“Il maestro conosce i livelli di apprendimento dei singoli”

Incipientibus atque adhuc teneris condiscipulorum quam praeceptoris iucimdior hoc ipso, quod facilior imitatio est. Vix enim se prima dementa ad spem tollere effingendae, quam summam putant, eloquentiae audebunt; proxima amplectentur magia, ut uites arboribus adplicitae inferiores prius adprendendo ramos in cacumina euadunt. Quod adeo uerum est, ut ipsius etiam magistri, si tamen ambitiosis utilia praeferet, hoc opus sit, cum adhuc rudia tractabit ingenia, non statim onerare infirmitatem discentium, sed temperare uires suas et ad intellectum audientis descendere. Nam ut uascula oris angusti superfusam umoris copiam respuunt, sensim autem influentibus uel etiam instillatis complentur, sic animi puerorum quantum excipere possint videndum est: nam maiora intellectu uelutparum apertos ad percipiendum animos non subibunt.

Con i principianti ancora giovanissimi risulta maggiormente piacevole l’imitazione dei compagni che non quella degli insegnanti per il semplice motivo che è più facile (imitarli). Chi ha a che fare con i primi elementi, infatti, difficilmente oserà elevarsi fino alla speranza di riprodurre l’eloquenza, che stima l’obiettivo massimo. Abbraccerà piuttosto le nozioni più vicine, come le viti abbarbicate agli alberi prima afferrano i rami bassi e poi si arrampicano verso l’alto. Ciò è tanto vero che anche lo stesso maestro, purché preferisca l’utilità all’ambizione, nel rivolgersi a menti ancora inesperte ha il compito non di gravare da subito con carichi eccessivi sulla debolezza degli allievi, bensì di moderare le proprie forze e abbassarsi alla loro capacità di comprensione. Come infatti i vasetti con l’imboccatura stretta lasciano colare all’esterno il liquido che vi viene versato in abbondanza, mentre si riempiono dei liquidi che entrano poco a poco o addirittura a gocce, così bisogna stare attenti a quante nozioni possano ricevere le menti dei ragazzi: infatti quelle che superano le loro possibilità di comprensione non penetreranno in intelletti, per così dire, troppo poco aperti per riceverle.

“I vantaggi della scuola pubblica”

Sed sicut firmiores in litteris profectus alit aemulatio, ita incipientibus atque adhuc teneris condiscipulorum quam praeceptoris iucundior hoc ipso quod facilior imitatio est. Vix enim se prima elementa ad spem tollere effingendae quam summam putant eloquentiae audebunt: proxima amplectentur magis, ut vites arboribus adplicita e inferiores prius adprendendo ramos in cacumina evadunt. Quod adeo verum est ut ipsius etiam magistri, si tamen ambitiosis utilia praeferet, hoc opus sit, cum adhuc rudia tractabit ingenia, non statim onerare infirmitatem discentium, sed temperare vires suas et ad intellectum audientis descendere.

Ma come negli studi letterari lo spirito di emulazione alimenta profitti più solidi, così ai principianti e agli alunni ancora giovani l’imitazione dei compagni piace maggiormente che non quella degli insegnanti per il semplice fatto che è più facile. Chi ha a che fare con i primi elementi, infatti, difficilmente oserà elevarsi fino alla speranza di riprodurre l’eloquenza, che stima l’obiettivo massimo. Abbraccerà piuttosto le nozioni più vicine, come le viti abbarbicate agli alberi prima afferrano i rami bassi e poi si arrampicano verso l’alto. Ciò è tanto vero che anche lo stesso maestro, purché preferisca l’utilità all’ambizione, nel rivolgersi a menti ancora inesperte ha il compito non di gravare da subito con carichi eccessivi sulla debolezza degli allievi, bensì di moderare le proprie forze e abbassarsi alla loro capacità di comprensione.

“La scuola pubblica”

Vix enim se prima elementa ad spem tollere effingendae quam summam putant eloquentiae audebunt: proxima amplectentur magis, ut vites arboribus adplicita e inferiores prius adprendendo ramos in cacumina evadunt. Quod adeo verum est ut ipsius etiam magistri, si tamen ambitiosis utilia praeferet, hoc opus sit, cum adhuc rudia tractabit ingenia, non statim onerare infirmitatem discentium, sed temperare vires suas et ad intellectum audientis descendere. Nam ut vascula oris angusti superfusam umoris copiam respuunt, sensim autem influentibus vel etiam instillatis complentur, sic animi puerorum quantum excipere possint videndum est: nam maiora intellectu velut parum apertos ad percipiendum animos non subibunt.

Chi ha a che fare con i primi elementi, infatti, difficilmente oserà elevarsi fino alla speranza di riprodurre l’eloquenza, che stima l’obiettivo massimo. Abbraccerà piuttosto le nozioni più vicine, come le viti abbarbicate agli alberi prima afferrano i rami bassi e poi si arrampicano verso l’alto. Ciò è tanto vero che anche lo stesso maestro, purché preferisca l’utilità all’ambizione, nel rivolgersi a menti ancora inesperte ha il compito non di gravare da subito con carichi eccessivi sulla debolezza degli allievi, bensì di moderare le proprie forze e abbassarsi alla loro capacità di comprensione. Come infatti i vasetti con l’imboccatura stretta lasciano colare all’esterno il liquido che vi viene versato in abbondanza, mentre si riempiono dei liquidi che entrano poco a poco o addirittura a gocce, così bisogna stare attenti a quante nozioni possano ricevere le menti dei ragazzi: infatti quelle che superano le loro possibilità di comprensione non penetreranno in intelletti, per così dire, troppo poco aperti per riceverle.

Institutio oratoria, XII, I, 1-2-3

1 – Sit ergo nobis orator quem constituimus is qui a M. Catone finitur vir bonus dicendi peritus, verum, id quod et ille posuit prius et ipsa natura potius ac maius est, utique vir bonus: id non eo tantum quod, si vis illa dicendi malitiam instruxerit, nihil sit publicis privatisque rebus perniciosius eloquentia, nosque ipsi, qui pro virili parte conferre aliquid ad facultatem dicendi conati sumus, pessime mereamur de rebus humanis si latroni comparamus haec arma, non militi.
2 – Quid de nobis loquor? Rerum ipsa natura, in eo quod praecipue indulsisse homini videtur quoque nos a ceteris animalibus separasse, non parens sed noverca fuerit si facultatem dicendi sociam scelerum, adversam innocentiae, hostem veritatis invenit. Mutos enim nasci et egere omni ratione satius fuisset quam providentiae munera in mutuam perniciem convertere.
3 – Longius tendit hoc iudicium meum. Neque enim tantum id dico, eum qui sit orator virum bonum esse oportere, sed ne futurum quidem oratorem nisi virum bonum. Nam certe neque intellegentiam concesseris iis qui proposita honestorum ac turpium via peiorem sequi malent, neque prudentiam, cum in gravissimas frequenter legum, semper vero malae conscientiae poenas a semet ipsis inproviso rerum exitu induantur.

1 – L’oratore che mi sono riproposto di formare con i miei insegnamenti deve essere quindi un uomo perbene esperto nell’arte del parlare, secondo la definizione di Marco Porcio Catone. Ma quello che Catone ha messo al primo posto, e che è l’aspetto più pregevole e più grande per la sua stessa natura, è il suo essere un uomo perbene, e questo per due motivi. Se infatti quest’abilità retorica fornisse a un simile oratore soltanto le armi della frode, l’eloquenza sarebbe ciò che vi è di più dannoso per il bene comune e per il bene dei singoli cittadini; io stesso, che pure ho compiuto sforzi incredibili, per quanto era nelle mie possibilità, nel tentativo di far progredire in qualcosa le possibilità dell’arte oratoria, avrei fatto un pessimo servizio all’umanità fornendo queste armi non a un soldato, ma a un brigante.
2 – Perchè parlo di me? La natura stessa, proprio per aver dimostrato una particolare benevolenza nei confronti degli uomini e per averci voluto distinguere dagli altri animali, sarebbe stata una matrigna, e non una madre, se avesse inventato l’arte oratoria per farla diventare complice dei delitti, avversaria dell’innocenza, nemica della verità. Sarebbe infatti stato meglio nascere muti ed essere totalmente privi dell’intelligenza piuttosto che trasformare i doni della provvidenza nella nostra rovina reciproca.
3 – Ma, secondo me, la questione va ancora più oltre. Non voglio dire infatti soltanto che un oratore deve essere un uomo perbene, ma affermo anzi che, se non è un uomo perbene, non potrà nemmeno diventare un oratore. Nessuno sarebbe certo disposto ad ammettere che siano intelligenti coloro che, una volta che sono state messe davanti a loro la strada che porta verso l’onestà e quella che conduce verso il vizio, preferiscono seguire la peggiore, e nemmeno sarebbe disposto a concedere che siano avveduti e prudenti coloro che, quando le cose hanno avuto un risultato diverso da quello che avevano previsto, a causa delle proprie colpe incappano molto spesso nelle gravissime conseguenze della legge e finiscono sempre per patire i rimorsi della loro cattiva coscienza.

“L’oratore deve essere un uomo onesto”

Sit ergo nobis orator quem constituimus is qui a M. Catone finitur vir bonus dicendi peritus, verum, id quod et ille posuit prius et ipsa natura potius ac maius est, utique vir bonus: id non eo tantum quod, si vis illa dicendi malitiam instruxerit, nihil sit publicis privatisque rebus perniciosius eloquentia, nosque ipsi, qui pro virili parte conferre aliquid ad facultatem dicendi conati sumus, pessime mereamur de rebus humanis si latroni comparamus haec arma, non militi. Quid de nobis loquor? Rerum ipsa natura, in eo quod praecipue indulsisse homini videtur quoque nos a ceteris animalibus separasse, non parens sed noverca fuerit si facultatem dicendi sociam scelerum, adversam innocentiae, hostem veritatis invenit. Mutos enim nasci et egere omni ratione satius fuisset quam providentiae munera in mutuam perniciem convertere.

Dunque, l’oratore che noi abbiamo così formato, e di cui M. Catone ha dato la definizione di uomo onesto esperto nel parlare, questo sia perché quello l’ha detto prima sia perché la natura stessa è più dignitosa e più nobile: se l’abilità nel parlare disponesse della cattiveria dalla natura, niente sarebbe più dannoso dell eloquenza sia alle cose pubbliche che a quelle private, e noi stessi che siamo dalla parte dell uomo che tentammo di giovare a qualcuno con la capacità oratoria ci comportiamo malissimo nei confronti delle cose degli uomini se diamo questi strumenti al ladro e non al soldato. Cosa si dirà di noi? La stessa natura delle cose in quello che sembra essere benevolo agli uomini e in quello che ci distingue dagli animali, non madre ma matrigna sarebbe stata se avesse inventato l’abilità nel parlare alleata della frode avversa all’onestà e nemica della verità. Infatti, sarebbe stato meglio che gli uomini nascessero muti e privi di qualunque razionalità, piuttosto che trasformare in strumenti di reciproca rovina i doni della provvidenza.

“La prima maestra è la nutrice”

Ante omnia ne sit vitiosus sermo nutricibus: quas, si fieri posset, sapientes Chrysippus optavit, certe quantum res pateretur optimas eligi voluit. Et morum quidem in his haud dubie prior ratio est, recte tamen etiam loquantur. Has primum audiet puer, harum verba effingere imitando conabitur, et natura tenacissimi sumus eorum quae rudibus animis percepimus: ut sapor quo nova inbuas durat, nec lanarum colores quibus simplex ille candor mutatus est elui possunt. Et haec ipsa magis pertinaciter haerent quae deteriora sunt. Nam bona facile mutantur in peius: quando in bonum verteris vitia? Non adsuescat ergo, ne dum infans quidem est, sermoni qui dediscendus sit.

Prima di tutto le nutrici non abbiano un parlare scorretto: Crisippo raccomandò quelle colte, se fosse stato possibile, volle almeno che venissero scelte le migliori per quanto risultasse chiaro. E la moralità certamente in queste cose senza dubbio è prioritaria, tuttavia parlino anche con rettitudine (correttezza grammaticale). Queste (nutrici) il bambino ascolterà inizialmente, cercherà di ripetere le parole di queste imitandole, e fin dalla nascita siamo molto attaccati alle cose che apprendiamo con animo inesperto: come dura il sapore di cui si impregnano i vasi (usati per la prima volta), e (come) non si estinguono i colori con i quali è stato corretto il primitivo candore della lana. Proprio queste (prime impressioni) si fissano più forte di quelle che si deteriorano. Infatti facilmente le cose buone si trasformano in peggiori: forse qualche volta i vizi si sono trasformati in buone abitudini? Non si abitui quindi al linguaggio famigliare chi, se non è ancora per lo meno un infante, dovrà dimenticarlo.

“Elogio di Cicerone” (2)

Nam mihi videtur M. tullius, cum se totum ad imitationem Graecorum contulisset, effinxisse vim Demosthenis, copiam Platonis, iucunditatem Isocratis. Nec vero quod in quoque optimum fuit studio consecutus est tantum, sed plurimas vel potius omnes ex se ipso virtutes extulit inmortalis ingenii beatissima ubertas. Non enim pluvias, ut ait Pindarus, aquas colligit, sed vivo gurgite exundat, dono quodam providentiae genitus in quo totas vires suas eloquentia experiretur. Nam quis docere diligentius, movere vehementius potest? Cui tanta umquam iucunditas adfuit? Ut ipsa illa quae extorquet impetrare eum credas, et cum transversum vi sua iudicem ferat, tamen ille non rapi videatur sed sequi. Iam in omnibus quae dicit tanta auctoritas inest ut dissentire pudeat, nec advocati studium sed testis aut iudicis adferat fidem, cum interim haec omnia, quae vix singula quisquam intentissima cura consequi posset, fluunt inlaborata, et illa qua nihil pulchrius auditum est oratio prae se fert tamen felicissimam facilitatem.

A me pare infatti che Marco Tullio, nel suo dedicarsi interamente all’imitazione dei greci, abbia riprodotto la forza di Demostene, ricchezza di Platone e l’arrendevolezza di Isocrate. Ma tutti pregi che si trovano in quegli autori non gli era giunti soltanto con lo studio: la maggior parte delle sue virtù (o meglio, tutte) le ha prodotte la felicissima ricchezza del suo talento immortale, traendole da se stesso. Non si limita infatti a raccogliere, come dice Pindaro, le acque piovane, ma trabocca con la sua viva corrente: la sua nascita è stato un dono della provvidenza, affinché l’eloquenza potesse mettere alla prova in lui tutte le proprie possibilità. Dovrebbe infatti formare gli ascoltatori con maggior diligenza? Chi ha mai avuto il fascino così grande? Potresti addirittura credere che le ammissioni che estorce egli ne ottenga semplicemente, e che, quando trascina il giudice e gli fa cambiare opinione con la forza della sua eloquenza, si ha l’impressione che il giudice non venga rapito ma che lo segua docilmente. C’è poi in tutte le parole che dice una tale autorità che si prova vergogna a dissentire da lui; non porta nei processi la borsetta dell’avvocato, ma l’attendibilità di un testimone o di un giudice; tutti questi pregi che, a stento,uno per uno, si potrebbero raggiungere dopo uno studio intensissimo, scorrono in lui senza fatica; il suo famoso stile, il più bello che si sia mai ascoltato, ma sono felicissima spontaneità.

Institutio Oratoria, I, 2, 24-25-26

24 – Ea nobis ingens palma, ducere vero classem multo pulcherrimum. Nec de hoc semel decretum erat: tricesimus dies reddebat victo certaminis potestatem. Ita nec superior successu curam remittebat et dolor victum ad deponendam ignominiam concitabat.
25 – Id nobis acriores ad studia dicendi faces subdidisse quam exhortationem docentium, paedagogorum custodiam, vota parentium, quantum animi mei coniectura colligere possum, contenderim.
26 – Sed sicut firmiores in litteris profectus alit aemulatio, ita incipientibus atque adhuc teneris condiscipulorum quam praeceptoris iucundior hoc ipso quod facilior imitatio est.

24 – E questo per noi costituiva un magnifico premio, ma la cosa più bella era essere il primo della classe. E la decisione non era una e definitiva: ogni trenta giorni a chi aveva perso veniva data la possibilità di riscattarsi. Così da una parte il vincitore non si rilassava sulla sua vittoria, e dall’altra la mortificazione spingeva chi era stato sconfitto a rifarsi dell’onta subita.
25 – Per quanto possa personalmente ricordare, oserei dire che questo ci stimolava più acutamente allo studio dell’eloquenza di quanto non riuscissero a fare l’esortazione degli insegnanti, la sorveglianza dei pedagoghi, le ambizioni dei genitori.
26 – Ma come negli studi letterari lo spirito di emulazione alimenta profitti più solidi, così ai principianti e agli alunni ancora giovani l’imitazione dei compagni piace maggiormente che non quella degli insegnanti per il semplice fatto che è più facile.

“Elogio di Cicerone”

Nam mihi videtur M. Tullius, cum se totum ad imitationem Graecorum contulisset, efffinxisse vim Demosthenis, copiam Platonis, iucunditatem Isocratis. Nec vero quod in quoque optimum fuit, studio consecutus est tantum, sed plurimas vel potius omnes ex se ipsa virtutes extulit immortalis ingenii beatissima ubertas. Non enim “pluvias”, ut ait Pidarus, “aquas colligit, sed vivo gurgite exundat”, dono quodam providentiae genitus, in quo totas vires suas eloquentia experiretur. Nam quis docere diligentius, movere vehementius potest? Cui tanta umquam iucunditas adfuit?

A me pare infatti che Marco Tullio, nel suo dedicarsi interamente all’imitazione dei greci, abbia riprodotto la forza di Demostene, la ricchezza di Platone e l’arrendevolezza di Isocrate. Ma tutti i pregi che si trovano in quegli autori non gli erano giunti soltanto con lo studio: la maggior parte delle sue virtù (o meglio, tutte) le ha prodotte la felicissima ricchezza del suo talento immortale, traendole da se stesso. Non si limita infatti a raccogliere, come dice Pindaro, le acque piovane, ma trabocca con la sua viva corrente: la sua nascita è stato un dono della provvidenza, affinché l’eloquenza potesse mettere alla prova in lui tutte le proprie possibilità. Dovrebbe infatti formare gli ascoltatori con maggior diligenza? Chi ha mai avuto tanto fascino?

Institutio Oratoria I, 3, 6-7 (“L’insegnamento individualizzato”)

6 – Haec cum animadverterit, perspiciat deinceps quonam modo tractandus sit discentis animus. sunt quidam, nisi institeris, remissi, quidam imperia indignantur, quosdam continet metus, quosdam debilitat, alios continuatio extundit, in aliis plus impetus facit. Mihi ille detur puer quem laus excitet, quem gloria iuvet, qui victus fleat.
7 – Hic erit alendus ambitu, hunc mordebit obiurgatio, hunc honor excitabit, in hoc desidiam numquam verebor.

6 – Una volta compreso ciò, consideri quindi come si debba trattare l’animo dell’alunno. Alcuni, se non stai loro addosso, sono indolenti, alcuni disdegnano gli ordini, alcuni per il timore si danno un freno, altri si infiacchiscono, alcuni si formano con un impegno continuato, mentre su altri è più efficace lo slancio del momento. Mi sia affidato il fanciullo che trovi stimolo nella lode, a cui piaccia la gloria e che pianga per le sconfitte.
7 – Bisognerà formarlo con l’ambizione; il rimproverò avrà su di lui l’effetto di un morso, e la lode sarà di stimolo; non avrò mai paura che un alunno di questo tipo possa farsi prendere dalla pigrizia.

Institutio Oratoria, I, 3, 14-15-16-17 (“Le punizioni”)

14 – Caedi vero discentis, quamlibet id receptum sit et Chrysippus non improbet, minime velim, primum quia deforme atque servile est et certe (quod convenit si aetatem mutes) iniuria: deinde quod, si cui tam est mens inliberalis ut obiurgatione non corrigatur, is etiam ad plagas ut pessima quaeque mancipia durabitur: postremo quod ne opus erit quidem hac castigatione si adsiduus studiorum exactor adstiterit.
15 – Nunc fere neglegentia paedagogorum sic emendari videtur ut pueri non facere quae recta sunt cogantur, sed cur non fecerint puniantur. Denique cum parvolum verberibus coegeris, quid iuveni facias, cui nec adhiberi potest hic metus et maiora discenda sunt?
16 – Adde quod multa vapulantibus dictu deformia et mox verecundiae futura saepe dolore vel metu acciderunt, qui pudor frangit animum et abicit atque ipsius lucis fugam et taedium dictat.
17 – Iam si minor in eligendis custodum et praeceptorum moribus fuit cura, pudet dicere in quae probra nefandi homines isto caedendi iure abutantur, quam det aliis quoque nonnumquam occasionem hic miserorum metus. Non morabor in parte hac: nimium est quod intellegitur. Quare hoc dixisse satis est: in aetatem infirmam et iniuriae obnoxiam nemini debet nimium licere.

14 – Anche se si usa, e anche se Crisippo non lo critica, non mi piace affatto che i discenti subiscano punizioni di tipo corporale, per prima cosa perchè è indecoroso, indegno di un uomo libero e per di più in contraddizione col diritto (la cosa invece ha un senso se si parla di persone di età diversa); secondariamente perchè, se uno ha un’indole così rude da non riuscire a essere migliorata a furia di semplici rimproveri verbali, non si piegherà neanche sotto i colpi di frusta come i peggiori fra gli schiavi; infine poichè non ci sarà neanche bisogno di questo genere di punizione se chi si fa carico di sorvegliare gli studi garantirà sempre la sua presenza costante.
15 – Ai nostri tempi sembra opportuno, oserei dire per la trascuratezza dei pedagoghi, che i ragazzi siano corretti in modo tale da non essere obbligati a fare ciò che è giusto, ma da essere puniti per non averlo fatto. E poi una volta che si sia costretto un bimbo con le percosse, che cosa si farà a un ragazzo con cui non si può usare questa forma di intimidazione e al quale vanno insegnate cose più difficili?
16 – Aggiungi che a coloro che le prendono sono capitate spesso, per il dolore o per la paura, cose orribili a dirsi e destinate a essere motivo di vergogna: questa paura abbatte e deprime lo spirito e spinge a rifuggire e a odiare persino la vita stessa.
17 – Del resto se troppo poca è stata l’attenzione nella scelta delle consuetudini di chi dovrebbe sorvegliare gli studi e dei precettori, è una vergogna dire quali siano le cose riprovevoli per le quali questi uomini scellerati abusino di tale “diritto” all’uso della violenza fisica, e quali occasioni offra non di rado anche ad altri la paura di questi poveri ragazzi. Ma non mi soffermerò su questo argomento: è anche troppo ciò che si sottintende. Basta pertanto quanto è stato detto: a nessuno deve essere concesso avere un raggio d’azione troppo ampio nei confronti di un’età indifesa e ancora esposta alle vessazioni.

Institutio oratoria, I, 3, 1-2-3 (“L’osservazione del bambino in classe”)

1 – Tradito sibi puero docendi peritus ingenium eius in primis naturamque perspiciet. Ingenii signum in parvis praecipuum memoria est: eius duplex virtus, facile percipere et fideliter continere. Proximum imitatio: nam id quoque est docilis naturae, sic tamen ut ea quae discit effingat, non habitum forte et ingressum et si quid in peius notabile est.
2 – Non dabit mihi spem bonae indolis qui hoc imitandi studio petet, ut rideatur; nam probus quoque in primis erit ille vere ingeniosus. Alioqui non peius duxerim tardi esse ingeni quam mali: probus autem ab illo segni et iacente plurimum aberit.
3 – Hic meus quae tradentur non difficulter accipiet, quaedam etiam interrogabit: sequetur tamen magis quam praecurret. Illud ingeniorum velut praecox genus non temere umquam pervenit ad frugem.

1 – Una volta che gli sia stato affidato il bambino, l’esperto di eloquenza cercherà per prima cosa di capirne le capacità e l’indole. Nei piccoli la memoria è una spia significativa dell’intelligenza: la duplice caratteristica dell’intelligenza consiste nel percepire con facilità e nel tenere a mente in modo fedele. La spia successiva è la capacità di imitare: anch’essa infatti è tipica di una natura che non ha difficoltà ad apprendere, purché tuttavia riproduca quello che impara e non; mettiamo il caso, l’atteggiamento o il modo di camminare o qualcosa di peggio che si faccia notare.
2 – Non mi lascerà sperare in una buona indole colui che per questa passione dell’imitazione cercherà di suscitare il riso. Li ragazzo veramente dotato infatti sarà per prima cosa anche serio, e d’altro canto non sarei propenso a ritenere una cosa peggiore essere d’intelligenza lenta piuttosto che maliziosa. li ragazzo serio sarà comunque assai
diverso da quello fiacco e trascurato.
3 – Questo mio alunno ideale assimilerà senza difficoltà gli insegnamenti che gli verranno impartiti, alcune volte rivolgerà delle domande, ma in ogni caso seguirà le spiegazioni e non le precorrerà. È facile che quell’intelligenza che si suole definire precoce non arrivi mai a frutto.

Institutio Oratoria, I, 1, 12-13-14 (“Si studi il greco prima del latino”)

12 – A sermone Graeco puerum incipere malo, quia Latinum, qui pluribus in usu est, uel nobis nolentibus perbibet, simul quia disciplinis quoque Graecis prius instituendus est, unde et nostrae fluxerunt.
13 – Non tamen hoc adeo superstitiose fieri uelim, ut diu tantum Graece loquatur aut discat, sicut plerisque moris est. Hoc enim accidunt et oris plurima uitia in peregrinum sonum corrupti et sermonis, cui cum Graecae figurae adsidua consuetudine haeserunt, in diuersa quoque loquendi ratione pertinacissime durant.
14 – Non longe itaque Latina subsequi debent et cito pariter ire. Ita fiet ut, cum aequali cura linguam utramque tueri coeperimus, neutra alteri officiat.

12 – Ritengo preferibile che il fanciullo cominci dalla lingua greca, dato che il Latino – che è la nostra lingua-madre – volenti o nolenti lo assimilerà (comunque), e poi perché bisogna insegnare per prime le discipline greche, dalle quali son derivate anche le nostre.
13 – Ciononostante, non vorrei che ciò avvenisse in modo così scontato tal che parli e impari soltanto il greco, secondo (l’odierna) moda diffusa.
Così, infatti, si verificano altresì numerosi difetti di pronuncia – deviata verso l’inflessione straniera – e di linguaggio: tal che una volta ch’essi si siano fissati in virtù d’una assidua frequentazione del modo di parlare greco, perdurano in modo molto pertinace anche qualora si assuma una diversa parlata.
14 – E dunque, (lo studio del) Latino deve seguire a ruota (quello del greco), e ben presto (essi devono) procedere insieme, di modo che, avendo iniziato a coltivare con egual cura entrambe le lingue, nessuna delle due farà d’ostacolo all’altra.

Institutio oratoria, II, 5, 13-14-15-16 (“Gli studenti devono esercitarsi attivamente”)

13 – Neque solum haec ipse debebit docere praeceptor, sed frequenter interrogare et iudicium discipulorum experiri. Sic audientibus securitas aberit nec quae dicentur superfluent aures: simul ad id perducentur quod ex hoc quaeritur, ut inueniant ipsi et intellegant. Nam quid aliud agimus docendo eos quam ne semper docendi sint?
14 – Hoc diligentiae genus ausim dicere plus conlaturum discentibus quam omnes omnium artes, quae iuuant sine dubio multum, sed latiore quadam comprensione per omnes quidem species rerum cotidie paene nascentium ire qui possunt?
15 – Sicut de re militari quamquam sunt tradita quaedam praecepta communia, magis tamen proderit scire qua ducum quisque ratione in quali re tempore loco sit sapienter usus aut contra: nam in omnibus fere minus ualent praecepta quam experimenta.
16 – An vero declamabit quidem praeceptor ut sit exemplo suis auditoribus: non plus contulerint lecti Cicero aut Demosthenes? Corrigetur palam si quid in declamando discipulus errauerit: non potentius erit emendare orationem, quin immo etiam iucundius? Aliena enim uitia reprendi quisque mauult quam sua.

13 – E il docente non dovrà soltanto insegnare queste cose, ma dovrà anche interrogare di frequente gli alunni ed esercitare la loro capacità di giudizio. Così gli allievi non saranno negligenti e quanto verrà detto non sfuggirà alle loro orecchie; nello stesso tempo li condurremo al punto di scoprire e comprendere da soli, che è poi ciò che si richiede: insegnando infatti cos’altro facciamo se non evitar loro di dover sempre imparare?
14 – Oserei dire che questo genere di scrupolo gioverà agli alunni più di tutte le tecniche di tutti i maestri, che senza dubbio sono di grande aiuto, ma che mi chiedo come possano tener dietro con una adeguata ampiezza di respiro alle realtà che nascono praticamente ogni giorno.
15 – Così come nel campo della tecnica militare, benché siano stati tramandati alcuni precetti generali, sarà comunque più utile sapere con quale criterio ciascun comandante si sia mosso più o meno saggiamente in una determinata circostanza, in un dato tempo, in un dato luogo: quasi sempre infatti la teoria vale meno dell’esperienza pratica.
16 – L’insegnante declamerà per fornire un esempio al suo uditorio: ma non serviranno forse di più Cicerone e Demostene letti direttamente? Se l’alunno commetterà un errore nella declamazione, venga corretto pubblicamente: non sarà più proficuo, e anzi più piacevole correggere un’orazione? Tutti infatti preferiscono la correzione degli errori altrui piuttosto che dei propri.

“Giudizio su Seneca scrittore”

Ex industria Senecam in omni genere eloquentiae distuli, propter vulgatam falso de me opinionem qua damnare eum et invisum quoque habere sum creditus. Quod accidit mihi dum corruptum et omnibus vitiis fractum dicendi genus revocare ad severiora iudicia contendo: tum autem solus hic fere in manibus adulescentium fuit. Quem non equidem omnino conabar excutere, sed potioribus praeferri non sinebam, quos ille non destiterat incessere, cum diversi sibi conscius generis placere se in dicendo posse quibus illi placerent diffideret. Amabant autem eum magis quam imitabantur, tantumque ab illo defluebant quantum ille ab antiquis descenderat. Foret enim optandum pares ac saltem proximos illi viro fieri. Sed placebat propter sola vitia, et ad ea se quisque dirigebat effingenda quae poterat: deinde cum se iactaret eodem modo dicere, Senecam infamabat. Cuius et multae alioqui et magnae virtutes fuerunt, ingenium facile et copiosum, plurimum studii, multa rerum cognitio, in qua tamen aliquando ab iis quibus inquirenda quaedam mandabat deceptus est.

Di proposito ho rimandato il giudizio su Seneca in ogni genere di eloquenza per una falsa opinione divulgatasi nei miei riguardi, opinione secondo la quale si è creduto che io lo condannassi e anzi che lo odiassi. Ciò capitò quando cercavo di riportare a gusti più severi lo stile corrotto e rovinato da difetti di ogni genere: allora invero era quasi il solo autore nelle mani dei giovani. Io, in verità, non cercavo di toglierlo (loro) del tutto ma non tolleravo che fosse preferito ad altri migliori, che egli non aveva cessato di avversare; consapevole del suo stile diverso credeva di non potere piacere, nel dire, in quelle cose in cui essi piacevano. Più che imitare, lo amavano e si allontanavano da lui così come egli aveva fatto con gli antichi. Infatti sarebbe desiderabile che fossero a lui pari o almeno vicini. Ma piaceva per i suoi soli difetti ed ognuno si volgeva ad imitare quello che poteva; di poi vantandosi di scrivere come Seneca, gli faceva torto. Del resto molte e grandi furono le sue virtù, l’ingegno pronto e ricco, moltissimo lo studio,. molta la dottrina, nella quale tuttavia fu talvolta ingannato da questi, ai quali affidava qualche ricerca.

Institutio oratoria, XI, 2, 11-12-13

11 – Artem autem memoriae primus ostendisse dicitur Simonides, cuius vulgata fabula est: cum pugili coronato carmen, quale componi victoribus solet, mercede pacta scripsisset, abnegatam ei pecuniae partem quod more poetis frequentissimo degressus in laudes Castoris ac Pollucis exierat: quapropter partem ab iis petere quorum facta celebrasset iubebatur.
12 – Et persolverunt, ut traditum est: nam cum esset grande convivium in honorem eiusdem victoriae atque adhibitus ei cenae Simonides, nuntio est excitus, quod eum duo iuvenes equis advecti desiderare maiorem in modum dicebantur. Et illos quidem non invenit, fuisse tamen gratos erga se deos exitu comperit.
13 – Nam vix eo ultra limen egresso triclinium illud supra convivas corruit, atque ita confudit ut non ora modo oppressorum sed membra etiam omnia requirentes ad sepulturam propinqui nulla nota possent discernere. tum Simonides dicitur memor ordinis quo quisque discubuerat corpora suis reddidisse.

11 – Si dice poi che il primo ad aver scoperto l’arte della memoria sia stato Simonide. La sua storia è nota a tutti: egli, dopo aver pattuito una ricompensa, aveva scritto, in onore di un pugile vittorioso, un epinicio del tipo di quelli che vengono di solito composti in onore dei vincitori; era successo però che una parte di denaro gli era stata negata con il pretesto che aveva fatto una digressione – si tratta di un’usanza molto frequente nei poeti – per tessere le lodi di Castore e Polluce; per questo motivo, gli era stato ordinato di chiedere la parte mancante di denaro a coloro di cui aveva celebrato le gesta.
12 – E gli dèi lo pagarono, secondo quello che si racconta: mentre infatti si teneva, in onore di quella stessa vittoria, un grande banchetto al quale anche Simonide era stato invitato, al poeta fu riferito che due giovani a cavallo avevano bisogno di vederlo immediatamente. E Simonide, a dir la verità, fuori dal palazzo non trovò nessun giovane, ma capì dall’esito della vicenda che gli dèi gli erano stati riconoscenti.
13 – Era infatti appena uscito oltre la soglia della casa quando il tetto della sala da pranzo crollò sopra i convitati, creando un tale disastro che i parenti, venuti a cercare i corpi per dare loro sepoltura, non furono in grado di riconoscere da nessun particolare non solo i volti dei caduti, ma nemmeno le loro membra. Si dice allora che Simonide, che si ricordava l’ordine dei commensali a tavola, abbia restituito i cadaveri ai loro parenti.