“Azioni e reazioni durante un assedio”

Magnus fons aquae sub ipsius oppidi muro prorumpebat. Itaque a nostris extruitur agger, in quo alta turris collocatur, non quidem quae menibus adaequet sed quae fontis fastigium superet. Ex qua cum tela tormentis iacerenturad fontis aditum, oppidani a fonte removebantur: qua re non solum homines, sed pecora atqu iumenta siti consumebantur. Quo malo perterriti, oppidani cupas sevo, pice, scandulis complebant; eas ardentes in opera provolvebant eodemque tempore acerrime pugnabant, ne Romani incendium restringuere possent. Magna repente in ipsis operibus flamma exstitit. Quaecumque enim per locum praecipitem missa erant, ea, vineis et aggere suppressa, incendebant id ipsium quod morabatur. Milites nostri, qui periculoso genere proelii premebantur, tamen omnia fortissimo sustinebant animo; quisquis in operibus erat, telis hostium flammaeque se praebebat.

Una grande fonte sgorgava dal muro della stessa città. E così dai nostri venne costruita una diga, nella quale venne collocata un’alta torre, che doveva non tanto raggiungere l’altezza delle mura ma superare l’altezza della fonte. Dalla torre le macchine da lancio scagliavano dardi verso l’accesso alla fonte e gli abitanti non potevano rifornirsi senza pericolo così non solo il bestiame e i giumenti soffrivano la sete, ma anche la grande massa dei nemici. Atterriti da questo male, gli abitanti riempivano barili di sego, pece, assicelle, gli davano fuoco e li facevano rotolare e nello stesso tempo combattevano strenuamente, perchè i Romani non potessero estinguere l’incendio. All’improvviso nelle stesse opere scoppiò una grande fiamma. Tutte erano mandate in un luogo in discesa, quelle, ostacolate dalle vigne e dal campo, incendiavano ciò stesso che tratteneva. I nostri soldati, che erano premuti dal pericoloso tipo di combattimento, tuttavia sostenevano ogni cosa con grande animo, chiunque era in opera, si offriva ai dardi dei nemici e alle fiamme.

De Bello Gallico, VIII, Prologo

Coactus assiduis tuis vocibus, Balbe, cum cotidiana mea recusatio non difficultatis excusationem, sed inertiae videretur deprecationem habere, rem difficillimam suscepi. Caesaris nostri commentarios rerum gestarum Galliae, non comparantibus superioribus atque insequentibus eius scriptis, contexui novissimumque imperfectum ab rebus gestis Alexandriae confeci usque ad exitum non quidem civilis dissensionis, cuius finem nullum videmus, sed vitae Caesaris. Quos utinam qui legent scire possint quam invitus susceperim scribendos, qua facilius caream stultitiae atque arrogantiae crimine, qui me mediis interposuerim Caesaris scriptis. Constat enim inter omnes nihil tam operose ab aliis esse perfectum, quod non horum elegantia commentariorum superetur: qui sunt editi, ne scientia tantarum rerum scriptoribus deesset, adeoque probantur omnium iudicio ut praerepta, non praebita, facultas scriptoribus videatur. Cuius tamen rei maior nostra quam reliquorum est admiratio: ceteri enim, quam bene atque emendate, nos etiam, quam facile atque celeriter eos perfecerit scimus. Erat autem in Caesare cum facultas atque elegantia summa scribendi, tum verissima scientia suorum consiliorum explicandorum. Mihi ne illud quidem accidit, ut Alexandrino atque Africano bello interessem; quae bella quamquam ex parte nobis Caesaris sermone sunt nota, tamen aliter audimus ea, quae rerum novitate aut admiratione nos capiunt, aliter, quae pro testimonio sumus dicturi. Sed ego nimirum, dum omnes excusationis causas colligo ne cum Caesare conferar, hoc ipsum crimen arrogantiae subeo, quod me iudicio cuiusquam existimem posse cum Caesare comparari. Vale.

Costretto dalle tue assidue esortazioni, Balbo, visto che il mio quotidiano rifiuto non sembrava ammettere la scusa della difficoltà, ma incontrava il biasimo dell’inerzia, ho assunto un compito davvero difficile: i commentari del nostro Cesare sulle sue imprese in Gallia, li ho integrati con le vicende che non comparivano e li ho collegati ai suoi scritti successivi; inoltre, l’ultima opera, da lui lasciata incompiuta, l’ho terminata a partire dalle imprese alessandrine per arrivare non dico al termine della guerra civile, di cui non vediamo ancora la fine, ma alla morte di Cesare. Vorrei che i lettori sapessero quanto malvolentieri mi sia assunto il compito di scriverli, per essere con più facilità assolto dall’accusa di stoltezza e arroganza, io che ho inserito tra gli scritti di Cesare i miei. Tutti lo sanno: non c’è opera di altri autori che sia stata composta con altrettanta cura e che non sia superata dall’eleganza di questi commentari. Furono pubblicati perché agli storici non mancasse il materiale su imprese così grandi; ma tutti ne riconobbero il valore, al punto che sembrava preclusa, e non offerta, la possibilità di narrarle. In tal senso, comunque, la nostra ammirazione supera quella degli altri: perché tutti ne vedono la bellezza e la perfezione. ma noi sappiamo anche con quale facilità e rapidità li abbia composti. Cesare, infatti, aveva sia una straordinaria disposizione ed eleganza nello scrivere, sia un’autentica capacità di illustrare i suoi disegni. Io non ho partecipato direttamente alla guerra alessandrina e africana; sebbene in parte esse mi siano note per bocca di Cesare, tuttavia un conto è udire i fatti che ci colpiscono per la loro singolarità o che ci riempiono d’ammirazione, un altro è esporre gli avvenimenti per testimonianza diretta. Ma proprio mentre cerco ogni motivo di scusa per non essere accostato a Cesare, mi espongo all’accusa di arroganza, per aver pensato che qualcuno possa paragonarmi a lui. Stammi bene.

De Bello Gallico, VIII, 9

Cum repente instructas velut in acie certo gradu legiones accedere Galli viderent, quorum erant ad Caesarem plena fiduciae consilia perlata, sive certamiuis periculo sive subito adventu sive exspectatione nostri consili copias instruunt pro castris nec loco superiore decedunt. Caesar, etsi dimicare optaverat, tamen admiratus tantam multitudinem hostium valle intermissa magis in altitudinem depressa quam late patente castra castris hostium confert. Haec imperat vallo pedum XII muniri, loriculam pro [hac] ratione eius altitudinis inaedificari; fossam duplicem pedum denum quinum lateribus deprimi directis; turres excitari crebras in altitudinem trium tabulatorum, pontibus traiectis constratisque coniungi, quorum frontes viminea loricula munirentur; ut ab hostibus duplici fossa, duplici propugnatorum ordine defenderentur, quorum alter ex pontibus, quo tutior altitudine esset, hoc audacius longiusque permitteret tela, alter, qui propior hostem in ipso vallo collocatus esset, ponte ab incidentibus telis tegeretur. Portis fores altioresque turres imposuit.

Non appena vedono all’improvviso le nostre legioni, schierate a battaglia, avanzare con passo deciso, i Galli, benché i loro propositi, secondo le informazioni avute da Cesare, fossero molto baldanzosi, schierano le truppe dinnanzi al campo e non scendono dalle alture, forse per evitare i rischi dello scontro o per la sorpresa del nostro arrivo repentino oppure in attesa delle nostre mosse. Cesare, anche se prima desiderava il combattimento, colpito adesso dalla massa degli avversari, da cui ci separava una valle più profonda che larga, piazza il campo davanti a quello nemico. Ordina di fortificarlo con un vallo di dodici piedi e di aggiungervi un piccolo parapetto di altezza proporzionata; fa scavare una coppia di fosse di quindici piedi a pareti verticali, erigere parecchie torri a tre piani, raccordate mediante ponti, coperti e protetti verso l’esterno da un parapetto di graticcio. Così, la difesa era assicurata da una coppia di fosse e da un duplice ordine di combattenti: il primo ordine, dai ponti, più sicuro per via dell’altezza, poteva scagliare le frecce con maggior audacia e più lontano; l’altro, situato più vicino al nemico, proprio sul vallo, grazie ai ponti stessi era protetto dalla pioggia di dardi. Dota di battenti le porte e le affianca con torri più alte.

De Bello Gallico, VIII, 8

Quae Caesar consentientibus pluribus cum cognosset atque ea quae proponerentur consilia plena prudentiae longeque a temeritate barbarorum remota esse iudicaret, omnibus rebus inserviendum statuit, quo celerius hostis contempta sua paucitate prodiret in aciem. Singularis enim virtutis veterrimas legiones VII, VIII, VIIII habebat, summae spei delectaeque iuventutis XI, quae octavo iam stipendio tamen in collatione reliquarum nondum eandem vetustatis ac virtutis ceperat opinionem. Itaque consilio advocato, rebus eis quae ad se essent delatae omnibus eitis animos multitudinis confirmat. Si forte hostes trium legionum numero posset elicere ad dimicandum, agminis ordinem ita constituit, ut legio septima, octava, nona ante omnia irent impedimenta, deinde omnium impedimentorum agmen, quod tamen erat mediocre, ut in expeditionibus esse consuevit, cogeret undecima, ne maioris multitudinis species accidere hostibus posset quam ipsi depoposcissent. Hac ratione paene quadrato agmine instructo in conspectum hostium celerius opinione eorum exercitum adducit.

Quando da diverse e concordi fonti conobbe il piano nemico e giudicò molto accorti i propositi che gli venivano illustrati e ben lontani dalla solita avventatezza dei barbari, decise di sfruttare ogni mezzo per indurre gli avversari a scendere in campo al più presto, per disprezzo dell’esiguità dei suoi effettivi. Aveva con sé, infatti, le legioni più anziane, la settima, l’ottava, la nona, straordinarie per valore, nonché una legione di belle speranze, composta da giovani scelti, l’undicesima, che già da otto anni riceveva la paga, ma, in confronto alle altre, non si era ancora guadagnata la stessa fama di provato valore. Così, convocato il consiglio di guerra, espone tutte le notizie che gli erano state riferite e rafforza il coraggio delle truppe. Per attirare i nemici a battaglia, illudendoli di avere di fronte tre legioni, fissa l’ordine di marcia come segue: la settima, l’ottava e la nona legione dovevano procedere in testa, seguite dalla colonna delle salmerie, poco numerose ovviamente, come succede di solito nelle spedizioni; l’undicesima doveva costituire la coda, per non mostrare ai nemici una consistenza numerica superiore a quanto essi sperassero. Con tale schieramento, formando in pratica il quadrato, arriva con i suoi in vista dei nemici più presto di quanto essi pensassero.

De Bello Gallico, VIII, 7

His copiis coactis ad Bellovacos proficiscitur castrisque in eorum finibus positis equitum turmas dimittit in omnes partes ad aliquos excipiendos ex quibus hostium consilia cognosceret. Equites officio functi renuntiant paucos in aedificiis esse inventos, atque hos, non qui agrorum colendorum causa remansissent (namque esse undique diligenter demigratum), sed qui speculandi causa essent remissi. A quibus cum quaereret Caesar quo loco multitudo esset Bellovacorum quodve esset consilium eorum, inveniebat Bellovacos omnes qui arma ferre possent in unum locum convenisse, itemque Ambianos, Aulercos, Caletos, Veliocasses, Atrebatas; locum castris excelsum in silva circumdata palude delegisse, impedimenta omnia in ulteriores silvas contulisse. Complures esse principes belli auctores, sed multitudinem maxime Correo obtemperare, quod ei summo esse odio nomen populi Romani intellexissent. Paucis ante diebus ex his castris Atrebatem Commium discessisse ad auxilia Germanorum adducenda; quorum et vicinitas propinqua et multitudo esset infinita. Constituisse autem Bellovacos omnium principum consensu, summa plebis cupiditate, si, ut diceretur, Caesar cum tribus legionibus veniret, offerre se ad dimicandum, ne miseriore ac duriore postea condicione cum toto exercitu decertare cogerentur; si maiores copias adduceret, in eo loco permanere quem delegissent, pabulatione autem, quae propter anni tempus cum exigua tum disiecta esset, et frumentatione et reliquo commeatu ex insidiis prohibere Romanos.

Riunite queste truppe, punta sui Bellovaci, stabilisce il campo nei loro territori e manda dappertutto squadroni di cavalleria per catturare prigionieri, che lo avrebbero messo al corrente dei piani nemici. I cavalieri, eseguito l’ordine, riferiscono di aver trovato solo pochi nemici in case isolate, ma non si trattava di gente rimasta a coltivare i campi (tutte le zone, infatti, erano state scrupolosamente evacuate), bensì di osservatori rispediti a sorvegliare le nostre mosse. Avendo chiesto ai prigionieri dove si trovava il grosso dei Bellovaci e quali ne fossero i disegni, Cesare ricevette le seguenti indicazioni: tutti i Bellovaci in grado di portare armi si erano radunati in un solo luogo, come pure gli Ambiani, gli Aulerci, i Caleti, i Veliocassi, gli Atrebati; avevano scelto per l’accampamento una località in alto, in una selva circondata da una palude e avevano ammassato tutti i bagagli nei boschi alle spalle. Parecchi erano i capi, fautori della guerra, ma la massa obbediva in particolare a Correo, in quanto era noto il suo odio mortale per il nome del popolo romano. Pochi giorni prima, l’atrebate Commio si era allontanato dal campo in cerca di rinforzi presso i Germani, che erano vicini e di numero sterminato. Poi, i Bellovaci, col consenso di tutti i capi, tra l’entusiasmo generale, avevano deciso di esporsi a un combattimento, se davvero Cesare fosse giunto con tre legioni, come si diceva; in tal modo, non sarebbero stati costretti, in seguito, a lottare contro tutto l’esercito in condizioni più difficili e ardue; se, invece, Cesare avesse condotto truppe più numerose, si sarebbero attestati nella posizione che avevano scelto e avrebbero impedito ai Romani, mediante imboscate, la raccolta di foraggio (che non solo scarseggiava, ma era anche disperso qua e là per via della stagione), nonché di grano e di altri viveri.

De Bello Gallico, VIII, 6

Caesar tempore anni difficillimo, cum satis haberet convenientes manus dissipare, ne quod initium belli nasceretur, quantumque in ratione esset, exploratum haberet sub tempus aestivorum nullum summum bellum posse conflari, Gaium Trebonium cum duabus legionibus, quas secum habebat, in hibernis Cenabi collocavit; ipse, cum crebris legationibus Remorum certior fieret Bellovacos, qui belli gloria Gallos omnes Belgasque praestabant, finitimasque his civitates duce Correo Bellovaco et Commio Atrebate exercitus comparare atque in unum locum cogere, ut omni multitudine in fines Suessionum, qui Remis erant attributi, facerent impressionem, pertinere autem non tantum ad dignitatem sed etiam ad salutem suam iudicaret nullam calamitatem socios optime de re publica meritos accipere, legionem ex hibernis evocat rursus undecimam; litteras autem ad Gaium Fabium mittit, ut in fines Suessionum legiones duas quas habebat adduceret, alteramque ex duabus ab Labieno arcessit. Ita, quantum hibernorum opportunitas bellique ratio postulabat, perpetuo suo labore in vicem legionibus expeditionum onus iniungebat.

Cesare, in una stagione davvero ostile, al fine di prevenire l’inizio di una guerra riteneva di aver fatto a sufficienza per disperdere le forze nemiche che si stavano concentrando ed era convinto, per quanto si poteva ragionevolmente supporre, che nessun grave conflitto potesse scoppiare fino all’estate. Allora, alloggiò a Cenabo, nei quartieri d’inverno, C. Trebonio alla testa delle due legioni che aveva con sé. I Remi, con frequenti ambascerie, lo informavano che i Bellovaci, superiori a tutti i Galli e ai Belgi quanto a gloria militare, e i popoli limitrofi, sotto la guida del bellovaco Correo e dell’atrebate Commio, allestivano truppe e le radunavano in un solo luogo, per attaccare in massa le terre dei Suessioni, vassalli dei Remi. Che alleati benemeriti verso la nostra repubblica non patissero alcun torto, Cesare la ritenne questione riguardante non solo la sua dignità, ma anche la sua sicurezza. Perciò, richiama nuovamente dal campo invernale l’undicesima legione, poi invia una lettera a C. Fabio, perché guidi nei territori dei Suessioni le due legioni che aveva ai suoi ordini; a Labieno richiede una delle due legioni di cui disponeva. Così, conciliando le necessità dei campi invernali e le esigenze del conflitto, alle legioni imponeva a turno l’onere delle spedizioni, ma non concedeva mai riposo a se stesso.

De Bello Gallico, VIII, 55

Quo cum venisset, cognoscit per C. Marcellum consulem legiones duas ab se remissas, quae ex senatus consulto deberent ad Parthicum bellum duci, Cn. Pompeio traditas atque in Italia retentas esse. Hoc facto quamquam nulli erat dubium, quidnam contra Caesarem pararetur, tamen Caesar omnia patienda esse statuit, quoad sibi spes aliqua relinqueretur iure potius disceptandi quam belli gerendi.

Appena vi giunge, viene a sapere che, per iniziativa del console C. Marcello, le due legioni da lui fornite per la guerra contro i Parti, come da ordine del senato, erano invece state assegnate a Cn. Pompeo e trattenute in Italia. L’accaduto non lasciava dubbi su che cosa stessero tramando contro di lui, ma Cesare decise di sopportare tutto, finché gli restava qualche speranza di risolvere la questione in termini di diritto piuttosto che con le armi.

De Bello Gallico, VIII, 54

Fit deinde senatus consultum, ut ad bellum Parthi cum legio una a Cn. Pompeio, altera a C. Caesare mitteretur; neque obscure duae legiones uni detrahuntur. Nam Cn. Pompeius legionem primam, quam ad Caesarem miserat, confectam ex delectu provinciae Caesaris, eam tamquam ex suo numero dedit. Caesar tamen, cum de voluntate minime dubium esset adversariorum suorum, Pompeio legionem remisit et suo nomine quintam decimam, quam in Gallia citeriore habuerat, ex senatus consulto iubet tradi. In eius locum tertiam decimam legionem in Italiam mittit quae praesidia tueretur, ex quibus praesidiis quinta decima deducebatur. Ipse exercitui distribuit hiberna: C. Trebonium cum legionibus quattuor in Belgio collocat, C. Fabium cum totidem in Aeduos deducit. Sic enim existimabat tutissimam fore Galliam, si Belgae, quorum maxima virtus, Aedui, quorum auctoritas summa esset, exercitibus continerentur. Ipse in Italiam profectus est.

Il senato, in seguito, decise che per la guerra contro i Parti Cn. Pompeo e C. Cesare inviassero una legione a testa; ma è chiaro che le due legioni sono sottratte a uno solo. Cn. Pompeo, infatti, diede, come proveniente dalle sue, la prima legione, da lui inviata a Cesare dopo averla arruolata nella provincia di Cesare stesso. Quest’ultimo, tuttavia, benché non ci fossero dubbi sulle intenzioni dei suoi avversari, restituì la legione a Pompeo e, a proprio titolo, rispettando la delibera del senato, invia la quindicesima, dislocata in Gallia cisalpina. Al posto di questa, invia in Italia la tredicesima legione, a protezione dei posti di difesa evacuati dalla quindicesima. Assegna all’esercito i quartieri d’inverno: situa C. Trebonio in Belgio con quattro legioni e con altrettante invia C. Fabio nelle terre degli Edui. Pensava che, così, la Gallia sarebbe stata veramente sotto controllo, se le truppe avessero tenuto a bada i Belgi, che erano i più valorosi, e gli Edui, che godevano di grandissimo prestigio. Dal canto suo, parte per l’Italia.

De Bello Gallico, VIII, 53

Magnum hoc testimonium senatus erat universi conveniensque superiori facto. Nam Marcellus proximo anno, cum impugnaret Caesaris dignitatem, contra legem Pompei et Crassi rettulerat ante tempus ad senatum de Caesaris provinciis, sententiisque dictis discessionem faciente Marcello, qui sibi omnem dignitatem ex Caesaris invidia quaerebat, senatus frequens in alia omnia transiit. Quibus non frangebantur animi inimicorum Caesaris, sed admonebantur quo maiores pararent necessitates, quibus cogi posset senatus id probare, quod ipsi constituissent.

Era una prova lampante dell’unanimità del senato e coincideva con quanto era accaduto in precedenza. L’anno prima, infatti, M. Marcello aveva cercato di scalzare Cesare dalla sua carica e, contro una legge di Pompeo e Crasso, aveva tenuto al senato una relazione sulle province di Cesare, prima della scadenza del mandato. Dopo la discussione, Marcello, che ricercava ogni prestigio politico dalla sua ostilità contro Cesare, aveva messo ai voti la sua proposta, ma il senato, compatto, l’aveva respinta. L’insuccesso non aveva demoralizzato i nemici di Cesare, anzi li incitava a prepararsi a misure più gravi, con cui costringere il senato ad approvare ciò che loro volevano.

De Bello Gallico, VIII, 52

Cum omnes regiones Galliae togatae Caesar percucurrisset, summa celeritate ad exercitum Nemetocennam rediit legionibusque ex omnibus hibernis ad fines Treverorum evocatis eo profectus est ibique exercitum lustravit. T. Labienum Galliae togatae praefecit, quo maiore commendatione conciliaretur ad consulatus petitionem. Ipse tantum itinerum faciebat, quantum satis esse ad mutationem locorum propter salubritatem existimabat. Ibi quamquam crebro audiebat Labienum ab inimicis suis sollicitari certiorque fiebat id agi paucorum consiliis, ut interposita senatus auctoritate aliqua parte exercitus spoliaretur, tamen neque de Labieno credidit quidquam neque contra senatus auctoritatem ut aliquid faceret potuit adduci. Iudicabat enim liberis sententiis patrum conscriptorum causam suam facile obtineri. Nam C. Curio, tribunus plebis, cum Caesaris causam dignitatemque defendendam suscepisset, saepe erat senatui pollicitus, si quem timor armorum Caesaris laederet, et quoniam Pompei dominatio atque arma non minimum terrorem foro inferrent, discederet uterque ab armis exercitusque dimitteret: fore eo facto liberam et sui iuris civitatem. Neque hoc tantum pollicitus est, sed etiam sc. per discessionem facere coepit; quod ne fieret consules amicique Pompei iusserunt atque ita rem morando discusserunt.

Dopo aver percorso tutte le regioni della Gallia togata, con estrema rapidità Cesare rientrò a Nemetocenna presso l’esercito; richiamate nelle terre dei Treveri le legioni che erano nei campi invernali, le raggiunse e passò in rassegna le truppe. Pose T. Labieno a capo della Gallia togata, per guadagnare un maggior favore alla sua candidatura al consolato. Spostava l’esercito di tanto, quanto gli pareva utile mutare i luoghi per ragioni igieniche. In quel periodo gli giungeva ripetutamente voce che i suoi avversari facevano pressioni su Labieno e veniva avvertito che, per le manovre di pochi, si cercava di sottrargli parte delle truppe mediante un intervento del senato. Tuttavia, non prestò fede alle voci su Labieno, né si lasciò indurre ad atti che contrastassero con l’autorità del senato. Era convinto, infatti, che se vi fosse stata una libera votazione dei senatori, la sua causa avrebbe prevalso con facilità. E C. Curione, tribuno della plebe, avendo preso a difendere le ragioni e l’onore di Cesare, aveva più volte detto al senato che, se il timore delle armi di Cesare infastidiva qualcuno, il potere assoluto e gli armamenti di Pompeo incutevano al foro non meno terrore, e aveva proposto che entrambi deponessero le armi e congedassero i loro eserciti: la città, così, sarebbe ritornata libera e indipendente. E non si limitò a proporlo, ma prese, lui, l’iniziativa di una votazione per spostamento: a essa si opposero i consoli e gli amici di Pompeo e tirarono in lungo la cosa fino a che l’assemblea non si sciolse.

De Bello Gallico, VIII, 51

Exceptus est Caesaris adventus ab omnibus municipiis et coloniis incredibili honore atque amore. Tum primum enim veniebat ab illo universae Galliae bello. Nihil relinquebatur quod ad ornatum portarum, itinerum, locorum omnium qua Caesar iturus erat excogitari poterat. Cum liberis omnis multitudo obviam procedebat, hostiae omnibus locis immolabantur, tricliniis stratis fora templaque occupabantur, ut vel exspectatissimi triumphi laetitia praecipi posset. Tanta erat magnificentia apud opulentiores, cupiditas apud humiliores.

L’arrivo di Cesare fu accolto con incredibili onoranze e manifestazioni d’affetto da parte dei municipi e delle colonie. Era la prima volta, infatti, che giungeva dopo la famosa sollevazione generale della Gallia. Di tutto ciò che si poteva escogitare, niente fu tralasciato per ornare le porte, le vie e tutti i luoghi in cui Cesare doveva passare. Tutta la popolazione, insieme ai bambini, gli si faceva incontro, dappertutto venivano immolate vittime, le piazze e i templi erano pieni di mense imbandite: si poteva pregustare la gioia di un trionfo davvero attesissimo. Così grande era la magnificenza dispiegata dai ricchi, l’entusiasmo manifestato dai poveri.

De Bello Gallico, VIII, 50

Ipse hibernis peractis contra consuetudinem in Italiam quam maximis itineribus est profectus, ut municipia et colonias appellaret, quibus M. Antoni quaestoris sui, commendaverat sacerdoti petitionem. Contendebat enim gratia cum libenter pro homine sibi coniunctissimo, quem paulo ante praemiserat ad petitionem, tum acriter contra factionem et potentiam paucorum, qui M. Antoni repulsa Caesaris decedentis gratiam convellere cupiebant. Hunc etsi augurem prius faetum quam Italiam attingeret in itinere audierat, tamen non minus iustam sibi causam municipia et colonias adeundi existimavit, ut eis gratias ageret, quod frequentiam atque officium suum Antonio praestitissent, simulque se et honorem suum sequentis anni commendaret, propterea quod insolenter adversarii sui gloriarentur L. Lentulum et C. Marcellum consules creatos qui omnem honorem et dignitatem Caesaris spoliarent, ereptum Ser. Galbae consulatum, cum is multo plus gratia suffragiisque valuisset, quod sibi coniunctus et familiaritate et consuetudine legationis esset.

Alla fine dell’inverno, contro la sua abitudine, si diresse a marce forzate in Italia, per rivolgersi ai municipi e alle colonie, a cui aveva raccomandato la candidatura al sacerdozio di M. Antonio, suo questore. Da un lato, ben volentieri faceva valere tutto il suo prestigio per un uomo a lui così legato, che poco prima aveva mandato a presentare la sua candidatura; dall’altro voleva colpire duramente il potente partito di quei pochi che, con una sconfitta elettorale di M. Antonio, desideravano minare l’autorità di Cesare, allo scadere della sua carica. E anche se durante il viaggio, prima di giungere in Italia, aveva saputo che M. Antonio era stato eletto augure, stimò di avere, nondimeno, un buon motivo per visitare i municipi e le colonie, perché voleva ringraziarli di aver accordato ad Antonio il loro favore con un’affluenza davvero massiccia. Allo stesso tempo voleva raccomandare la propria candidatura per il consolato dell’anno successivo, visto che i suoi avversari con insolenza menavano vanto sia per l’elezione di L. Lentulo e C. Marcello, creati consoli, al solo scopo di spogliare Cesare di ogni carica e dignità, sia di aver sottratto il consolato a Ser. Galba, che, nonostante godesse di maggior credito e avesse raccolto più voti, era stato escluso per i suoi vincoli di parentela con Cesare e la lunga militanza come suo legato.

De Bello Gallico, VIII, 5

Cum fama exercitus ad hostes esset perlata, calamitate ceterorum ducti Carnutes desertis vicis oppidisque, quae tolerandae hiemis causa constitutis repente exiguis ad necessitatem aedificiis incolebant (nuper enim devicti complura oppida dimiserant), dispersi profugiunt. Caesar erumpentes eo maxime tempore acerrimas tempestates cum subire milites nollet, in oppido Carnutum Cenabo castra ponit atque in tecta partim Gallorum, partim quae coniectis celeriter stramentis tentoriorum integendorum gratia erant inaedificata, milites compegit. Equites tamen et auxiliarios pedites in omnes partes mittit quascumque petisse dicebantur hostes; nec frustra: nam plerumque magna praeda potiti nostri revertuntur. Oppressi Carnutes hiemis difficultate, terrore periculi, cum tectis expulsi nullo loco diutius consistere auderent nec silvarum praesidio tempestatibus durissimis tegi possent, dispersi magna parte amissa suorum dissipantur in finitimas civitates.

Quando la notizia di truppe in movimento giunse ai nemici, i Carnuti, edotti dalle sciagure altrui, abbandonano i villaggi e le città in cui abitavano dopo aver frettolosamente allestito piccole costruzioni per ripararsi dall’inverno (infatti, in seguito alla recente sconfitta avevano perduto parecchie città) e fuggono sbandati. Cesare non voleva che i soldati affrontassero i rigori della stagione, tremendi proprio in quel periodo: pone il campo in una città dei Carnuti, Cenabo, ammassa parte dei soldati nelle case dei Galli, parte in ripari approntati gettando alla svelta paglia sulle tende. Comunque, manda i cavalieri e i fanti ausiliari in tutte le direzioni in cui si diceva che si fossero mossi i nemici. E non invano: i nostri, infatti, rientrano per lo più con un ricco bottino. I Carnuti si trovarono stretti dalle difficoltà dell’inverno e atterriti dal pericolo; cacciati dalle loro case, non osavano fermarsi stabilmente in nessun luogo, né potevano sfruttare il riparo delle selve per l’inclemenza della stagione. Divisi, perdono gran parte dei loro e si sparpagliano presso le popolazioni vicine.

De Bello Gallico, VIII, 49

Caesar in Belgio cum hiemaret, unum illud propositum habebat, continere in amicitia civitates, nulli spem aut causam dare armorum. Nihil enim minus volebat quam sub decessu suo necessitatem sibi aliquam imponi belli gerendi, ne, cum exercitum deducturus esset, bellum aliquod relinqueretur quod omnis Gallia libenter sine praesenti periculo susciperet. Itaque honorifice civitates appellando, principes maximis praemiis adficiendo, nulla onera iniungendo defessam tot adversis proeliis Galliam condicione parendi meliore facile in pace continuit.

Cesare, mentre svernava in Belgio, mirava a un unico scopo: tener legate all’alleanza le varie genti e non fornire a nessuno speranze o motivi di guerra. Infatti, niente gli pareva meno auspicabile, alla vigilia della sua uscita di carica, che trovarsi costretto ad affrontare un conflitto; altrimenti, al momento della sua partenza con l’esercito, si sarebbe lasciato alle spalle una guerra che tutta la Gallia avrebbe intrapreso con entusiasmo, liberata dal pericolo della sua presenza. Così, distribuendo titoli onorifici ai vari popoli, accordando grandissime ricompense ai loro principi, non imponendo nuovi oneri, la Gallia, prostrata da tante sconfitte, riuscì con facilità a tenerla in pace, garantendo più lieve l’assoggettamento.

De Bello Gallico, VIII, 48

Erat attributus Antonio praefectus equitum C. Volusenus Quadratus qui cum eo hibernaret. Hunc Antonius ad persequendum equitatum hostium mittit. Volusenus ad eam virtutem, quae singularis erat in eo, magnum odium Commi adiungebat, quo libentius id faceret quod imperabatur. Itaque dispositis insidiis saepius equites eius adgressus secunda proelia faciebat. Novissime, cum vehementius contenderetur, ac Volusenus ipsius intercipiendi Commi cupiditate pertinacius eum cum paucis insecutus esset, ille autem fuga vehementi Volusenum produxisset longius, inimicus homini suorum invocat fidem atque auxilium, ne sua vulnera per fidem imposita paterentur impunita, conversoque equo se a ceteris incautius permittit in praefectum. Faciunt hoc idem omnes eius equites paucosque nostros convertunt atque insequuntur. Commius incensum calcaribus equum coniungit equo Quadrati lanceaque infesta magnis viribus medium femur traicit Voluseni. Praefecto vulnerato non dubitant nostri resistere et conversis equis hostem pellere. Quod ubi accidit, complures hostium magno nostrorum impetu perculsi vulnerantur ac partim in fuga proteruntur, partim intercipiuntur; quod malum dux equi velocitate evitavit: graviter adeo vulneratus praefectus, ut vitae periculum aditurus videretur, refertur in castra. Commius autem sive expiato suo dolore sive magna parte amissa suorum legatos ad Antonium mittit seque et ibi futurum, ubi praescripserit, et ea facturum, quae imperarit, obsidibus firmat; unum illud orat, ut timori suo concedatur, ne in conspectum veniat cuiusquam Romani. Cuius postulationem Antonius cum iudicaret ab iusto nasci timore, veniam petenti dedit, obsides accepit. Scio Caesarem singulorum annorum singulos commentarios confecisse; quod ego non existimavi mihi esse faciendum, propterea quod insequens annus, L. Paulo C. Marcello consulibus, nullas habet magnopere Galliae res gestas. Ne quis tamen ignoraret, quibus in locis Caesar exercitusque eo tempore fuissent, pauca esse scribenda coniungendaque huic commentario statui.

Ad Antonio era stato assegnato il prefetto della cavalleria C. Voluseno Quadrato, che svernava con lui. Antonio lo manda a inseguire la cavalleria nemica. Voluseno, allo straordinario valore, accompagnava un odio feroce nei confronti di Commio, perciò obbedì all’ordine ancor più volontieri. Così, tendendo imboscate, attaccava con notevole frequenza i cavalieri nemici e dava vita a scontri coronati da successo. In ultimo, mentre si combatteva con particolare asprezza, Voluseno, con pochi dei suoi, insegue Commio con eccessiva ostinazione, per la smania di catturarlo; e quello, fuggendo a precipizio, costringe Voluseno ad allontanarsi troppo. Poi, nemico com’era di Voluseno, all’improvviso fa appello alla fedeltà e all’aiuto dei suoi, chiede loro di non lasciar invendicate le ferite che gli erano state inferte a tradimento: volge il cavallo e, spingendosi davanti a tutti, si lancia inaspettatamente contro il prefetto. Altrettanto fanno i suoi cavalieri: costringono i pochi nostri a volgere le spalle e li inseguono. Commio, pungolando ferocemente coi talloni il cavallo, affianca il destriero di Quadrato e, lancia in resta, gli trapassa con violenza la coscia. Vedendo il prefetto colpito, i nostri non esitano a bloccarsi di colpo, volgono i cavalli e respingono il nemico. Subito molti degli avversari, scombussolati dall’impetuoso assalto dei nostri, vengono feriti; alcuni cadono sotto gli zoccoli dei cavalli mentre cercavano la fuga, altri sono catturati. Il comandante nemico, grazie alla velocità del suo cavallo, riesce a scamparla; in quella battaglia vittoriosa, però, il prefetto romano rimase gravemente ferito, al punto che sembrava dovesse morire, e fu riportato all’accampamento. Ma Commio, vuoi, che sentisse placato il proprio rancore, vuoi per la perdita della maggior parte dei suoi, invia una legazione ad Antonio: sarebbe rimasto dove gli avesse ordinato e avrebbe obbedito a ogni comando, sancendo la promessa con l’invio di ostaggi; di una sola cosa lo pregava, che, in ragione del suo timore, gli fosse concesso di non comparire al cospetto di nessun romano. Antonio, giudicando che la richiesta nasceva da una giusta paura, accordò il permesso e accolse gli ostaggi. So che Cesare ha composto singoli commentari per ciascun anno, ma non ho ritenuto il caso di fare altrettanto, perché l’anno seguente, durante il consolato di L. Paolo e C. Marcello, non si verificarono in Gallia imprese di rilievo. Tuttavia, perché si sappia in quali zone rimasero in quell’anno Cesare e l’esercito, ho deciso di scrivere poche pagine e di unirle al presente commentario.

De Bello Gallico, VIII, 47

Ibi cognoscit Commium Atrebatem proelio cum equitatu suo contendisse. Nam cum Antonius in hiberna venisset, civitasque Atrebatum in officio esset, Commius, qui post illam vulnerationem, quam supra commemoravi, semper ad omnes motus paratus suis civibus esse consuesset, ne consilia belli quaerentibus auctor armorum duxque deesset, parente Romanis civitate cum suis equitibus latrociniis se suos que alebat infestisque itineribus commeatus complures, qui comportabantur in hiberna Romanorum, intercipiebat.

Qui lo avvertirono che l’atrebate Commio era venuto a battaglia con la sua cavalleria. Quando Antonio era giunto agli accampamenti invernali, il popolo degli Atrebati era rimasto fedele. Ma Commio, da quando era stato ferito – l’ho ricordato in precedenza – era sempre a disposizione dei suoi concittadini, pronto a ogni sollevazione, perché non mancasse, a chi voleva la guerra, un fomentatore e un capo. Adesso, poiché il suo popolo obbediva ai Romani, Commio viveva di scorrerie con i suoi cavalieri e, infestando le strade, intercettava spesso le colonne di rifornimenti dirette ai quartieri d’inverno dei Romani.

De Bello Gallico, VIII, 46

Ea re cognita Caesar, cum in omnibus partibus Galliae bene res geri videret iudicaretque superioribus aestivis Galliam devictam subactamque esse, Aquitaniam numquam adisset, per Publium Crassum quadam ex parte devicisset, cum duabus legionibus in eam partem Galliae est profectus, ut ibi extremum tempus consumeret aestivorum. Quam rem sicuti cetera celeriter feliciterque confecit. Namque omnes Aquitaniae civitates legatos ad Caesarem miserunt obsidesque ei dederunt. Quibus rebus gestis ipse equitum praesidio Narbonem profecto est, exercitum per legatos in hiberna deduxit: quattuor legiones in Belgio collocavit cum M. Antonio et C. Trebonio et P. Vatinio legatis, duas legiones in Aeduos deduxit, quorum in omni Gallia summam esse auctoritatem sciebat, duas in Turonis ad fines Carnutum posuit, quae omnem illam regionem coniunctam Oceano continerent, duas reliquas in Lemovicum finibus non longe ab Arvernis, ne qua pars Galliae vacua ab exercitu esset. Paucos dies ipse in provincia moratus, cum celeriter omnes conventus percucurrisset, publicas controversias cognosset, bene meritis praemia tribuisset (cognoscendi enim maximam facultatem habebat, quali quisque fuisset animo in totius Galliae defectione, quam sustinuerat fidelitate atque auxiliis provinciae illius), his confectis rebus ad legiones in Belgium se recipit hibernatque Nemetocennae.

Appena ne è informato, Cesare, constatato che in tutte le parti della Gallia le operazioni erano state condotte con successo, giudicando che dopo la campagna estiva dell\’anno precedente il paese era ormai vinto e piegato, visto che non si era mai recato in Aquitania, ma l’aveva solo parzialmente sconfitta grazie a P. Crasso, con due legioni si dirige in quella regione della Gallia, per spendervi l’ultimo periodo della campagna estiva. Come in tutti gli altri casi, porta a termine le operazioni con rapidità e successo. Infatti, tutti i popoli dell’Aquitania inviarono a Cesare emissari e gli consegnarono ostaggi. Quindi, con la scorta della cavalleria parte per Narbona e incarica i legati di condurre l’esercito ai quartieri d’inverno. Stanziò in Belgio quattro legioni con M. Antonio e i legati C. Trebonio e P. Vatinio; due le trasferì nelle terre degli Edui, di cui ben conosceva il prestigio in tutta la Gallia; presso i Turoni, al confine coi Carnuti, ne collocò due per tenere a bada tutta quella regione che si affacciava sull’Oceano; le due rimanenti le pose nei territori dei Lemovici, non lontano dagli Arverni, per non lasciare sguarnita nessuna parte della Gallia. Si trattenne in provincia pochi giorni, toccò rapidamente tutti i centri giudiziari, venne informato dei conflitti politici, attribuì premi ai benemeriti (del resto, per lui era assai facile capire quali sentimenti ciascuno avesse nutrito durante l’insurrezione di tutta la Gallia, a cui aveva potuto far fronte grazie alla lealtà e al sostegno della suddetta provincia). Sistemate tali faccende, rientrò presso le legioni stanziate in Belgio e svernò a Nemetocenna.

De Bello Gallico, VIII, 45

Labienus interim in Treveris equestre proelium facit secundum compluribusque Treveris interfectis et Germanis, qui nullis adversus Romanos auxilia denegabant, principes eorum vivos redigit in suam potestatem atque in his Surum Aedmlm, qui et virtutis et generis summam nobilitatem habebat solusque ex Aeduis ad id tempus permanserat in armis.

Labieno, nel frattempo, giunge a uno scontro di cavalleria nelle terre dei Treveri, con successo; uccisi molti dei Treveri e dei Germani, che non negavano a nessuno rinforzi contro i Romani, ridusse in suo potere, vivi, i capi nemici, tra cui l’eduo Suro, che godeva di straordinaria fama quanto a valore e nobiltà ed era il solo tra gli Edui a non aver ancora deposto le armi.

De Bello Gallico, VIII, 44

Caesar, cum suam lenitatem cognnitam omnibus sciret neque vereretur ne quid crudelitate naturae videretur asperius fecisse, neque exitum consiliorum suorum animadverteret, si tali ratione diversis in locis plures consilia inissent, exemplo supplici deterrendos reliquos existimavit. Itaque omnibus qui arma tulerant manus praecidit vitamque concessit, quo testatior esset poena improborum. Drappes, quem captum esse a Caninio docui, sive indignitate et dolore vinculorum sive timore gravioris supplici paucis diebus cibo se abstinuit atque ita interiit. Eodem tempore Lacterius, quem profugisse ex proelio scripsi, cum in potestatem venisset Epasnacti Arverni (crebro enim mutandis locis multorum fidei se committebat, quod nusquam diutius sine periculo commoraturus videbatur, cum sibi conscius esset, quam inimicum deberet Caesarem habere), hunc Epasnactus Arvernus, amicissimus populi Romani, sine dubitatione ulla vinctum ad Caesarem deduxit.

Cesare sapeva che a tutti era nota la sua mitezza e non temeva di apparire un individuo crudele se avesse assunto provvedimenti piuttosto severi; d’altronde, non vedeva sbocco ai suoi disegni, se in diverse zone i Galli avessero continuato a prendere iniziative del genere. Ritenne opportuno, allora, dissuadere gli altri con un castigo esemplare. Dunque, mozzò le mani a chiunque avesse impugnato le armi, ma li mantenne in vita, per lasciare più concreta testimonianza di come puniva i traditori. Drappete, catturato da Caninio, come ho detto, o per l’umiliazione e il dolore delle catene o per la paura di un supplizio ancor più atroce non toccò cibo per un po’ di giorni e così morì. Nello stesso tempo Lucterio, che era fuggito dopo la battaglia, come ho scritto in precedenza, aveva affidato la propria persona all’arverno Epasnacto (infatti, mutando luogo di frequente, si metteva nelle mani di molti, poiché gli sembrava rischioso dimorare troppo a lungo in qualsiasi posto, ben conscio di quanto doveva essergli nemico Cesare). L’arverno Epasnacto, però, fedelissimo alleato del popolo romano, senz’alcuna esitazione lo mette in catene e lo consegna a Cesare.

De Bello Gallico, VIII, 43

Caesar cum complures suos vulnerari videret, ex omnibus oppidi partibus cohortes montem ascendere et simulatione moenium occupandorum clamorem undique iubet tollere. Quo facto perterriti oppidani, cum quid ageretur in locis reliquis essent suspensi, revocant ab impugnandis operibus armatos murisque disponunt. Ita nostri fine proeli facto celeriter opera flamma comprehensa partim restinguunt, partim interscindunt. Cum pertinaciter resisterent oppidani, magna etiam parte amissa siti suorum in sententia permanerent, ad postremum cuniculis venae fontis intercisae sunt atque aversac. Quo facto repente perennis exaruit fons tantamque attulit oppidanis salutis desperationem, ut id non hominum consilio, sed deorum voluntate factum putarent. Itaque se necessitate coacti tradiderunt.

Cesare, vedendo che parecchi dei suoi venivano colpiti, ordina alle coorti di scalare il monte da tutti i lati della città e di levare dappertutto violenti clamori, simulando di dover occupare le mura. Gli abitanti, terrorizzati dalla nostra manovra, inquieti su ciò che succedeva altrove, richiamano i soldati che attaccavano le nostre costruzioni e li dispongono sulle mura. Così, i nostri, chiusosi lo scontro, presto in parte domano, in parte isolano l’incendio che si era propagato sulle nostre difese. Eppure gli assediati continuavano testardamente la difesa e, pur avendo perso per sete gran parte dei loro, rimanevano fermi nel loro proposito; alla fine i nostri, con le gallerie, riuscirono a tagliare le vene della sorgente e a deviare l’acqua. Il che inaridì all’improvviso una fonte perenne e provocò negli abitanti la caduta di ogni speranza, al punto che pensarono si trattasse non di opera umana, ma della volontà divina. Così, costretti dalla necessità, si arresero.

De Bello Gallico, VIII, 42

Quo malo perterriti oppidani cupas sebo, pice, scandulis complent; eas ardentes in opera provolvunt eodemque tempore acerrime proeliantur, ut ab incendio restinguendo dimicationis periculo deterreant Romanos. Magna repente in ipsis operibus flamma exstitit. Quaecumque enim per locum praecipitem missa erant, ea vineis et aggere suppressa comprehendebant id ipsum quod morabatur. Milites contra nostri, quamquam periculoso genere proeli locoque iniquo premebantur, tamen omnia fortissimo sustinebant animo. Res enim gerebatur et excelso loco et in conspectu exercitus nostri, magnusque utrimque clamor oriebatur. Ita quam quisque poterat maxime insignis, quo notior testatiorque virtus esset eius, telis hostium flammaeque se offerebat.

Atterriti dal pericolo, gli abitanti riempiono barili di sego, pece, assicelle, gli danno fuoco e li fanno rotolare sulle nostre costruzioni. Nello stesso tempo attaccano risolutamente, in modo che la lotta minacciosa distolga i Romani dall’estinguere l’incendio. Subito alte fiamme si levano in mezzo alle nostre opere di difesa. Infatti, i barili, dovunque rotolassero a precipizio lungo la china, bloccati dalle vinee e dal terrapieno, appiccavano il fuoco agli ostacoli sul loro cammino. Tuttavia, i nostri soldati, benché costretti a un genere di combattimento pericoloso e in posizione sfavorevole, tenevano testa a tutte le avversità con indomito coraggio. Lo scontro difatti si svolgeva in alto, davanti agli occhi del nostro esercito; da entrambe le parti si levavano alte grida. Così, quanto più uno era conosciuto per il suo coraggio, tanto più si esponeva ai dardi dei nemici e alle fiamme, per rendere ancor più noto e provato il suo valore.

De Bello Gallico, VIII, 41

Quorum omnis postea multitudo aquatorum unum in locum conveniebat sub ipsius oppidi murum, ubi magnus fons aquae prorumpebat ab ea parte, quae fere pedum CCC intervallo fluminis circuitu vacabat. Hoc fonte prohiberi posse oppidanos cum optarent reliqui, Caesar unus videret, e regione eius vineas agere adversus montem et aggerem instruere coepit magno cum labore et continua dimicatione. Oppidani enim loco superiore decurrunt et eminus sine periculo proeliantur multosque pertinaciter succedentes vulnerant; non deterrentur tamen milites nostri vineas proferre et labore atque operibus locorum vincere difficultates. Eodem tempore cuniculos tectos ab vineis agunt ad caput fontis; quod genus operis sine ullo periculo, sine suspicione hostium facere licebat. Exstruitur agger in altitudinem pedum sexaginta, collocatur in eo turris decem tabulatorum, non quidem quae moenibus aequaret (id enim nullis operibus effici poterat), sed quae superare fontis fastigium posset. Ex ea cum tela tormentis iacerentur ad fontis aditum, nec sine periculo possent aquari oppidani, non tantum pecora atque iumenta, sed etiam magna hostium multitudo siti consumebatur.

Allora tutta la gente della città scese a prendere l’acqua in un solo luogo, proprio ai piedi delle mura, dove sgorgava una grande fonte, in corrispondenza della zona in cui, per un intervallo di circa trecento piedi, il fiume non chiudeva il suo anello intorno al monte. Tutti avrebbero voluto impedire agli assediati di avvicinarsi alla fonte, ma solo Cesare ne vide il modo: proprio dirimpetto cominciò a spingere le vinee sulle falde del monte e a costruire un terrapieno, a prezzo di grandi fatiche e continui scontri. Gli assediati, infatti, correvano giù dalle loro posizioni dominanti e dall’alto combattevano senza rischi e colpivano molti dei nostri che continuavano ad avanzare con tenacia; i nostri soldati, comunque, non si lasciano distogliere dal sospingere le vinee e dal superare le difficoltà del terreno con faticosi lavori. Al contempo, scavano gallerie sotterranee verso le vene e l’alveo della sorgente, un’operazione che si poteva effettuare senza alcun rischio. né sospetto da parte dei nemici. Viene costruito un terrapieno alto sessanta piedi, su cui è posta una torre di dieci piani, che doveva non tanto raggiungere l’altezza delle mura (un risultato impossibile con qualsiasi tipo di costruzione), quanto sovrastare il luogo dove nasceva la sorgente. Dalla torre le macchine da lancio scagliavano dardi verso l’accesso alla fonte e gli abitanti non potevano rifornirsi senza pericolo. Così, non solo il bestiame e i giumenti soffrivano la sete, ma anche la grande massa dei nemici.

De Bello Gallico, VIII, 40

Cum contra exspectationem omnium Caesar Vxellodunum venisset oppidumque operibus clausum animadverteret neque ab oppugnatione recedi videret ulla condicione posse, magna autem copia frumenti abundare oppidanos ex perfugis cognosset, aqua prohibere hostem temptare coepit. Flumen infimam vallem dividebat, quae totum paene montem cingebat, in quo positum erat praeruptum undique oppidum Vxellodunum. Hoc avertere loci natura prohibebat: in infimis enim sic radicibus montis ferebatur, ut nullam in partem depressis fossis derivari posset. Erat autem oppidanis difficilis et praeruptus eo descensus, ut prohibentibus nostris sine vulneribus ac periculo vitae neque adire flumen neque arduo se recipere possent ascensu. Qua difficultate eorum cogmta Caesar sagittariis funditoribusque dispositis, tormentis etiam quibusdam locis contra facillimos descensus collocatis aqua fluminis prohibebat oppidanos.

Dopo aver raggiunto Uxelloduno contro le aspettative di tutti, vede che la città è già serrata dalle nostre fortificazioni e si rende conto che non si può più recedere dall’assedio. Saputo dai fuggiaschi che in città c’erano abbondanti scorte di grano, cercò di tagliare i rifornimenti idrici. Un fiume scorreva in mezzo a una valle profonda, che attorniava quasi tutto il monte su cui sorgeva Uxelloduno. La conformazione naturale della zona impediva di deviarlo: scorreva, infatti, così vicino ai piedi del monte, che non era assolutamente possibile scavare canali di derivazione. Ma gli assediati, per raggiungere il fiume, dovevano discendere una china disagevole e molto ripida: se i nostri li ostacolavano, non sarebbero riusciti né ad arrivare al fiume, né a ritirarsi per l’erta salita, senza il rischio di ferite o addirittura di morte. Appena Cesare si rese conto di tale difficoltà dei nemici, appostò arcieri e frombolieri e dispose anche macchine da lancio proprio nelle zone di fronte ai sentieri più praticabili, impedendo agli abitanti di attingere acqua dal fiume.

De Bello Gallico, VIII, 4

Caesar militibus pro tanto labore ac patientia, qui brumalibus diebus itineribus difficillimis, frigoribus intolerandis studiosissime permanserant in labore, ducenos sestertios, centurionibus tot milia nummum praedae nomine condonanda pollicetur legionibusque in hiberna remissis ipse se recipit die XXXX Bibracte. Ibi cum ius diceret, Bituriges ad eum legatos mittunt auxilium petitum contra Carnutes, quos intulisse bellum sibi querebantur. Qua re cognita, cum dies non amplius decem et octo in hibernis esset moratus, legiones XIIII et VI ex hibernis ab Arare educit, quas ibi collocatas explicandae rei frumentariae causa superiore commentario demonstratum est: ita cum duabus legionibus ad persequendos Carnutes proficiscitur.

Ai soldati, che avevano senza sosta condotto le operazioni con straordinario impegno anche nelle giornate invernali, lungo strade davvero disagevoli e con un freddo insopportabile, come premio a titolo di bottino Cesare promette, per le tante fatiche e sopportazioni, duecento sesterzi a testa, e ai centurioni mille. Invia le legioni ai quartieri d\’inverno e ritorna a Bibracte dopo quaranta giorni. Mentre vi amministrava la giustizia, i Biturigi gli inviano emissari per chiedergli aiuto contro i Carnuti, lamentando attacchi da parte loro. Appena ne è informato, dopo aver sostato nei campi invernali non più di diciotto giorni, richiama la diciottesima e la sesta legione dagli accampamenti sulla Saona, dove erano state dislocate per occuparsi del vettovagliamento, come si è detto nel libro precedente. Così, con due legioni parte all’inseguimento dei Carnuti.

De Bello Gallico, VIII, 39

Ibi crebris litteris Canini fit certior quae de Drappete et Lucterio gesta essent, quoque in consilio permanerent oppidani. Quorum etsi paucitatem contemnebat, tamen pertinaciam magna poena esse adficiendam iudicabat, ne universa Gallia non sibi vires defuisse ad resistendum Romanis, sed constantiam putaret, neve hoc exemplo ceterae civitates locorum opportunitate fretae se vindicarent in libertatem, cum omnibus Gallis notum esse sciret reliquam esse unam aestatem suae provinciae, quam si sustinere potuissent, nullum ultra periculum vererentur. Itaque Q. Calenum legatum cum legionibus reliquit qui iustis itineribus subsequeretur; ipse cum omni equitatu quam potest celerrime ad Caninium contendit.

Mentre era ancora dai Carnuti, grazie alle frequenti lettere di Caninio viene informato delle novità di Drappete e Lucterio e dell’irriducibile resistenza degli abitanti di Uxelloduno. Cesare, sebbene ne disprezzasse lo scarso numero, giudicava di dover infliggere a tanta pervicacia una dura lezione, perché la Gallia intera non pensasse che nella resistenza ai Romani le era mancata non la forza, ma la costanza, oppure per evitare che, seguendo l’esempio, gli altri popoli cercassero di rendersi liberi, confidando sui vantaggi dei luoghi; inoltre, a tutti i Galli – ben lo sapeva – era noto che gli restava una sola estate da passare in provincia, e se per quel lasso di tempo riuscivano a resistere, non avrebbero più dovuto temere alcun pericolo. Così, lascia il legato Q. Caleno con due legioni e lo incarica di seguirlo a tappe normali; dal canto suo, si dirige il più velocemente possibile alla volta di Caninio con tutta la cavalleria.

De Bello Gallico, VIII, 38

Caesar interim M. Antonium quaestorem cum cohortibus XV in Bellovacis relinquit, ne qua rursus novorum consiliorum capiendorum Belgis facultas daretur. Ipse reliquas civitates adit, obsides plures imperat, timentes omnium animos consolatione sanat. Cum in Carnutes venisset, quorum in civitate superiore commentario Caesar euit initium belli esse ortum, quod praecipue eos propter conscientiam facti timere animadvertebat, quo celerius civitatem timore liberaret, principem sceleris illius et concitatorem belli, Gutruatum, ad supplicium depoposcit. Qui etsi ne civibus quidem suis se committebat, tamen celeriter omnium cura quaesitus in castra perducitur. Cogitur in eius supplicium Caesar contra suam naturam concursu maximo militum, qui ei omnia pericula et detrimenta belli accepta referebant, adeo ut verberibus exanimatum corpus securi feriretur.

Cesare, frattanto, lascia il questore M. Antonio tra i Bellovaci con quindici coorti, per togliere ai Belgi la possibilità di scatenare altre rivolte. Dal canto suo, visita gli altri popoli, impone nuovi ostaggi, tranquillizza e rassicura la gente tutta in preda alla paura. Poi, giunge nelle terre dei Carnuti, dove era scoppiata l’insurrezione, come Cesare ha esposto nel precedente commentario. Siccome intuiva che i Carnuti, consci della loro colpa, nutrivano forti apprensioni, al fine di liberare al più presto la popolazione da ogni timore esige la punizione del responsabile del crimine e istigatore della guerra, Gutuatro. Tutti, anche se non si era mai messo nelle mani dei suoi concittadini, gli dettero rapidamente la caccia con zelo, e fu condotto al nostro campo. Cesare, contro la propria natura, è costretto a giustiziarlo per l’accorrere in massa dei soldati, che in Gutuatro vedevano il responsabile di tutti i pericoli e le pene patite in guerra; colpito a nerbate fino a perdere la conoscenza, fu poi decapitato con la scure.

De Bello Gallico, VIII, 37

Caninius felicissime re gesta sine ullo paene militis vulnere ad obsidendos oppidanos revertitur externoque hoste deleto, cuius timore antea dividere praesidia et munitione oppidanos circumdare prohibitus erat, opera undique imperat administrari. Venit eodem cum suis copiis postero die Gaius Fabius partemque oppidi sumit ad obsidendum.

Caninio, dopo aver compiuto con grande successo la missione, quasi senz’alcun ferito, ritorna ad assediare la città. Adesso che aveva annientato il nemico esterno, per timore del quale prima non aveva potuto dividere i presidi e stringere d’assedio gli abitanti con un’opera di fortificazione, ordina di procedere ai lavori su tutta la linea. Il giorno seguente giunge C. Fabio con tutte le truppe e assume il comando delle operazioni d’assedio per un settore della città.

De Bello Gallico, VIII, 36

Re bene gesta Caninius ex captivis comperit partem copiarum cum Drappete esse in castris a milibus longe non amplius XII. Qua re ex compluribus cognita, cum intellegeret fugato duce altero perterritos reliquos facile opprimi posse, magnae felicitatis esse arbitrabatur neminem ex caede refugisse in castra qui de accepta calamitate nuntium Drappeti perferret. Sed in experiendo cum periculum nullum videret, equitatum omnem Germanosque pedites, summae velocitatis homines, ad castra hostium praemittit; ipse legionem unam in trina castra distribuit, alteram secum expeditam ducit. Cum propius hostes accessisset, ab exploratoribus quos praemiserat cognoscit castra eorum, ut barbarorum fere consuetudo est, relictis locis superioribus ad ripas fluminis esse demissa; at Germanos equitesque imprudentibus omnibus de improviso advolasse proeliumque commisisse. Qua re cognita legionem armatam instructamque adducit. Ita repente omnibus ex partibus signo dato loca superiora capiuntur. Quod ubi accidit, Germani equitesque signis legionis visis vehementissime proeliantur. Confestim cohortes undique impetum faciunt omnibusque aut interfectis aut captis magna praeda potiuntur. Capitur ipse eo proelio Drappes.

Condotta a termine con successo l’operazione, Caninio apprende dai prigionieri che parte delle truppe, con Drappete, era rimasta nell’accampamento a non più di dodici miglia. La cosa gli viene confermata da diverse fonti ed egli si rende conto che, dopo la rotta di uno dei due capi, poteva con facilità schiacciare gli altri nemici atterriti, ma riteneva ben difficile l’eventualità per lui più fortunata, ossia che qualche superstite fosse rientrato all’accampamento nemico, portando a Drappete la notizia della disfatta subita. Fare un tentativo, comunque, gli sembrava che non comportasse alcun rischio: manda in avanti, verso il campo nemico, la cavalleria al completo e i fanti germanici, uomini straordinariamente veloci; dal canto suo, sistema una legione nei tre diversi accampamenti, l’altra la porta con sé senza bagagli. Quando è ormai vicino al nemico, gli esploratori, mandati in avanscoperta, lo avvisano che i barbari, secondo la loro consuetudine, avevano lasciato le alture e posto il campo lungo le rive del fiume; inoltre, i Germani e i cavalieri erano piombati all’improvviso sui nemici che non se l’aspettavano e avevano attaccato battaglia. Appena lo sa, avanza con la legione in armi e schierata. Così, al segnale, da tutte le parti repentinamente i nostri occupano le alture. Subito i Germani e i cavalieri, avendo visto le insegne della legione, combattono con estremo ardore. Le coorti si lanciano immediatamente all’attacco da ogni lato: tutti i nemici vengono uccisi o catturati, i nostri si impadroniscono di un grande bottino. Nella battaglia cade prigioniero lo stesso Drappete.

De Bello Gallico, VIII, 35

Magna copia frumenti comparata considunt Drappes et Lucterius non longius ab oppido X milibus, unde paulatim frumentum in oppidum supportarent. Ipsi inter se provincias partiuntur: Drappes castris praesidio cum parte copiarum restitit; Lucterius agmen iumentorum ad oppidum ducit. Dispositis ibi praesidiis hora noctis circiter decima silvestribus angustisque itineribus frumentum importare in oppidum instituit. Quorum strepitum vigiles castrorum cum sensissent, exploratoresque missi quae gererentur renuntiassent, Caninius celeriter cum cohortibus armatis ex proximis castellis in frumentarios sub ipsam lucem impetum fecit. Ei repentino malo perterriti diffugiunt ad sua praesidia; quae nostri ut viderunt, acrius contra armatos incitati neminem ex eo numero vivum capi patiuntur. Profugit inde cum paucis Lucterius nec se recipit in eastra.

Dopo essersi procurati grandi scorte di grano, Drappete e Lucterio si attestano a non più di dieci miglia dalla città, nell’intento di portare da qui, a poco a poco, il grano entro le mura. Si dividono le incombenze: Drappete con parte delle truppe rimane al campo per difenderlo, Lucterio guida verso la città le bestie da soma. Dispone dei presidi e, verso l’ora decima della notte, comincia a introdurre il grano in città per anguste strade tra i boschi. Ma i rumori della colonna in movimento erano stati uditi dalle sentinelle del nostro campo: quando gli uomini mandati in esplorazione riferiscono cosa stava accadendo, dalle ridotte più vicine Caninio esce rapidamente con le coorti già pronte e, sul fare dell’alba, attacca i nemici occupati nel trasporto del grano. I Galli, sconvolti dall’attacco improvviso, fuggono verso i loro posti di difesa; non appena i nostri videro i nemici armati, con furia ancora maggiore si lanciarono su di essi e non ne fecero prigioniero nessuno. Da qui Lucterio cerca scampo con pochi dei suoi, senza neppure rientrare al campo.

De Bello Gallico, VIII, 34

Quod cum animadverterent oppidani miserrimaque Alesiae memoria solliciti similem casum obsessionis vererentur, maximeque ex omnibus Lucterius, qui fortunae illius periculum fecerat, moneret frumenti rationem esse habendam, constituunt omnium consensu parte ibi relicta copiarum ipsi cum expeditis ad importandum frumentum proficisci. Eo consilio probato proxima nocte duobus milibus armatorum relictis reliquos ex oppido Drappes et Lucterius educunt. Hi paucos dies morati ex finibus Cadurcorum, qui partim re frumentaria sublevare eos cupiebant, partim prohibere quo minus sumerent non poterant, magnum numerum frumenti comparant, nonnumquam autem expeditionibus nocturnis castella nostrorum adoriuntur. Quam ob causam Gaius Caninius toto oppido munitiones circumdare moratur, ne aut opus effectum tueri non possit aut plurimis in locis infirma disponat praesidia.

Appena se ne accorgono, gli assediati, inquieti per il tristissimo ricordo di Alesia, temono l’eventualità di un blocco simile. Tra tutti Lucterio in particolare, che quel pericolo lo aveva corso, invita a preoccuparsi del grano. Decidono, per consenso generale, di lasciare lì parte dell’esercito e di recarsi personalmente in cerca di frumento con truppe leggere. Approvata la decisione, la notte successiva Drappete e Lucterio lasciano duemila armati in città e si allontanano con i rimanenti. Si trattengono pochi giorni e raccolgono una gran quantità di grano nelle terre dei Cadurci, che in parte desideravano aiutarli nell’approvvigionamento, in parte non potevano impedirne la raccolta. Di tanto in tanto, poi, attaccano le nostre ridotte con assalti notturni. Per tale motivo, Caninio rallenta i lavori di fortificazione tutt’intorno alla città, nel timore di non poterli difendere, una volta terminati, oppure di essere costretto a dislocare in più settori guarnigioni troppo deboli.