Elegia III, 25 (“L’elegia del discidium”)

Risus eram positis inter convivia mensis,
et de me poterat quilibet esse loquax.
quinque tibi potui servire fideliter annos:
ungue meam morso saepe querere fidem.
nil moveor lacrimis: ista sum captus ab arte;
semper ab insidiis, Cynthia, flere soles.
flebo ego discedens, sed fletum iniuria vincit:
tu bene conveniens non sinis ire iugum.
limina iam nostris valeant lacrimantia verbis,
nec tamen irata ianua fracta manu.
at te celatis aetas gravis urgeat annis,
et veniat formae ruga sinistra tuae!
vellere tum cupias albos a stirpe capillos,
iam speculo rugas increpitante tibi,
exclusa inque vicem fastus patiare superbos,
et quae fecisti facta queraris anus!
has tibi fatalis cecinit mea pagina diras:
eventum formae disce timere tuae!

Ero oggetto di riso, a mensa nel convito,
e su di me ciascuno diveniva loquace.
Restai per cinque anni il tuo fedele schiavo:
comprenderai, mordendoti le mani, la mia fede.
Non mi muovono lacrime, conosco ormai quest’arte,
e sempre, quando piangi, non è che tradimento.
Piangerò nel lasciarti, ma l’offesa è più forte
del pianto: sei tu quella che rifiuta il legame.
Soglia che lacrimavi per mie parole, porta
dalla mia mano irata non mai infranta, addio!
E a te, che la vecchiaia ti raggiunga con gli anni
che nascondi, e, sinistra, ti corrughi il bei volto!
Strappare dalla cute i capelli imbiancati
vorrai, quando lo specchio accusi le tue rughe,
soffrirai a tua volta di durezze e disdegni
e proverai, da vecchia, il dolore che hai dato.
Ti canta, la mia pagina, questo orrendo destino:
abbi paura, ha fine ormai la tua bellezza!

Elegie, I, 1

Cynthia prima suis miserum me cepit ocellis,
contactum nullis ante cupidinibus.
tum mihi constantis deiecit lumina fastus
et caput impositis pressit Amor pedibus,
donec me docuit castas odisse puellas
improbus, et nullo vivere consilio.
et mihi iam toto furor hic non deficit anno,
cum tamen adversos cogor habere deos.
Milanion nullos fugiendo, Tulle, labores
saevitiam durae contudit Iasidos.
nam modo Partheniis amens errabat in antris,
ibat et hirsutas ille videre feras;
ille etiam Hylaei percussus vulnere rami
saucius Arcadiis rupibus ingemuit.
ergo velocem potuit domuisse puellam:
tantum in amore preces et bene facta valent.
in me tardus Amor non ullas cogitat artis,
nec meminit notas, ut prius, ire vias.
at vos, deductae quibus est fallacia lunae
et labor in magicis sacra piare focis,
en agedum dominae mentem convertite nostrae,
et facite illa meo palleat ore magis!
tunc ego crediderim vobis et sidera et amnis
posse Cytaeines ducere carminibus.
et vos, qui sero lapsum revocatis, amici,
quaerite non sani pectoris auxilia.
fortiter et ferrum saevos patiemur et ignis,
sit modo libertas quae velit ira loqui.
ferte per extremas gentis et ferte per undas,
qua non ulla meum femina norit iter:
vos remanete, quibus facili deus annuit aure,
sitis et in tuto semper amore pares.
in me nostra Venus noctes exercet amaras,
et nullo vacuus tempore defit Amor.
hoc, moneo, vitate malum: sua quemque moretur
cura, neque assueto mutet amore locum.
quod si quis monitis tardas adverterit auris,
heu referet quanto verba dolore mea!

Cinzia per prima catturò me misero con i suoi occhi,
me, che prima non ero stato conquistato da nessuna passione.
Allora l’Amore mi fece abbassare gli occhi di solito orgogliosi
e mi premette la testa, con i piedi posti sopra,
finché malvagio mi insegno ad avere a noia le ragazze
virtuose, e a vivere senza alcuna regola.
Così questo furore amoroso non mi abbandona ormai da un intero anno,
nonostante sia costretto ad avere avversi gli dei.
Milanione non sottraendosi ad alcuna fatica, o Tullio,
fiaccò la superbia della crudele figlia di Iaso.
Infatti ora vagava fuori di sé nelle caverne del Partenio,
ora quello andava a trovare le feroci fiere,
persino una volta ferito dal colpo della clava di Ileo
levò il suo lamento sulle rupi dell’Arcadia.
In questa maniera poté quindi domare la veloce fanciulla:
in amore valgono tanto le preghiere e le attenzioni.
Invece per me Amore non escogita nessun espediente,
né si ricorda di percorrere le vie conosciute come una volta.
Mentre voi, che possedete l’ingannevole arte di tirare giù la luna
e che avete l’incarico di fare sacrifici propiziatori,
orsù dunque trasformate i sentimenti della mia signora,
e fate che diventi più pallida del mio viso!
Solo allora potrei credere a voi maghi, che potete muovere stelle
e fiumi con gli incantesimi della Citaina Medea.
E voi, amici, che troppo tardi richiamate me caduto,
cercate invano rimedi per il mio cuore malato.
Sopporterò coraggiosamente sia la lama affilata che il fuoco crudele,
purché abbia la possibilità di dire le cose che la rabbia desidera.
Portatemi per le genti più lontane e per i mari più remoti,
dove nessuna donna possa conoscere il mio itinerario:
rimanete voi, ai quali il dio con orecchio benevolo diede il suo favore,
e siate sempre pari in un amore sempre solido.
Contro di me la nostra dea Venere mette in moto notti amare,
e Amore in nessun momento viene meno.
Vi avverto, evitate questo male: ognuno si tenga stretto
la propria passione, e non si allontani dal consueto amore.
Se poi qualcuno non avrà ascoltato i miei consigli,
con quanto dolore, ahimé, ricorderà le mie parole.