cum quereretur quod eo triduo non ultra tres versus maximo inpenso labore deducere potuisset, atque is se centum perfacile scripsisse gloriaretur, ‘sed hoc’ inquit ‘interest, quod tui in triduum tantum modo, mei vero in omne tempus sufficient’: alterius enim fecundi cursus scripta intra primas memoriae metas conruerunt, alterius cunctante stilo elucubratum opus per omne aevi tempus plenis gloriae velis feretur.

Neanche Euripide diede impressione di arroganza agli Ateniesi, quando – allorchè il pubblico gli chiese di espungere un passaggio da una tragedia – avanzando sul palco, affermò ch’egli era solito comporre opere teatrali per insegnare al popolo e non per essere da esso edotto. Certamente è degna di lode una fiducia, che valuta la propria bravura con metro esatto e che tanto è pretenziosa di sè, quanto basta a non scadere nel disprezzo e nell’insolenza. Pertanto degno d’approvazione anche ciò che (Euripide) ribattè al poeta tragico Alcestide. Poichè (Euripide) si lamentava con lui per non esser riuscito a cavar fuori più di tre versi in un lasso di tempo di tre giorni, pur sforzandosi molto, mentre quello si vantava di averne composto un centinaio senza alcun sforzo, (Euripide) controbattè: “Ecco la differenza: i tuoi versi dureranno solo tre giorni, i miei saranno eterni”. E infatti, le opere dell’uno (Alcestide) – (autore) prolifico – sono naufragati subito nel dimenticatoio, mentre l’opera dell’altro (Euripide) – pensata con stile esitante – giungeranno a gonfie vele alla gloria attraverso il trascorrere infinito del tempo.

Factorum Et Dictorum Memorabilium, II, 2, 4

Maxima autem diligentia maiores hunc morem retinuerunt, ne quis se inter consulem et proximum lictorem, quamvis officii causa una progrederetur, interponeret. Filio dumtaxat et ei puero ante patrem consulem ambulandi ius erat. Qui mos adeo pertinaciter retentus est, ut Q. Fabius Maximus quinquies consul, vir et iam pridem summae auctoritatis et tunc ultimae senectutis, a filio consule invitatus ut inter se et lictorem procederet, ne hostium Samnitium turba, ad quorum conloquium descendebant, elideretur, facere id noluerit. Idem a senatu legatus ad filium consulem Suessam Pometiam missus, postquam animadvertit eum ad officium suum extra moenia oppidi processisse, indignatus quod ex XI lictoribus nemo se equo descendere iussisset, plenus irae sedere perseveravit. Quod cum filius sensisset, proximo lictori ut sibi appareret imperavit. Cuius voci continuo Fabius obsecutus ‘Non ego’ inquit, ‘Fili, summum imperium tuum contempsi, sed experiri volui an scires consulem agere: nec ignoro quid patriae venerationi debeatur, verum publica instituta privata pietate potiora iudico’.

Gli antenati, inoltre, osservarono, con la massima scrupolosità, questa norma abitudinaria: nessuno si intromettesse tra il console e il littore più vicino, anche qualora si procedesse insieme a motivo di (pubblica) funzione. Soltanto al figlio – adolescente – era concesso il diritto di camminare davanti al (proprio) padre console. Tale norma venne osservata con tanta pervicacia, che Quinto Fabio Massimo – 5 volte console, uomo eccezionale e già da un pezzo della massima dignità, nonché, a quel tempo, molto anziano – (benché fosse) invitato dal figlio console a procedere in mezzo a sé e al littore, per evitare di restare soffocato dalla turba dei nemici sanniti, verso i quali stavano procedendo per un abboccamento, si rifiutò. Lo stesso (Fabio Massimo) – inviato a Sessa Pomezia dal senato, in qualità di ambasciatore, al figlio console – dopo che si rese conto che costui si era portato, a compiere la sua mansione, al di fuori delle mura della città – indignato perché nessuno degli 11 littori gli aveva ingiunto di smontare da cavallo – se ne rimase seduto incollerito. Quando il figlio capì, ordinò al littore più vicino di mettersi ai propri ordini. Facendo seguito alle parole di quello, Fabio esclamò: “Figliolo, io non ho trascurato il tuo autorevole comando, bensì ho voluto rendermi conto se tu sappia comportarti da console: non ignoro quale rispetto debba tributarsi ad un padre, tuttavia ritengo che le pubbliche istituzioni abbiano maggior valore degli affetti privati”.

Factorum Et Dictorum Memorabilium, II, 6, 11-12-13-14

11 – […]Celtiberi etiam nefas esse ducebant proelio superesse, cum is occidisset, pro cuius salute spiritum devoverant. laudanda utrorumque populorum animi praesentia, quod et patriae incolumitatem fortiter tueri et fidem amicitiae constanter praestandam arbitrabantur.
12 – Thraciae vero illa natio merito sibi sapientiae laudem vindicaverit, quae natales hominum flebiliter, exequias cum hilaritate celebrans sine ullis doctorum praeceptis verum condicionis nostrae habitum pervidit. Removeatur itaque naturalis omnium animalium dulcedo vitae, quae multa et facere et pati turpiter cogit, si ortu eius aliquanto felicior ac beatior finis reperietur.
13 – Quocirca recte Lycii, cum his luctus incidit, muliebrem vestem induunt, ut deformitate cultus commoti maturius stultum proicere maerorem velint.
14 – Verum quid ego fortissimos hoc in genere prudentiae viros laudem? Respiciantur Indorum feminae, quae, cum more patrio conplures eidem nuptae esse soleant, mortuo marito in certamen iudiciumque veniunt, quam ex his maxime dilexerit.[…]

11 – I Celtiberi ritenevano addirittura empio sopravvivere ad una battaglia, quando fosse caduto colui, alla cui sola incolumità avevano dedicato solennemente la propria vita Degli uni e degli altri è degno di lode il sangue freddo, perché credevano che fosse necessario proteggere coraggiosamente la patria e mantenere fede senza esitazione alla loro parola di amici.
12 – E sì che a ragione può rivendicare il titolo di saggio quel popolo della Tracia, che, piangendo le nascite e celebrando giulivamente i funerali, ha saputo, senza precetto alcuno dei filosofi, intendere la vera essenza della condizione mortale. Aborriamo, dunque, da ogni istinto di piacere animalesco che ci costringe a fare e a subire molte vergogne, una volta scoperto che morire è cosa alquanto più felice e beata del nascere.
13 – Non hanno, dunque, torto i Lici ad indossare, quando sono colpiti da un lutto, abiti femminili: perché così sono indotti dalla stranezza del loro vestire a por termine al più presto ad una sciocca afflizione.
14 – Ma a che lodare gli uomini più forti in questo genere di saggezza? Osserviamo, ad esempio, le mogli degli Indiani, le quali, lì vige la poligamia, alla morte del marito fanno a gara, con regolare processo, per sapere quale tra loro il defunto abbia amata di più.

“La morte di un cane preannuncia una vittoria”

Valerius Maximus in factorum et dictorum memorabilium libris multa memorabilia narravit, itaque factum singulare et maxime memorabile L.Paulo consuli evenit. Ubi ei bellum cum rege Perse erat et domum e curia revenerat filioam suam nomine Tertiam admodum parvulam invenit et eam tristem animadverit eam sic interrogavit “Cur in tuo ore maestitia est?” ei filia respondit “Persa periit”. Puella autem catellum nomine persam in deliciis habuerat et nunc ille decesserat. Arripuit igitur omen Paulus exque fortuito verbo certam spem clari triumphi animo praesumpsit.

Valerio Massimo nei libri degli eventi e dei detti narrò molte cose memorabili; perciò al console Lucio Paolo accadde un fatto singolare e massimamente memorabile. Quando faceva la guerra contro re Perseo, era tornato a casa dalla curia, trovò la sua figlioletta di nome Terzia, molto piccola, e la vide triste; così la interrogò: “Perché c’è tristezza sul tuo volto?”. La figlia gli rispose: “Perseo è morto”. Invero la fanciulla aveva avuto nelle grazie un cagnolino di nome Perseo ed ora quello era deceduto. Paolo apprese dunque il presagio e da quella parola fatale presuppose nella mente la concreta speranza di un trionfo insigne.

“L’orgogliosa sicurezza di un patrizio”

Hoc superbum Scipionis Nasicae responsum memoriae traditum est. Cum res publica annona laboraret, tribunus plebis quidam consules in contionem convocavit et ab iis postulabat ut referrent de frumento emendo et de legatis mittendis ad id negotium explicandum. Cuius rei, quam inutilem putabat, impediendi causa Scipio Nasica loqui orsus est. Obstrepente plebe: “Tacete – inquit – Romani, plus ego quam vos quid rei publicae prosit intellego”. Qua voce audita, omnes, magna reverentia capti, maiorem respectum auctoritatis eius quam suorum alimentorum egerunt.

Questa orgogliosa risposta di Scipione Nasica è tramandata alla memoria. Lavorando la repubblica sulla raccolta del frumento, il tribuno della plebe convocò qualche console in assemblea e a quelli domandò affinché rispondessero sul frumento da comprare e sui legati da mandare a questo lavoro da sbrigare. Scipio Nasica cominciò a parlare con grazia di impedire quella cosa che riteneva inutile. Allora alla plebe che schiamazzava: “Tacete per favore Romani – disse – che cosa sia a favore dello stato ne so più io che voi”. Tutti sentita quella voce, colti da una grande reverenza, porsero maggior rispetto della sua autorità che dei loro alimenti.

“Accorto stratagemma di Scipione”

Scipio Romam rediit et ante legitimam aetatem consul factus est. Ei Sicilia provincia decreta est, permissumque est ut in Africam inde traiceret. Qui, cum vellet ex fortissimis peditibus romanis trecentorum equitum numerum complere, nec posset illos statim armis et equis instruere, id prudenti consilio perfecit. Trecentos iuvenes, ex omni sicilia nobilissimos et ditissimos, elegit, velut eos ad oppugnandam Carthaginem secum ducturus eosque iussit celeriter arma et equos parare. Edicto imperatoris paruerunt iuvenes, sed ne longinquum et grave bellum esset timebant. Tunc Scipio remisit illis istam expeditionem, si arma et equos militibus romanis vellent tradere. Laeti condicionem acceperunt iuvenes siculi. Ita Scipio sine publica impensa suos instruxit equites.

Scipione tornò a Roma e fu fatto console prima dell’età conforme alla legge. A quello venne affidata la provincia della Sicilia, e fu permesso di traghettare fino in Africa. Quello, volendo aumentare da fortissimi fanti romani il numero di trecendo cavalieri, nè potendo quelli subito disporre di armi e cavalli, eseguì ciò con prundente consiglio. Scelse trecento giovani, i più nobili della Sicilia e i più ricchi, per condurli con lui per assediare Cartagine e li comandò di preparare velocemente armi e cavalli. I giovani obbedirono all’editto del generale, ma temevano che la guerra fosse lunga e grave. Allora Scipione rimandò a quelli questa spedizione, se volessero consegnare ai soldati romani armi e cavalli. I giovani siciliani accolsero lieti la condizione. Così Scipione senza spesa pubblica preparò i suoi cavalieri.

“Un sogno veritiero”

Duo familiares Arcades iter una facientes Megara Venerunt, quorum alter ad hospitium contendit, alter in tabernam meritoriam devertit. Is, qui in hospitio erat, vidit in somnis comitem suum orantem ut sibi, coponis insidiis circumvento, auxilio veniret. Excitatus visu prosiluit et cucurrit ad tabernam, sed omnia circa eam quieta videns lectum ac somnum repetiit. Tunc idem saucius ei apparuit petiitque ut saltem mortis suae ultor existeret: dixit enim corpus suum, a copone trucidatum, plaustro tum vehi extra portam stercore adopertum. Motus his precibus vir protinus ad portam adcucurrit, scelus deprehendit et coponem ad capitale supplicium duxit.

Due amici e compagni di viaggio, di nazionalità greca, giunsero a Megara; uno cercò alloggio in un albergo, l’altro in una locanda con camere in affitto. Quello che era in albergo, vide in sogno il compagno che gli chiedeva aiuto, perché caduto nelle grinfie malefiche del locandiere. Turbato dal sogno, quello balzò (fuori dal letto) e si fiondò alla locanda: ma vedendo che, nei paraggi della stessa, tutto era tranquillo, se ne tornò a letto a dormire. Gli apparve (in sogno) di nuovo l’amico, ferito, che gli chiese di vendicare, per lo meno, la propria morte: disse, infatti, che il proprio cadavere, martoriato dal locandiere, veniva giusto in quel momento trasportato su di un carretto fuori della porta, ricoperto di sterco. Mosso da tali preghiere, quello si fiondò alla porta e, sorpreso il misfatto, lo accusò di pena capitale.

Factorum Et Dictorum Memorabilium, V, 3, 4 (“Il tradimento di Lenate”)

Sed ut ad alium consentaneum huic ingrati animi actum transgrediar, M. Cicero C. Popilium Laenatem Picenae regionis rogatu M. Caeli non minore cura quam eloquentia defendit eumque causa admodum dubia fluctuantem saluum ad penates suos remisit. hic Popilius postea nec re nec uerbo a Cicerone laesus ultro M. Antonium rogauit ut ad illum proscriptum persequendum et iugulandum mitteretur, impetratisque detestabilis ministerii partibus gaudio exultans Caietam cucurrit et uirum, mitto quod amplissimae dignitatis, certe ~ salubritate studio praestantis officii priuatim sibi uenerandum, iugulum praebere iussit ac protinus caput Romanae eloquentiae et pacis clarissimam dexteram per summum et securum otium amputauit eaque sarcina tamquam opimis spoliis alacer in urbem reuersus est: neque enim scelestum portanti onus succurrit illud se caput ferre, quod pro capite eius quondam perorauerat. inualidae ad hoc monstrum suggillandum litterae, quoniam qui talem Ciceronis casum satis digne deplorare possit, alius Cicero non extat.

Marco Cicerone, su richiesta di Marco Celio, difese Popilio Lenate, della regione del Piceno, con non minore sollecitudine che eloquenza, e benché vacillante per una causa assai dubbia, lo rimandò salvo ai suoi Penati. Questo Popilio in seguito, pur non offeso né nei fatti né nelle parole da Cicerone, chiese senza motivo a Marco Antonio di essere mandato ad inseguire e uccidere quello che era stato proscritto: e l’incarico del detestabile ufficio, esultando con gioia accorse a Gaeta e ordinò all’uomo, non dico con che dignità, che avrebbe dovuto venerare in privato, di offrire la gola, e immediatamente tagliò la testa dell’eloquenza e pace romana e la famosissima mano destra con somma e serena tranquillità, e con quel fardello, come con un ricco bottino, ritornò rapidamente in città. E infatti, portando il macabro fardello, non gli occorse che stava portando quella testa che un giorno aveva parlato in suo favore. Insufficiente scritto per criticare questa atrocità, giacché non vi è un altro Cicerone che possa deplorare abbastanza degnamente tale disgrazia di Cicerone.

Factorum et Dictorum Memorabilium, V, 1 ext 6 (“Atti di mitezza di Annibale nei riguardi del nome romano”)

Hannibal enim Aemilii Pauli apud Cannas trucidati quaesitum corpus, quantum in ipso fuit, inhumatum iacere passus non est. Hannibal Ti. Gracchum Lucanorum circumuentum insidiis cum summo honore sepulturae mandauit et ossa eius in patriam portanda militibus nostris tradidit. Hannibal M. Marcellum in agro Bruttio, dum conatus Poenorum cupidius quam consideratius speculatur, interemptum legitimo funere extulit punicoque sagulo et corona donatum aurea rogo inposuit. ergo humanitatis dulcedo etiam in ferata barbarorum ingenia penetrat toruosque et truces hostium mollit oculos ac uictoriae insolentissimos spiritus flectit. nec illi arduum ac difficile est inter arma contraria, inter destrictos conminus mucrones placidum iter reperire. uincit iram, prosternit odium hostilemque sanguinem hostilibus lacrimis miscet.

Annibale, infatti, fatto cercare il cadavere di Emilio Paolo, caduto ucciso a Canne, non permise – per quanto fosse nelle sue facoltà – che (quello) giacesse insepolto. (Sempre) Annibale fece seppellire con sommo onore Tiberio Gracco, caduto in un’imboscata ordita dai Lucani e fece consegnare le sue spoglie ai nostri soldati, che le facessero rientrare in patria. (Ancora Annibale,) fece onorare con degne esequie M. Marcello – caduto ucciso nel territorio Bruzzio, mentre spiava i tentativi dei Cartaginesi più con temerarietà che con circospezione – e (ne), fece porre sul rogo (la salma) avvolta in un mantello cartaginese e cinto d’una corona d’oro. Ciò vuol dire che la dolcezza dell’umana sensibilità penetra anche nelle indoli efferate dei barbari, addolcisce lo sguardo torvo e truce dei nemici e modera gli insolentissimi ardori di una vittoria. Né a quella (ovvero, all’humanitas) riesce arduo e difficile – pur tra armi contrapposte, pur tra le armi sguainate nel corpo a corpo, imboccare una via di pace. (L’humanitas) vince l’ira, spegne l’odio e fa mescolare il sangue nemico alle nemiche lacrime.

“L’amicizia di Damone e Finzia”

Damon et Phintias Pythagoricae prudentiae sacris initiati tam fidelem inter se amicitiam iunxerant, ut, *** alterum ex his Dionysius Syracusanus interficere vellet, atque is tempus ab eo, quo prius quam periret domum profectus res suas ordinaret, impetravisset, alter vadem se pro reditu eius tyranno dare non dubitaret. Solutus erat periculo mortis qui modo gladio cervices subiectas habuerat: eidem caput suum subiecerat cui securo vivere licebat. Igitur omnes et in primis Dionysius novae atque ancipitis rei exitum speculabantur. Adpropinquante deinde finita die nec illo redeunte unus quisque stultitiae tam temerarium sponsorem damnabat. At is nihil se de amici constantia metuere praedicabat. Eodem autem momento et hora a Dionysio constituta et eam qui acceperat supervenit. Admiratus amborum animum tyrannus supplicium fidei remisit insuperque eos rogavit ut se in societatem amicitiae tertium sodalicii gradum mutua culturum benivolentia reciperent. Hascine vires amicitiae? Mortis contemptum ingenerare, vitae dulcedinem extinguere, crudelitatem mansuefacere, odium in amorem convertere, poenam beneficio pensare potuerunt. Quibus paene tantum venerationis quantum deorum inmortalium caerimoniis debetur: illis enim publica salus, his privata continetur, atque ut illarum aedes sacra domicilia, harum fida hominum pectora quasi quaedam sancto spiritu referta templa sunt.

Damone e Finzia, iniziati ai misteri della dottrina pitagorica, avevano stretto tra loro un’amicizia tanto stretta che, volendo Dionigi di Siracusa uccidere uno dei due, e avendo questo ottenuto da lui (Dionigi) di il tempo per tornare in patria a sistemare i suoi affari prima di morire, l’altro non esitò a offrirsi al tiranno come garante per il ritorno dell’amico. Era liberato dal pericolo di morte uno che poco prima aveva il collo sotto la spada; alla stessa (spada) aveva accostato la propria testa uno che poteva vivere al sicuro. Tutti allora e per primo Dionigi osservavano l’esito del nuovo e incerto fatto. Avvicinandosi in seguito il giorno stabilito e non essendo quello ritornato, ciascuno tacciava di stupidità il garante così incosciente. Ma quello proclamava di non temere nulla riguardo la coerenza dell’amico. Infatti nello stesso momento arrivarono sia l’ora stabilita da Dionigi, sia colui che l’aveva accettata. Allora il tiranno, ammirando il carattere di entrambi, revocò la condanna per la (loro) fedeltà e inoltre chiese loro di accoglierlo nel vincolo di amicizia come un terzo gradino della compagnia (promettendo di) osservare l’affetto reciproco. Queste (sono) le forze dell’amicizia? Hanno potuto infondere il disprezzo della morte, far dimenticare la dolcezza della vita, rendere mansueta la crudeltà, mutare l’odio in amore, compensare la pena col beneficio. A queste andrebbe dovuta quasi la stessa venerazione che quella nelle cerimonie per gli dei immortali: a quelli infatti compete la salute di tutti, a queste (le forze dell’amicizia) la salute degli intimi, e come quelli hanno per sedi i sacri templi, di questi sono per cosi dire templi i cuori fedeli degli uomini, riempiti di un’anima divina.

“Le fortune di Metello”

Videamus ergo quot gradibus beneficiorum Q. Metellum a primo originis die ad ultimum usque fati tempus numquam cessante indulgentia ad summum beatae uitae cumulum perduxerit. nasci eum in urbe terrarum principe uoluit, parentes ei nobilissimos dedit, adiecit animi rarissimas dotes et corporis uires, ut sufficere laboribus posset, uxorem pudicitia et fecunditate conspicuam conciliauit, consulatus decus, imperatoriam potestatem, speciosissimi triumphi praetextum largita est, fecit ut eodem tempore tres filios consulares, unum etiam censorium et triumphalem, quartum praetorium uideret, utque tres filias nuptum daret earumque subolem sinu suo exciperet. tot partus, tot incunabula, tot uiriles togae, tam multae nuptiales faces, honorum, imperiorum, omnis denique gratulationis summa abundantia, cum interim nullum funus, nullus gemitus, nulla causa tristitiae.

Vediamo, dunque, per quanti gradi di benefici la fortuna, senza concedere mai pausa alla propria generosità, abbia fatto giungere Quinto Metello, dal primo giorno della sua nascita fino agli ultimi momenti della vita, al culmine della felicità. Volle ch’egli nascesse nella città regina della terra, gli diede nobilissimi genitori, vi aggiunse eccezionali doti d’animo e forze fisiche per poter esser pari alle fatiche, gli fece ottenere come sposa una donna segnalata per pudicizia e prolificità, gli largi l’onore del consolato, la carica di generale, l’ornamento di un prestigioso trionfo, fece sì che vedesse nello stesso tempo tre figli consoli, uno anche censore e trionfatore, un quarto pretore, che collocasse in matrimonio tre figlie e ne ricevesse tra le braccia i loro pargoli. Tanti parti, tante culle, tante toghe virili, tante faci nuziali, tante cariche civili e militari, grandissima copia, insomma, di motivi a rallegramenti: e intanto nessun lutto, nessun pianto, nessun motivo di dolore.

Factorum et Dictorum Memorabilium, III, 2, 20

Ceterum ut humanae virtutis actum exequamur, cum Hannibal Capuam, in qua Romanus exercitus erat, obsideret, Vibius Accaus Paelignae cohortis praefectus vexillum trans Punicum vallum proiecit, se ipsum suosque conmilitones, si signo hostes potiti essent, execratus, et ad id petendum subsequente cohorte primus impetum fecit. quod ut Valerius Flaccus tribunus tertiae legionis aspexit, conversus ad suos “spectatores” inquit, “ut video, alienae virtutis huc venimus, sed absit istud dedecus a sanguine nostro, ut Romani gloria cedere Latinis velimus. ego certe aut speciosam optans mortem aut felicem audaciae exitum vel solus procurrere paratus sum”. his auditis Pedanius centurio convulsum signum dextra retinens “iam hoc” inquit “intra hostile vallum mecum erit: proinde sequantur qui id capi nolunt”, et cum eo in castra Poenorum inrupit totamque secum traxit legionem. ita trium hominum fortis temeritas Hannibalem, paulo ante spe sua Capuae potitorem, ne castrorum quidem suorum potentem esse passa est.

Per passare ora ad un episodio di valore umano, quando Annibale assediava l’esercito romano di Capua, Vibio Accao, comandante di una coorte peligna, scagliò il vessillo oltre la palizzata cartaginese, augurando ogni maledizione per sé e per i suoi commilitoni, se i nemici si fossero impadroniti di quella insegna; e si slanciò, seguito dalla coorte, per riconquistarla. Accortosi di ciò, il tribuno della terza legione, Valerio Fiacco, disse rivolto ai suoi: “Come vedo, siamo venuti qui a far da spettatori dell’altrui valore. Per quel che mi riguarda voglio morire gloriosamente o portare a termine felicemente la mia audace impresa. Sono pronto a correre anche da solo all’assalto”. Ciò udito, il centurione Pedanio, esortò i soldati e impugnando l’insegna con la destra: “Ora, disse, questa sarà con me entro la palizzata nemica: perciò mi seguano quanti non vogliono che mi sia catturata”, e con essa irruppe nel campo cartaginese, trascinandosi dietro tutta la legione.