“La cornacchia superba e il pavone”

Pennae pavoni deciderant graculusque, inani superbia tumens, collegerat atque suum corpus exornaverat. Deinde, graculorum genus contemnens, cum formoso pavonum grege convenit. Pavones autem, dolum animadvertentes, impudenti avi pennas eripiunt eumque rostris fugant. Plagis et contumelia maerens graculus ad proprium genus tristis revertit; graculi autem procacem alitem reiciunt, monimentum iniuriae addentes: “Nostris sedibus et tua natura contentus non fuisti; ideo contumeliam pavonum et nostram repulsam nunc sentis”. Si a pristinis moribus deflectes, amicos amittes et in magnis calamitatibus eris.

Ad un pavone erano cadute a terra delle penne e una cornacchia, gonfia di vana superbia, le aveva raccolte e ne aveva adornato il suo corpo. Poi, in spregio della specie delle cornacchie, si aggregò al bel branco dei pavoni. Ma i pavoni, accortisi dell’inganno, strappano via le penne allo sfacciato volatile e lo mettono in fuga a colpi di becco. Lamentandosi delle ferite e dell’oltraggio la cornacchia ritorna triste alla sua specie; ma le cornacchie respingono l’insolente alato, aggiungendo una minaccia all’ingiuria: “Non sei stato contento delle nostre sedi e della tua natura; per questo ora subisci l’offesa dei pavoni e la nostra ripulsa”. Se ti allontanerai dagli antichi costumi, perderai gli amici e ti troverai in grandi guai.

“I due muli e i ladri”

Duo muli eodem itinere procedebant, ponderosi sarcinis gravati: alter eorum gerebat fiscos cum pecunia, alter saccos tumentes, ulto hordeo. Mulus onere dives celsa cervice procedebat, clarumque tintinnabulum collo iactabat; comes quieto et placido gradu pone veniebat. Subito latrones ex insidiis advolant interque caedem mulum pecuniam gerentem ferro sauciant, nummos diripiunt, neglegunt autem alterum, qui vile hordeum gerit. Postquam latrones discesserunt, mulus pecunia spoliatus et saucius casus suos misere flebat. Tum alter: “Equidem”, inquit, “valde laetus sum quia latrones me contempserunt: nam nihil arrisi, neque ullum vulnus accepi”. Hoc argumento hominum tenuitas tuta est; contra magnae opes Semper alicui periculo obnoxiae sunt.

Due muli percorrevano la stessa strada, gravati da pesanti some: uno di loro portava casse piene di denaro, l’altro sacchi gonfi di una gran quantità d’orzo. Il mulo dal carico ricco camminava a testa alta e agitava con il collo un sonaglio squillante; il suo compagno veniva dietro con passo calmo e tranquillo. All’improvviso dei ladroni saltano fuori da un appostamento e durante la rapina feriscono il mulo che portava il denaro con un’arma da taglio, rubano i soldi ma non si curano dell’altro, che porta l’orzo da poco prezzo. Dopo che i rapinatori si furono allontanati il mulo spogliato del denaro e ferito, piangeva miseramente le sue disgrazie. Allora l’altro disse: “Io invece sono molto lieto perché i ladroni mi hanno trascurato: infatti non ho perso nulla e non ho ricevuto nessuna ferita”. L’ammaestramento da trarre da questo fatto è che essere insignificanti è una sicurezza per gli uomini; al contrario le grandi ricchezze sono sempre pericolose per qualche insidia.

“Simonide riconquista la sua ricchezza”

Prope fuit Clazomene, antiqua urbs: omnes naufragi illuc contenderunt. Ibi vir, litterarum studio deditus, qui Simonidis carmina saepe legerat et eius magnus admirator erat, cupide ad domicilium suum poetam naufragum recepit et veste, nummis, familia eum exornavit. Ceteri autem per urbem mendicantes vivebant. Ut forte Simonides eos obvios venientes vidit: “Sententiam meam ““ inquit ““ nunc intellegitis: omnia mea mecum sunt quia homo ductus in se semper divitias habet; vos autem vestra bona levia et fugacia omnia perdidistis”.

Vicino vi fu Clazomene, antica città: tutti i naufraghi si diressero in quel luogo. Là un uomo, dedito allo studio della letteratura, che aveva spesso letto le poesie di Simonide ed era un suo grande ammiratore, accolse volentieri il poeta naufrago nella sua casa e gli fornì una veste, dei soldi, degli schiavi. Ma gli altri mendicanti vivevano per la città. Quando Simonide li vide per caso venirgli incontro, disse: “Capite il mio pensiero ora: tutti i miei beni sono con me poiché un uomo dotto ha sempre con sé le ricchezze; voi, invece, avete perso tutti i vostri beni superficiali e passeggeri”.

“L’uomo dotto ha sempre in sé ricchezza”

Simonides, qui scripsit egregia carmina, quo facilius paupertatem sustinÄ“ret, circum ire coepit nobiles Asiae urbes, laudem victorum canens mercede accepta. Hoc genere quaestus postquam locuples factus est, redire in patriam voluit cursu pelagio; erat autem, ut aiunt, natus in Cia insula: ascendit igitur navem, quam tempestas horrida simul et vetustas medio mari dissolverunt. Hi zonas, ili res pretiosas colligunt, subsidium vitae. Quidam curiosior: “Simonide, tu nihil ex opibus tuis sumis?”. “Mecum”, inquit poeta, “mea cuncta sunt”. Tunc pauci enătant, quia plures, onÄ•re degravati, periÄ•rant. Predones adsunt et quod quisque extuluit rapiunt. Forte prope antiqua urbs Clazomenae fuit, quam petiÄ“runt naufragi. Hic litterarum quidam studio deditus, qui saepe Simonidis versus legÄ•rat eratque absentis admirator maximus, eum ab ipso sermone cognitum cupidisse ad se recÄ“pit ac veste, nummis, familia exornavit. Ceteri tabulam suam portant rogantes victum. Quos casu obvios Simonides ut vidit: “Dixi”, inquit, “mea mecum esse cuncta; quod vos rapuistis, autem, periit”.

Simonide, che scrisse straordinarie poesie, per sopportare più facilmente la povertà, cominciò ad andare in giro per famose città dell’Asia, cantando dietro compenso l’elogio dei vincitori. Dopochè diventò ricco con questo genere di guadagno, desiderò tornare in patria per mezzo di viaggio marittimo; era infatti, come dicono, nato nell’isola di Ceo: dunque salì sulla nave, che una spaventosa tempesta e la vecchiaia in mezzo al mare sfasciarono. Alcuni legano insieme le borse del denaro, altri come aiuto per la vita legano cose preziose. Qualcuno alquanto curioso: “Simonide, tu nessuna tra le ricchezze tue prendi?”. “Con me” disse il poeta “ho tutte le mie cose”. Allora pochi si misero in salvo a nuoto, poiché la maggior parte, gravati dal fardello, perirono. I predoni vennero poi a rapinarli. Per caso c’era nelle vicinanze l’antica città di Cazomene, verso la quale i naufraghi si diressero. Qui un tale dedito allo studio delle lettere, il quale spesso aveva letto i verso di Simonide ed era un grandissimo ammiratore da lontano, lo accolse presso di se dopo averlo conosciuto dallo stesso sermone e ardentemente lo fornì di vesti, di denaro, di servi. Gli altri portarono la loro tavoletta dipinta chiedendo nutrimento e Simonide non appena vide questi che per caso gli venivano incontro disse: “Dissi che avevo con me tutte le mie cose; ciò che voi avete rubato, invece, è andato perduto”.

“Una mosca sciocca e impertinente”

Cum in temone musca sederet, mulam increpabat: “Quam tarda es! Cur citius non procedis? Vide ne dolone tibi collum compungam”. Respondit illa: “Verbis tuis non moveor; sed istum timeo qui in sella sedet, quod iugum meum lento flagello temperat et ora continet frenis spumantibus. Quapropter insolens et stulta esse desine: nam et quando stringandum et quando currendum sit scio”. Qui sine virtute vanas minas exercet, merito hac fabula derideri potest.

Una mosca sedendo su una pertica, infastidiva una mula: “Come sei lenta! Perchè non vai più veloce? Stai attenta che ti pungo il collo con il pungiglione”. Rispose quella: “Non sono mossa dalle tue parole, ma temo questo che siede in sella, perchè tempera con un lento flagello il mio giogo e trattiene la bocca con i freni schiumati. Per tale ragione smetti di essere insolente e stupida: infatti so quando devo correre e quando devo andare piano”. Chi esercita senza virtù vane minacce, giustamente può essere deriso con questa storia.

“La mucca, la capretta, la pecora e il leone”

Numquam est fidelis cum potenti societas. Vacca et capella et mitis ovis venationis socii fuerunt cum leone in saltibus. Quia cervum vasti corporis ceperant, leo, postquam partes fecit, dixit se primam tollere quoniam leo nominatur; secundam sibi ab iis tributum iri, quia fortis est; tum tertiam sibi obventuram esse, quia plus valet; denique malo adfectum iri socium qui quartam tetigerit. Sic totam praedam sola improbitas abstulit.

Mai è leale un’alleanza col potente. Questa favoletta attesta la mia affermazione. La vacca e la capretta e la pecora resistente all’oltraggio furono alleati col leone nelle foreste. Avendo questi preso un cervo di grossa corporatura, così, fatte le parti, parlò il leone: “Io prendo la prima a questo titolo, perchè mi chiamo leone; la seconda, poichè sono socio, l’attribuirete a me; poi, poichè sono più forte, mi seguirà la terza; sarà colto dal male se uno avrà toccato la quarta”. Così la sola slealtà prese tutta la preda.

“Il passero e la lepre”

Fabella de passero et lepore nos monet ne miseros stulte irridamus. Olim passer leporem, ab aquila captum, verbis contumeliosis obiurgabat: “Ubi est illa tua pernicitas? Ubi sunt celerrimi pedes tui? Nunc questus tui vani sunt”. Sed dum haec dicit, accipiter repente eum arripit atque in nidum suum aufert. Tum lepus semianimis dixisse fertur: “Laetus pereo, quia tu, qui nuper securus irridebas mala mea, nunc eadem querela fatum tuum deploras”.

La favola sul passero e sulla lepre ci ammonisce a non deridere stupidamente i miseri. Una volta un passero riempiva di parole offensive una lepre, presa da un’aquila: “Dove è quella tua agilità? Dove sono i tuoi piedi veloci? Ora le tue lamentele sono vane”. Ma mentre dice queste cose, un nibbio all’improvviso lo rapisce e lo porta al suo nido. Allora la lepre semianime si dice che abbia detto: “Muoio lieto perchè tu, che prima sicuro deridevi i miei mali, ora deplori con lo stesso lamento la tua sorte”.

“Il cane e la pecora”

Canis calumniator resposcebat ab ove panem, quem dederat mutuum. contendebat autem ovis numquam se a cane panem accepisse; cum autem ante iudicem venissent, canis multos dixit se habere testes, et statim lupum introduxit, qui talia verba dixit: “Scio canem ovi panem commendavisse”. Deinde supervenit milvus: “Coram me – inquit – accepit”. Tertius accipiter dixit: “Cur, improba, hoc negas, te panem accepisse?”. Ovis, a falsis testibus victa, ante tempus lanas suas vendidit, ut, quod non acceperat, redderet. Sic calumniatores fictis criminibus innocentes opprimunt.

Un cane calunniatore reclamava il pane che aveva dato in prestito ad una pecora. D’altro canto la pecora sosteneva di non aver mai ricevuto pane dal cane; così, giunti di fronte ai guiudici, il cane disse di avere molti testimoni, e subito presentò il lupo, che disse quantro segue: “So che il cane aveva affidato alla pecora del pane. Poi giunse il nibbio che disse: “L’ha ricevuto in mia presenza”. Per terzo lo sparviero disse: “Perchè, o bugiarda, neghi ciò, di aver ricevuto il pane?”. La pecora, sovrastata da falsi testimoni, vendette la propria lana prima del tempo per restituire quel che non aveva ricevuto. Così i calunniatori opprimono gli innocenti con falsi crimini.

Fabulae, I, 5 (“La legge del più forte”)

Numquam est fidelis cum potente societas:
testatur haes fabella propositum meum.
Vacca et capella et patiens ovis iniuriae
Socii fuere cum leone in saltibus.
Hi cum sepissent cervum vasti corporis,
sic est locutu partibus factis leo:
“Ego primam tollo, nomina quia leo;
secundam, quia sum socius, tribuetis mihi;
tum, quia plus valeo, me sequetur tertia;
malo adficietur, siquis quartam tetigerit”.
Sic totam praedam sola improbitas abstulit.

Non c’è mai un’alleanza sicura con un prepotente: questa favoletta dimostra la mia premessa. Una mucca e una capretta e una pecora, che tollera l’offesa, furono socie con un leone nei boschi. Avendo questi preso un cervo dalla grande corporatura, il leone parlò così, dopo che furono fatte le parti: “Io prendo la prima (parte), perché sono chiamato leone; la seconda la darete a me, perché sono il vostro socio, poi, la terza parte mi seguirà perché sono il più forte; se qualcuno toccherà la quarta parte, sarà colpito dal male”. Così la sola prepotenza portò via tutta la preda.

“Il lupo macilento e il cane ben pasciuto”

Lupus macie confectus cani perpasto occurrit. Hunc ille dicit: “Quomodo ego, qui te fortior sum, fame pereo, tu autem nites?”. Canis, vicinam domum ei ostendens, simpliciter respondit: “Illam domum custodio, igitur dominus mihi ossa et carnem de mensa sua iactat. Tibi quoque dominus meus haec dabit, si illi idem officium praestabis. sic domi serecus vives nec iam in silvis vitam asperam trahes, nives imbresque ferens. Veni ergo mecum, ad dominum te ducam!” Lupus, laetus, canem sequitur sed, dum procedunt, aspicit canis collum catena attritum. Tum canem interrogat: “Quae est huius rei causa, amice?”. Respondet ille: “Nihil est! Servi me interdiu alligant quia acrior sum”. Tum lupus exclamat: “Non iam tibi invideo, canis! Ista mihi non placet. Ventris causa libertatem amittere nolo!” Sic, libertatem catenae anteponens, lupus ad asperam in silvis vitam redit.

Un lupo sfinito dalla fame incontrò un cane paffuto. Quello disse a questo: “Come mai io, che sono più forte di te, muoio dalla fame, e tu invece sei splendido?”. Allora il cane, indicandogli la casa vicina, rispose semplicemente: “Io custodisco quella casa, dunque il padrone mi getta ossa e carne dalla sua mensa. Il mio padrone ne darà anche a te, se tu eseguirai il mio stesso compito. Pertanto in casa vivrai sicuro, nè condurrai nei boschi una vita difficile, sopportando nevi e piogge. Vieni dunque con me, ti condurrò dal padrone!”. Il lupo, felice, segue il cane ma, mentre camminano, vede il collo del cane ecoriato dalla catena. Allora interroga il cane: “Qual è la causa di ciò, amico?”. Quello risponde: “Non è nulla! I servi mi legano ogni giorno perchè sono vivace”. Il lupo allora esclama: “Ora non ti invidio affatto, cane! Queste cose non mi piacciono. Rifiuto di perdere la libertà a causa del ventre”. Così, preferendo la libertà alle catene, il lupo ritornò alla vita nelle foreste in mezzo alle difficoltà.

Fabulae, III, 7

Quam dulcis sit libertas, breviter proloquar. Cani perpasto macie confectus lupus Forte occucurrit. Dein salutati invicem Ut restiterunt: “Unde sic, quaeso, nites? Aut quo cibo fecisti tantum corporis? Ego, qui sum longe fortior, pereo fame”. Canis simpliciter: “Eadem est condicio tibi, Praestare domino si par officium potes”. “Quod?” inquit ille. “Custos ut sis liminis, A furibus tuearis et noctu domum”. “Ego vero sum paratus: nunc patior nives Imbresque in silvis asperam vitam trahens: Quanto est facilius mihi sub tecto vivere, Et otiosum largo satiari cibo?” “Veni ergo mecum”. Dum procedunt, aspicit Lupus a catena collum detritum cani. “Unde hoc, amice?” “Nihil est”. “Dic sodes tamen”. “Quia videor acer, alligant me interdiu, Luce ut quiescam et vigilem, nox cum venerit: Crepusculo solutus, qua visum est, vagor. Affertur ultro panis; de mensa sua Dat ossa dominus; frusta iactat familia Et, quod fastidit quisque, pulmentarium. Sic sine labore venter impletur meus”. “Age, si quo abire est animus, est licentia?” “Non plane est” inquit. “Fruere, quae laudas, canis: Regnare nolo, liber ut non sim mihi”.

Quanto sia dolce la libertà, brevemente esporrò. Un lupo consumato dalla magrezza s’imbattè per caso in un cane ben pasciuto; poi, salutatisi scambievolmente quando si fermarono, “Come risplendi così, prego?” O con che cibo ingrassasti tanto (lett. facesti tanto di corporatura)? Io, che sono lungamente più forte, muoio di fame”. Il cane semplicemente: “C’è la stessa condizione per te, se puoi offrire al padrone lo stesso compito”. “Quale?” dice lui. “Che sia guardia della soglia, difenda anche di notte la casa dai ladri. Viene offerto in più il pane, dalla sua mensa il padrone dà le ossa; la servitù getta bocconi, e quel companatico che uno rifiuta. Così senza fatica il mio ventre si riempie”. “Io allora sono pronto: ora patisco nevi e piogge tirando una vita dura nei boschi. Quanto mi è più facile vivere sotto un tetto, e saziarsi di cibo abbondante”. “Vieni dunque con me”. Mentre avanzano, il lupo vede al cane il collo rovinato dalla catena. “Come mai questo, amico?” “E’ niente”. “Ebbene, dillo, se vuoi”. “Poiché sembro cattivo, talvolta mi legano, perché riposi con la luce e vegli, quando sia giunta la notte: liberato al crepuscolo, vago dove mi è parso”. “Su, si a volte c’è voglia di andare, c’è libertà?” “Non c’è davvero” dice. “Godi le cose che lodi, cane; non voglio regnare, per non esser libero per me”.