Carmina, I, 22 (“Il poeta è un uomo onesto”)

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nec venenatis gravida sagittis,
Fusce, pharetra,
sive per Syrtis iter aestuosas
sive facturus per inhospitalem
Caucasum vel quae loca fabulosus
lambit Hydaspes.
Namque me silva lupus in Sabina,
dum meam canto Lalagem et ultra
terminum curis vagor expeditis,
fugit inermem;
quale portentum neque militaris
Daunias latis alit aesculetis.
Nec Iubae tellus generat, leonum
arida nutrix.
Pone me pigris ubi nulla campis
arbor aestiva recreatur aura,
quod latus mundi nebulae malusque
Iuppiter urget;
pone sub curru nimium propinqui
solis in terra domibus negata:
dulce ridentem Lalagem amabo,
dulce loquentem.

Chi è integro di vita e puro di colpe
Non ha bisogno di strali dei Mauri né dell’arco
né della faretra colma di frecce avvelenate, o Fusco,
sia che stia per viaggiare tra le Sirti infuocate
o attraverso l’inospitale Caucaso o nei luoghi
che lambisce il favoloso Idaspe.
E infatti un lupo nel bosco sabino,
mentre canto la mia Lalage e oltre
il confine vago libero da preoccupazioni,
fugge me inerme;
un mostro quale né la bellicosa
Daunia nutre nei suoi vasti querceti
né la terra di Giuba genera, arida nutrice
di leoni.
Mettimi in campi sterili dove nessun
albero è ristorato dall’aria estiva,
in quella parte del mondo che le nebbie e
il cattivo Giove opprimono;
mettimi sotto il carro del sole troppo vicino
nella terra negata alle case:
amerò Lalage che ride dolcemente,
che parla dolcemente.

Carmina, II, 10 (“Aurea mediocritas”)

Rectius vives, Licini, neque altum
semper urgendo neque, dum procellas
cautus horrescis, nimium premendo
litus iniquum.
Auream quisquis mediocritatem
diligit, tutus caret obsoleti
sordibus tecti, caret invidenda
sobrius aula.
Saepius ventis agitatur ingens
pinus et celsae graviore casu
decidunt turres feriuntque summos
fulgura montis.
Sperat infestis, metuit secundis
alteram sortem bene praeparatum
pectus: informis hiemes reducit
Iuppiter, idem
submovet. Non, si male nunc, et olim
sic erit: quondam cithara tacentem
suscitat Musam neque semper arcum
tendit Apollo.
Rebus angustis animosus atque
fortis appare; sapienter idem
contrahes vento nimium secundo
turgida vela.

Vivrai meglio, o Licinio, non spingendoti
sempre in alto mare né rasentando troppo
la costa insidiosa mentre prudente temi
le tempeste.
Chiunque segue l’aureo principio del giusto mezzo,
sta lontano al sicuro dagli squallori
di una casa decadente, e sta lontano, sobrio,
da un palazzo che suscita invidia.
Più frequentemente i venti agitano il grande pino,
le alte torri crollano con maggior rovina
e i fulmini colpiscono le cime dei monti.
Un cuore opportunamente predisposto attende
situazioni minacciose, nelle situazioni felici ha paura
del destino avverso: Giove riporta gli inverni
che rendono brutte le cose,
ed egli stesso li allontana. Se ora le cose vanno male,
non saà così in futuro: Apollo sveglia con la cetra
la Musa silenziosa e non tende sempre l’arco.
Nei momenti difficili mostrati corraggioso
e forte; allo stesso tempo tu ammainerai
sapientemente la vela gonfiata da un vento
troppo vigoroso.

Carmina, I, 1,

Maecenas atavis edite regibus,
o et praesidium et dulce decus meum:
sunt quos curriculo pulverem Olympicum
collegisse iuvat metaque fervidis

5
evitata rotis palmaque nobilis
terrarum dominos evehit ad deos;
hunc, si mobilium turba Quiritium
certat tergeminis tollere honoribus;
illum, si proprio condidit horreo

10
quidquid de Libycis verritur areis.
gaudentem patrios findere sarculo
agros Attalicis condicionibus
numquam demoveas, ut trabe Cypria
Myrtoum pavidus nauta secet mare;

15
luctantem Icariis fluctibus Africum
mercator metuens otium et oppidi
laudat rura sui: mox reficit rates
quassas indocilis pauperiem pati.
est qui nec veteris pocula Massici

20
nec partem solido demere de die
spernit, nunc viridi membra sub arbuto
stratus, nunc ad aquae lene caput sacrae;
multos castra iuvant et lituo tubae
permixtus sonitus bellaque matribus

25
detestata; manet sub Iove frigido
venator tenerae coniugis inmemor,
seu visa est catulis cerva fidelibus,
seu rupit teretes Marsus aper plagas.
me doctarum hederae praemia frontium

30
dis miscent superis, me gelidum nemus
Nympharumque leves cum Satyris chori
secernunt populo, si neque tibias
Euterpe cohibet nec Polyhymnia
Lesboum refugit tendere barbiton.

35
quodsi me lyricis vatibus inseres,
sublimi feriam sidera vertice.

O Mecenate disceso da antenati regali, o tu che sei mia difesa e mio dolce onore, ci sono alcuni a cui piace aver raccolto con il carro da gara la polvere di Olimpia e la meta evitata dalle ruote roventi e la nobile palma li innalzano fino agli dei, signori della terra; a questo piace se la folla degli incostanti Quiriti gareggia ad elevarlo alle tre maggiori magistrature; a quello piace se ha accumulato nel proprio granaio tutto il frumento che viene spazzato dalle aie libiche. Non potresti mai smuovere, neppure alle condizioni di Attalo quello a cui piace lavorare i campi paterni con la zappa in modo da spingerlo a solcare il mare Mirtoo, pavido marinaio, con una nave costruita a Cipro. Il mercante che teme l’Africo in lotta con le onde del mare Icario elogia il riposo e la campagna del suo paese; ma subito fa restaurare le navi sconquassate incapace di sopportare una vita modesta. C’è chi non disprezza nè le coppe di Massico invecchiato, nè di sottrarre una parte dall’intero giorno, ora con le membra distese sotto un verde corbezzolo, ora presso una dolce sorgente di acqua sacra. A molti piacciono la vita militare e il suono della tromba mescolato a quello del corno e le guerre detestate dalle madri. Si apposta sotto un cielo gelido il cacciatore immemore della dolce consorte sia che una cerva sia stata avvistata dai cani fedeli, sia che un cinghiale marsico abbia rotto le reti ritorte. Ma l’edera premio delle menti dotte unisce agli dei saperi, ma un fresco bosco e le danze leggere delle Ninfe con i Satiri tengono lontano dal popolo, se nè Euterpe mi impedisce di suonare il faluto nè Polimnia di accordare la Lira di Lesbo. Se mi comprenderai tra i poeti lirici, con il capo altolevato toccherò le stelle.