“Riforme di Caio Gracco”

Decem deinde interpositis annis, qui Ti. Graccum idem Gaium fratrem eius occupavit furor, tam virtutibus eius omnibus quam huic errori similem, ingenio etiam eloquentiaque longe praestantiorem. Qui cum summa quiete animi civitatis princeps esse posset, vel vindicandae fraternae mortis gratia vel praemuniendae regalis potentiae eiusdem exempli tribunatum ingressus, longe maiora et acriora petens dabat civitatem omnibus Italicis, extendebat eam paene usque Alpis, dividebat agros, vetabat quemquam civem plus quingentis iugeribus habere, quod aliquando lege Licinia cautum erat, nova constituebat portoria, novis coloniis replebat provincias, iudicia a senatu trasferebat ad equites, frumentum plebi dari instituerat; nihil immotum, nihil tranquillum, nihil quietum, nihil denique in eodem statu relinquebat; quin alterum etiam continuavit tribunatum.

Trascorsi poi dieci anni, lla follia che invase Tiberio invase ugualmente anche Gaio Gracco, per ogni virtù simile a quello quanto lo era anche nell’errore, ma per ingegno ed eloquenza era lui senza dubbio ad essere il più bravo. Non appena costui, con la più salda tranquillità d’animo, ebbe l’occasione di mettersi a capo della città, quando assunse la carica di tribuno, certo più in virtù del voler vendicare la morte del fratello o di rafforzare la potenza regale di se stesso, si mise a richiedere riforme ancora più ambiziose e astiose: concedeva la cittadinanza a tutti gli Italici, la voleva estendere quasi fino alle Alpi, divideva i campi, vietava a qualsiasi cittadino di avere in proprietà più di cinquecento iugeri, limite che un tempo era stato già fissaro dalla lex Licinia, istituiva nuove tasse commerciali, riempiva le province di nuovi coloni, trasferiva le corti giudicanti dal senato ai cavalieri, istituiva la distribuzione di frumento alla plebe; nulla era più stabile, nulla era più sicuro, nulla era più calmo, perché nulla, nello stesso stato, aveva lasciato immutato, che non abbia poi continuato a turbare anche durante il secondo suo tribunato.

“La rotta di Teutoburgo”

Atrocissimas in Germanis calamitas, qua nulla post Crassi in Parthis cladem gravior Romanis fuit, deflenda est. Exercitus disciplina, vigore et bellorum experentia omnium fortissimus, marcore ducis, perfidia hostium, iniquitate fortunae circumventus, cum ne pugnandi quidem egrediendive occasio data esset, inclusus silvis, paludibus, insidis, ad internecionem trucidatus est. Duci plus animi ad moriendum quam pugnandum fuit. L. Asprenatus, legatus sub avunculo suo Varo militans, nava virilique opera duas legiones, quibus praeerat, immunes tanta calamitate servavit et mature adhiberna discendendo, vacillantes cis Rhenum sitarum gentium animos confirmavit. Etiam L. Caedicii, praefecti castrorum, eorumque qui una circumdati Alisone immensis Germanorum copiis obsidebantur, laudanda virus est. Hi enim, cum omnes diffficultates superavisset, quas inopia rerum intolerabiles faciebat, vis hostium inexsuperabiles (faciebat), nec temerario consilio nec nimia cautione usi, speculate opportunitatem, armis reditum ad suos sibi pepererunt.

In Germania fu respinta una disgrazia molto atroce, che non ci fu nulla di più grave per i Romani dopo la disfatta di Crasso con i Parti. L’esercito, più forte di tutti nella disciplina, nel vigore e nell’esperienza delle guerre, assalito dalla sfortuna, dalla debolezza del comandante, dalla perfidia dei nemici, essendo stata data l’occasione di non combattere neanche oppure di mettersi in marcia, nascosto tra i boschi, le paludi, le insidie, fu massacrato fino allo sterminio. L’animo del comandante fu più per morire che per combattere. L. Asprenato, prestando servizio come ambasciatore sotto suo zio Varrone, salvò con una diligente e coraggiosa azione due legioni, nelle quali aveva comandato, immuni da una tanto grande disgrazia, e con la discesa ai quartieri invernali rassicurò gli animi vacillanti delle genti collocate al di qua dal Reno. Si deve lodare anche la virtù di L. Cedico, sovrintendente dell’accampamento, e di coloro che, contemporaneamente circondati ad Alisone, erano assediati dalle smisurate truppe dei Germani. Questi infatti, avendo superato tutte le difficoltà, che la povertà rendeva insostenibili, la forza dei nemici (rendeva) insuperabili, servendosi nè di una decisione sconsiderata nè di un’eccessiva cautela, procurarono ai loro il ritorno alle armi.

Historia Romana, Liber Prior, 18

Transit admiratio ab condicione temporum et ad urbium. Una urbs Attica pluribus omnis eloquentiae quam universa Graecia operibusque floruit, adeo ut corpora gentis illius separata sint in alias civitates, ingenia vero solis Atheniensium muris clausa existimes. Neque hoc ego magis miratus sim quam neminem Argivum Thebanum Lacedaemonium oratorem aut dum vixit auctoritate aut post mortem memoria dignum existimatum. Quae urbes et in alia talium studiorum fuere steriles, nisi Thebas unum os Pindari inluminaret: nam Alcmana Lacones falso sibi vindicant.

Dal condizionamento esercitato dalle varie epoche la nostra meraviglia si sposta a quello delle città. Una sola città dell’Attica fiorì nell’eloquenza per più anni e grazie a un maggior numero di opere che non tutta quanta la Grecia, tanto da credere che i corpi di quella popolazione siano stati distribuiti fra le altre città, gli ingegni invece siano rimasti entro le mura della sola Atene. E di questo non saprei meravigliarmi più che del fatto che nessun oratore di Argo, di Tebe, di Sparta sia stato giudicato meritevole di considerazione in vita o di ricordo dopo la morte. Queste città, quanto a opere di tal genere, furono tutte sterili, se non desse lustro a Tebe la voce di Pindaro; senza ragione infatti gli Spartani rivendicano come loro concittadino Alcmane.

Historia Romana, Liber Prior, 17

Neque hoc in Graecis quam in Romanis evenit magis. Nam nisi aspera ac rudia repetas et inventi laudanda nomine, in Accio circaque eum Romana tragoedia est; dulcesque Latini leporis facetiae per Caecilium Terentiumque et Afranium subpari aetate nituerunt. Historicos etiam, ut Livium quoque priorum aetati adstruas, praeter Catonem et quosdam veteres et obscuros minus octoginta annis circumdatum aevum tulit, ut nec poetarum in antiquius citeriusve processit ubertas. At oratio ac vis forensis perfectumque prosae eloquentiae decus, ut idem separetur Cato [pace P. Crassi Scipionisque et Laelii et Gracchorum et Fannii et Servii Galbae dixerim] ita universa sub principe operis sui erupit Tullio, ut delectari ante eum paucissimis, mirari vero neminem possis nisi aut ab illo visum aut qui illum viderit. Hoc idem evenisse grammaticis, plastis, pictoribus, scalptoribus quisquis temporum institerit notis, reperiet, eminentiam cuiusque operis artissimis temporum claustris circumdatam. Huius ergo recedentis in quodque saeculum ingeniorum similitudinis congregantisque se et in studium par et in emolumentum causas cum saepe requiro, numquam reperio, quas esse veras confidam, sed fortasse veri similes, inter quas has maxime. Alitur aemulatione ingenium, et nunc invidia, nunc admiratio imitationem accendit, naturaque quod summo studio petitum est, ascendit in summum difficilisque in perfecto mora est, naturaliterque quod procedere non potest, recedit. Et ut primo ad consequendos quos priores ducimus accendimur, ita ubi aut praeteriri aut aequari eos posse desperavimus, studium cum spe senescit, et quod adsequi non potest, sequi desinit et velut occupatam relinquens materiam quaerit novam, praeteritoque eo, in quo eminere non possumus, aliquid, in quo nitamur, conquirimus, sequiturque ut frequens ac mobilis transitus maximum perfecti operis impedimentum sit.

Questo si verificò in Grecia no più che a Roima. Infatti se no si vuol risalire a quelle manifestazioni rozze e grossolane e meritevoli di lode solo perché si tratta di novità, la tragedia romana è tutta in Accio e nei suoi seguaci; le garbate facezie dell’arguzia latina brillarono quasi nello stesso tempo per merito di Cecilio, Terenzio e Afranio. Quanto agli storici, inserendo anche Livio nell’epoca degli autori che lo hanno preceduto, li produsse tutti, se si eccettuano Catone e alcuni altri scrittori antichi e oscuri, uno spazio di tempo compreso in meno di ottanta anni, così come non risale più addietro né scende più in basso la ricca fioritura dei poeti. D’altra parte l’eloquenza, l’arte forense e la perfezione e lo splendore della prosa oratoria, eccettuato ancora Catone (sia detto con buona pace di P. Crasso, di Scipione, di Lelio, dei Gracchi, di Fannio e di Servio Galba), vennero a fioritura tutte quante al tempo di Tullio, loro più alto rappresentante, sicché potresti dilettarti di ben pochi oratori che lo abbiano preceduto, mentre nessuno potresti ammirare che o non sia stato da Cicerone visto o che non abbia egli stesso visto Cicerone. Chiunque osservi attentamente i segni distintivi delle varie epoche troverà che la medesima cosa è accaduta per i grammatici, i ceramisti, i pittori, gli scultori e cioè l’eccellenza nei singoli generi è racchiusa in ristretti limiti di tempo. Per quanto io continuamente ricerchi le cause per le quali ingegni simili si raggruppano in epoche singole e si trovano uniti nella medesima attività e nella medesima brillante riuscita, nessuna mai ne trovo di verosimili, tra le quali principalmente queste. L’emulazione nutre gli ingegni e ora l’invidia, ora l’ammirazione spronano all’imitazione, e quello che si è cercato col più grande amore sale per natura al punto più alto; è però difficile restare nella perfezione e per natura regredisce ciò che non può progredire. E come all’inizio ci accingiamo con ardore a raggiungere coloro che giudichiamo primi, così quando disperiamo che questi possano essere o superati o uguagliati, lo slancio e insieme la speranza vengono meno e smettono di perseguire ciò che non possono raggiungere; abbandonando per così dire una materia proprietà di altri, andiamo in cerca di una nuova; abbandonato il campo in cui non possiamo eccellere, ne cerchiamo un altro sul quale concentrare i nostri sforzi: ne consegue che questo frequente e rapido cambiamento è il più grande ostacolo alla perfezione.

Historia Romana, Liber Prior, 16 (“Quanti ingegni in poco tempo!”)

Cum haec particula operis velut formam propositi excesserit, quamquam intellego mihi in hac tam praecipiti festinatione, quae me rotae pronive gurgitis ac verticis modo nusquam patitur consistere, paene magis necessaria praetereunda quam supervacanea amplectenda, nequeo tamen temperare mihi, quin rem saepe agitatam animo meo neque ad liquidum ratione perductam signem stilo. Quis enim abunde mirari potest, quod eminentissima cuiusque professionis ingenia in eandem formam et in idem artati temporis congruere spatium, et quemadmodum clausa capso aliove saepto diversi generis animalia nihilo minus separata alienis in unum quaeque corpus congregantur, ita cuiusque clari operis capacia ingenia in similitudine et temporum et profectuum semet ipsa ab aliis separaverunt. Una neque multorum annorum spatio divisa aetas per divini spiritus viros, Aeschylum, Sophoclen Euripiden, inlustravit tragoediam; una priscam illam et veterem sub Cratino Aristophaneque et Eupolide comoediam; ac novam comicam Menander aequalesque eius aetatis magis quam operis Philemo ac Diphilus et invenere intra paucissimos annos neque imitandam reliquere. Philosophorum quoque ingenia Socratico ore defluentia omnium, quos paulo ante enumeravimus, quanto post Platonis Aristotelisque mortem floruere spatio? Quid ante Isocratem, quid post eius auditores eorumque discipulos clarum in oratoribus fuit? Adeo quidem artatum angustiis temporum, ut nemo memoria dignus alter ab altero videri nequiverint.

Sebbene questa piccola parte della mia opera sia uscita, per così dire, dal piano propostomi e io comprenda come, in questo procedere così vertiginoso che a mo’ di ruota o di rapido gorgo o di vortice non consente che mi soffermi in alcun punto, debba tralasciare l’essenziale quasi più che abbracciare il superfluo, tuttavia non posso fare a meno di esporre per iscritto un problema che ho spesso dentro di me affrontato, senza mai averlo messo in chiaro razionalmente. Chi potrebbe infatti meravigliarsi a sufficienza che gli ingegni più eccelsi nelle singole arti si trovino insieme nello stesso grado di perfezione e in un medesimo ristretto spazio di tempo e che, come animali di specie diverse, pur chiusi in gabbia o in un altro recinto, tuttavia separandosi dagli altri di altre specie, si riuniscono ciascuno in un gruppo a sé stante, così gli ingegni capaci di creare ciascuno opere nel loro genere sublimi si siano separati dagli altri per confluire in un medesimo periodo di tempo e per raggiungere un medesimo livello? Una sola epoca delimitata dallo spazio di non molti anni ha dato lustro alla tragedia grazie a uomini dall’ispirazione divina, quali Eschilo, Sofocle, Euripide, una sola epoca ha dato lustro a quella commedia antica e primitiva del tempo di Cratino, Aristofane ed Eupoli; e la commedia nuova la crearono nello spazio di pochissimi anni, e la lasciarono inimitabile, Menandro, Filemone e Difilo, pari a Menandro quest’ultimi più per il tempo in cui vissero che per le opere che composero. Anche le eccelse menti di tutti i filosofoi usciti dalla scuola di Socrate, che abbiamo elencato poco sopra, quanto tempo dopo la morte di Platone e di Aristotele fiorirono? Prima di Isocrate e dopo i suoi discepoli e i loro scolari, chi fu famoso nell’eloquenza? E furono compresi in uno spazio di tempo così ristretto che quanti di essi meritarono di essere ricordati, poterono vedersi l’un l’altro.

“Elogio di Scipione Emiliano”

P. Scipio Africanus Aemilianus, qui Carthaginem deleverat, post tot acceptas circa Mumantiam clades creatus iterum consul missusque in Hispaniam, intra annum ac tres menses, quam eo venerat, circumdatam operibus Numantiam excisamque aequavit solo. Nec quisquam hominum ullius gentis ante eum clariore urbium excidio nomen suum perpetuae memoriae commendavit. Nam, excisa Carthagine ac Numantia, ab alterius metu, ab alterius contumeliis nos vindicavit. Hic, eum interrogante tribuno Carbone quid de Ti. Gracchi caede sentiret, respondit, si is vere rem publicam occupare voluisset, iure caesum esse. Et cum omnis contio acclamavisset: “Totiens – inquit – hostium armatorum clamore non territus, quo modo possum vestro clamore moveri, quorum noverca est Italia?”.

P. Scipione Emiliano, quello che aveva distrutto Cartagine, dopo tanti rovesci erano stati subiti per la guerra di Numanzia, fu creato console per la seconda volta e inviato in Spagna, un un anno e tre mesi, da che era arrivato là, circondata Numanzia con le macchine ed espugnatala, la rase al suolo. Non ve n’è uno solo, in quella famiglia, prima di lui, che gloriò il proprio nome a perpetua memoria con una più splendida distruzione di città: infatti, rase al suolo Cartagine e Numanzia, ci liberò dal timore dell’una e dalle offese dell’altra. Costui, quando il tribuno Carbone lo interrogava su cosa pensasse dell’uccisione di Tiberio Gracco, rispose che se veramente voleva dominare la res publica, era morto giustamente. Poi, un giorno che tutta l’assemblea lo fischiava: “Tante volte” – disse – “Che non mi sono spaventato alle urla di nemici in armi, come potrei ora essere sconvolto dal vostro grido, voi cha avete l’Italia per matrigna?”.

Historiae Romanae, Liber Posterior, 6 (“Riforme di Gaio Gracco”)

Decem deinde interpositis annis, qui Ti. Graccum idem Gaium fratrem eius occupavit furor, tam virtutibus eius omnibus quam huic errori similem, ingenio etiam eloquentiaque longe praestantiorem. Qui cum summa quiete animi civitatis princeps esse posset, vel vindicandae fraternae mortis gratia vel praemuniendae regalis potentiae eiusdem exempli tribunatum ingressus, longe maiora et acriora petens dabat civitatem omnibus Italicis, extendebat eam paene usque Alpis, dividebat agros, vetabat quemquam civem plus quingentis iugeribus habere, quod aliquando lege Licinia cautum erat, nova constituebat portoria, novis coloniis replebat provincias, iudicia a senatu trasferebat ad equites, frumentum plebi dari instituerat; nihil immotum, nihil tranquillum, nihil quietum, nihil denique in eodem statu relinquebat; quin alterum etiam continuavit tribunatum. Hunc L. Opimius consul, qui praetor Fregellas exciderat, persecutus armis unaque Fulvium Flaccum, consularem ac triumphalem virum, aeque prava cupientem, quem C. Gracchus in locum Tiberii fratris triumvirum nominaverat, eumque socium regalis adsumpserat potentiae, morte adfecit. Id unum nefarie ab Opimio proditum, quod capitis non dicam Gracchi, sed civis Romani pretium se daturum idque auro repensurum proposuit. Flaccus in Aventino annatos ac pugnam ciens cum filio maiore iugulatus est; Gracchus profugiens, cum iam comprehenderetur ab iis, quos Opimius miserat, cervicem Euporo servo praebuit, qui non segnius se ipse interemit, quam domino succurrerat. Quo die singularis Pomponii equitis Romani in Gracchum fides fuit. Qui more Coclitis sustentatis in ponte hostibus eius, gladio se tranfixit. Ut Ti. Gracchi antea corpus, ita Gai mira crudelitate victorum in Tiberim deiectum est.

Trascorsi poi dieci anni, lla follia che invase Tiberio invase ugualmente anche Gaio Gracco, per ogni virtù simile a quello quanto lo era anche nell’errore, ma per ingegno ed eloquenza era lui senza dubbio ad essere il più bravo. Non appena costui, con la più salda tranquillità d’animo, ebbe l’occasione di mettersi a capo della città, quando assunse la carica di tribuno, certo più in virtù del voler vendicare la morte del fratello o di rafforzare la potenza regale di se stesso, si mise a richiedere riforme ancora più ambiziose e astiose: concedeva la cittadinanza a tutti gli Italici, la voleva estendere quasi fino alle Alpi, divideva i campi, vietava a qualsiasi cittadino di avere in proprietà più di cinquecento iugeri, limite che un tempo era stato già fissaro dalla lex Licinia, istituiva nuove tasse commerciali, riempiva le province di nuovi coloni, trasferiva le corti giudicanti dal senato ai cavalieri, istituiva la distribuzione di frumento alla plebe; nulla era più stabile, nulla era più sicuro, nulla era più calmo, perché nulla, nello stesso stato, aveva lasciato immutato, che non abbia poi continuato a turbare anche durante il secondo suo tribunato. Sicché il console L. Opimio, colui che aveva espugnato Fregellae, lo perseguì con le armi in pugno e insieme a Fulvio Flacco, uomo che aveva rivestito già il consolato ed aveva anche avuto già un trionfo, ma che allo stesso modo ambiva alle perniciose riforme e che G. Gracco avevqa nominato triumviro al posto del fratello Tiberio e lo aveva accolto come alleato della sua supremazia degna di un re, (costui L. Opimio) punì con la morte. L’abuso di Opimio aveva solo questo di nefasto, che aveva proposto di mettere una taglia sulla testa, non tanto di un Gracco, quanto di un cittadino romano e aveva proposto che fosse pagata a peso d’oro. FLacco si rifugiò sull’Aventino e poiché incitava alla resistenza fu poi sgozzato insieme a suo figlio; Gracco tentò di fuggire, ma quando poi fu accerchiato da coloro che Opimio aveva inviato dietro di lui, offrì il collo al suo schiavo Euporo, il quale non fu più lento nell’uccidersi di quanto non lo fu nell’aiutare il suo padrone a farlo. In quel giorno vi fu un gesto di profonda fedeltà del cavaliere romano Pomponio nei confronti di Gracco. Costui, alla maniera di un Coclite, oppostosi ai nemici di quello sopra ad un ponte, si uccise poi con la sua spada. Come già prima il corpo di Tiberio, anche quello di Gaio fu gettato nel Tevere, tale fu l’infierire dei suoi nemici.

Historiae Romanae, Liber Posterior, 4

Interim, dum haec in Italia geruntur, Aristonicus, qui mortuo rege Attalo a quo Asia populo Romano hereditate relicta erat, sicut relicta postea est a Nicomede Bithynia mentitus regiae stirpis originem armis eam occupaverat, is victus a M. Perpenna ductusque in triumpho, sed a M. Aquilio, capite poenas dedit, cum initio belli Crassum Mucianum, virum iuris scientissimum, decedentem ex Asia proconsulem interemisset. At P. Scipio Africanus Aemilianus, qui Carthaginem deleverat, post tot acceptas circa Numantiam clades creatus iterum consul missusque in Hispaniam fortunae virtutique expertae in Africa respondit in Hispania, et intra annum ac tres menses, quam eo venerat, circumdatam operibus Numantiam excisamque aequavit solo. Nec quisquam ullius gentis hominum ante eum clariore urbium excidio nomen suum perpetuae commendavit memoriae: quippe excisa Carthagine ac Numantia ab alterius nos metu, alterius vindicavit contumeliis. Hic, eum interrogante tribuno Carbone, quid de Ti. Gracchi caede sentiret, respondit, si is occupandae rei publicae animum habuisset, iure caesum. Et cum omnis contio adclamasset, hostium. inquit, armatorum totiens clamore non territus, qui possum vestro moveri, quorum noverca est Italia? Reversus in urbem intra breve tempus, M.Aquilio C. Sempronio consulibus abhinc annos centum et sexaginta, post duos consulatus duosque triumphos et bis excisos terrores rei publicae mane in lectulo repertus est mortuus, ita ut quaedam elisarum faucium in cervice reperirentur notae. De tanti viri morte nulla habita est quaestio eiusque corpus velato capite elatum est, cuius opera super totum terrarum orbem Roma extulerat caput. Seu fatalem, ut plures, seu conflatam insidiis, ut aliqui prodidere memoriae, mortem obiit, vitam certe dignissimam egit, quae nullius ad id temporis praeterquam avit fulgore vinceretur. Decessit anno ferme sexto et quinquagesimo: de quo si quis ambiget, recurrat ad priorem consulatum eius, in quem creatus est anno octavo et tricesimo: ita dubitare desinet.

Nel frattempo, mentre queste cose si svolgono in Italia, Aristonico, il quale, morto il re Attalo, dal quale l’Asia era stata lasciata in eredità al popolo Romano, così come, più tardi, Nicomede lasciò la Bitinia, mentendo sulla sua discendenza da quel re, con le armi l’ aveva occupata e, vinto egli da M. Perpenna e condotto in trionfo, subì poi la pena di morte per mano di M. Aquilio, dato che, all’inizio della guerra, aveva fatto uccidere Crasso Muciano , uno dei più esperti uomini di legge, mentre usciva dalla provincia. Ma P. Scipione Emiliano, quello che aveva distrutto Cartagine, dopo tanti rovesci erano stati subiti per la guerra di Numanzia, fu creato console per la seconda volta e inviato in Spagna, sicché della virtù e della fortuna esperita in Africa dette prova anche in Spagna e, un un anno e tre mesi, da che era arrivato là, circondata Numanzia con le macchine ed espugnatala, la rase al suolo. Non ve n’è uno solo, in quella famiglia, prima di lui, che gloriò il proprio nome a perpetua memoria con una più splendida distruzione di città: dato che,rase al suolo Cartagine e Numanzia, ci liberò dal timore dell’una e dalle offese dell’altra. Costui, quando il tribuno Carbone lo interrogava su cosa pensasse dell’uccisione di Tiberio Gracco, rispose che se la sua intenzione era quella di dominare la res publica, era morto giustamente. Poi, un giorno che tutta l’assemblea lo fischiava, disse: “Io, che non mi sono spaventato alle urla di nemici in armi, come potrei ora essere sconvolto dal vostro grido, voi cha avete l’Italia per matrigna?”. Tornato in città in breve tempo, sotto il consolato di M. Aquilio e C. Sempronio, centosessanta anni fa, dopo due consolati e due trionfi e abbattuti due terrori della res publica, un giorno fu trovato morto nel suo letto, e sul suo collo furono trovati due segni di denti. Per la morte di un così grande uomo non si tenne nemmeno un processo, anzi il suo corpo fu condotto con la testa velata, proprio egli, per la cui opera Roma aveva potuto levare la testa su tutto il mondo delle terre emerse. Sia che morì di morte naturale, come molti pure dicono, sia di morte procurataglli da un attentato, come altri hanno tramandato, certo è che la vita che egli condusse fu la più degna, tanto che da nessun altra di nessun tempo potrebbe essere vinta. Morì, di sicuro, che aveva sessantacinque anni . Su questo, se pure qualcuno dubita, controlli il suo primo consolato, nel quale è stato creato, nell’anno 308 della res publica: non potrà più dubitare.