Saturae, Prologus

Nec fonte labra prolui caballino
nec in bicipiti somniasse Parnaso
memini ut repente sic poeta prodirem
Heliconidasque pallidamque Pirenen
illis remitto quorum imagines lambunt
hederae sequaces ipse semipaganus
ad sacra vatum carmen adfero nostrum
quis expedivit psittaco suum chaere
picamque docuit nostra verba conari
magister artis ingenique largitor
venter negatas artifex sequi voces
quod si dolosi spes refulserit nummi
corvos poetas et poetridas picas
cantare credas Pegaseium nectar.

Non ricordo di avere bagnato le labbra
nella fonte del cavallo né di avere sognato sul Parnaso
dalla doppia cima, cosi da diventare all’improvviso
poeta; le dèe dell’Elicona e la pallida Pirene
lascio a coloro le cui immagini lambiscono
attorte edere; io, mezzo paesano,
porto da me stesso i miei versi alla sagra dei vati.
Chi suggerì al pappagallo quel suo “Salve”,
e insegnò alle gazze a tentare le nostre parole?
Maestro d’arte e largitore d’ingegno il ventre,
un artista nell’imitare voci innaturali.
Poiché se brilli speranza del danaro ingannatore,
ti potrà capitare di credere che poeti corvi
e poetesse gazze stiano cantando il nettare di Pegaso.