Pharsalia, I, 1, 498-595

Qualis, cum turbidus Auster
reppulit a Libycis inmensum Syrtibus aequor

500
fractaque veliferi sonuerunt pondera mali,
desilit in fluctus deserta puppe magister
navitaque et nondum sparsa conpage carinae
naufragium sibi quisque facit, sic urbe relicta
in bellum fugitur. nullum iam languidus aevo

505
evaluit revocare parens coniunxve maritum
fletibus, aut patrii, dubiae dum vota salutis
conciperent, tenuere lares; nec limine quisquam
haesit et extremo tunc forsitan urbis amatae
plenus abit visu: ruit inrevocabile volgus.

510
o faciles dare summa deos eademque tueri
difficiles! urbem populis victisque frequentem
gentibus et generis, coeat si turba, capacem
humani facilem venturo Caesare praedam
ignavae liquere manus. cum pressus ab hoste

515
clauditur externis miles Romanus in oris,
effugit exiguo nocturna pericula vallo,
et subitus rapti munimine caespitis agger
praebet securos intra tentoria somnos:
tu tantum audito bellorum nomine, Roma,

520
desereris; nox una tuis non credita muris.
danda tamen venia est tantorum danda pavorum:
Pompeio fugiente timent.
tum, nequa futuri
spes saltem trepidas mentes levet, addita fati
peioris manifesta fides, superique minaces

525
prodigiis terras inplerunt, aethera, pontum.
ignota obscurae viderunt sidera noctes
ardentemque polum flammis caeloque volantes
obliquas per inane faces crinemque timendi
sideris et terris mutantem regna cometen.

530
fulgura fallaci micuerunt crebra sereno,
et varias ignis denso dedit aere formas,
nunc iaculum longo, nunc sparso lumine lampas.
emicuit caelo tacitum sine nubibus ullis
fulmen et Arctois rapiens de partibus ignem

535
percussit Latiare caput, stellaeque minores
per vacuum solitae noctis decurrere tempus
in medium venere diem, cornuque coacto
iam Phoebe toto fratrem cum redderet orbe
terrarum subita percussa expalluit umbra.

540
ipse caput medio Titan cum ferret Olympo
condidit ardentis atra caligine currus
involvitque orbem tenebris gentesque coegit
desperare diem; qualem fugiente per ortus
sole Thyesteae noctem duxere Mycenae.

545
ora ferox Siculae laxavit Mulciber Aetnae,
nec tulit in caelum flammas sed vertice prono
ignis in Hesperium cecidit latus. atra Charybdis
sanguineum fundo torsit mare; flebile saevi
latravere canes. Vestali raptus ab ara

550
ignis, et ostendens confectas flamma Latinas
scinditur in partes geminoque cacumine surgit
Thebanos imitata rogos. tum cardine tellus
subsedit, veteremque iugis nutantibus Alpes
discussere nivem. Tethys maioribus undis

555
Hesperiam Calpen summumque inplevit Atlanta.
indigetes flevisse deos, urbisque laborem
testatos sudore Lares, delapsaque templis
dona suis, dirasque diem foedasse volucres
accipimus, silvisque feras sub nocte relictis

560
audaces media posuisse cubilia Roma.
tum pecudum faciles humana ad murmura linguae,
monstrosique hominum partus numeroque modoque
membrorum, matremque suus conterruit infans;
diraque per populum Cumanae carmina vatis

565
volgantur. tum, quos sectis Bellona lacertis
saeva movet, cecinere deos, crinemque rotantes
sanguineum populis ulularunt tristia Galli.
conpositis plenae gemuerunt ossibus urnae.
tum fragor armorum magnaeque per avia voces

570
auditae nemorum et venientes comminus umbrae.
quique colunt iunctos extremis moenibus agros
diffugiunt: ingens urbem cingebat Erinys
excutiens pronam flagranti vertice pinum
stridentisque comas, Thebanam qualis Agaven

575
inpulit aut saevi contorsit tela Lycurgi
Eumenis, aut qualem iussu Iunonis iniquae
horruit Alcides viso iam Dite Megaeram.
insonuere tubae et, quanto clamore cohortes
miscentur, tantum nox atra silentibus auris

580
edidit. e medio visi consurgere Campo
tristia Sullani cecinere oracula manes,
tollentemque caput gelidas Anienis ad undas
agricolae fracto Marium fugere sepulchro.

haec propter placuit Tuscos de more vetusto

585
acciri vates. quorum qui maximus aevo
Arruns incoluit desertae moenia Lucae,
fulminis edoctus motus venasque calentis
fibrarum et monitus errantis in aere pinnae,
monstra iubet primum quae nullo semine discors

590
protulerat natura rapi sterilique nefandos
ex utero fetus infaustis urere flammis.
mox iubet et totam pavidis a civibus urbem
ambiri et festo purgantes moenia lustro
longa per extremos pomeria cingere fines

595
pontifices, sacri quibus est permissa potestas.

Come, allorché il torbido austro respinge dalle libiche Sirti il mare sconfinato e l’albero con le vele, che ormai non regge più, scricchiola sinistramente, il timoniere e i marinai, abbandonata la nave, si gettano in acqua e, pur non essendosi ancora infranta la struttura dell’imbarcazione, ciascuno diviene un naufrago – così lasciano la città e fuggono verso la guerra. Ormai il vecchio padre non riesce a richiamare il figlio né la sposa in pianti il coniuge, né riescono a trattenerli i patri Lari, anche solo per il tempo di far voti per la salvezza che già vedono in forse; nessuno si ferma sulla soglia di casa; si allontanano senza gettare un intenso sguardo, che forse sarebbe stato l’ultimo, all’amata città: si precipita la folla che non può essere trattenuta. O dèi, larghi nel concedere il massimo, ma scarsamente disposti a mantenerlo! Mentre Cesare incombe, vili mani abbandonano, facile preda, una città piena di popolazioni e di genti vinte e in grado di contenere l’intero genere umano, se esso vi si raccogliesse. Allorché il soldato romano si trova chiuso e assediato dal nemico in lande straniere, evita i pericoli notturni con una trincea non grande e un terrapieno messo su alla buona con la difesa di zolle strappate in fretta gli consente di dormire tranquillamente nella sua tenda: tu invece, o Roma, vieni abbandonata, sol che si ascolti la parola guerra: nessuno vuol più trascorrere anche una sola notte fra le tue mura. Bisogna purtuttavia concedere una giustificazione – certamente! – a timori così grandi: essi hanno paura, dal momento che anche Pompeo fugge.
Allora, perché neanche una qualche speranza del futuro potesse essere di sollievo agli spiriti timorosi, si aggiunsero segni inequivocabili di un destino ben più tremendo e gli dèi minacciosi riempirono di prodigi la terra, il cielo, il mare. Le oscure notti scorsero astri sconosciuti e il cielo in fiamme e videro fuochi scorrere obliquamente nell’etere attraverso il vuoto e la coda della stella spaventevole, la cometa, che sovverte i regni sulla terra. Fulmini balenarono frequenti nell’ingannevole sereno e il fuoco disegnò le forme più strane nell’aria densa: ora con una lunga luce comparve un giavellotto, ora, con bagliore diffuso, una lampada. Il fulmine brillò silenziosamente in un cielo privo di nubi e, strappando il fuoco dalle zone nordiche, colpì la cima laziare e stelle più piccole, che solitamente scorrono attraverso il vuoto durante la notte, comparvero in pieno giorno e Febe, mentre, riuniti i corni, rifletteva con l’intero suo disco la luce del sole, si oscurò improvvisamente, colpita dall’ombra della terra. Il sole stesso, nel momento in cui sollevava il capo nel mezzo del cielo, nascose il suo carro fiammeggiante con un’oscura nebbia, avvolse di tenebre il mondo e costrinse gli uomini a disperare del giorno, come quando la Micene di Tieste, mentre l’astro fuggiva a ritroso, piombò nel buio della notte. Vulcano aprì con violenza le fauci del siculo Etna, ma non fece innalzare le fiamme verso il cielo: il fuoco, volgendosi verso il basso, si riversò sul fianco del vulcano dalla parte dell’Italia. La fosca Cariddi emise dal fondo del mare flutti sanguigni; i crudeli cani abbaiarono sinistramente. Il fuoco di Vesta si spense e la fiamma, che indicava la conclusione delle Ferie latine, si divise in due parti e si innalzò con una doppia punta, imitando i roghi di Tebe. Allora la terra si abbassò sul suo asse e le Alpi scossero via dai gioghi frementi le nevi eterne. Il mare sommerse con onde gigantesche l’occidentale Calpe e la sommità dell’Atlante. Si narra che gli dèi del luogo piansero ed i Lari testimoniarono, con il loro sudore, il travaglio della città; i doni votivi caddero giù dalle pareti dei templi, orrendi uccelli contaminarono la luce del giorno e le bestie feroci, abbandonate le selve, posero audacemente i loro giacigli nel centro della città. Allora la lingua delle bestie articolò con facilità parole umane, tra gli uomini si verificarono nascite mostruose per il numero e per la forma delle membra e il neonato atterrì la propria madre; tra la gente si diffusero i tristi responsi della Sibilla cumana. Allora coloro che sono eccitati dalla crudele Bellona e si feriscono le braccia proclamarono il volere degli dèi e i Galli, scuotendo i capelli insanguinati, annunciarono lugubremente sciagure alle genti. Le tombe, contenenti i corpi che vi erano stati composti, gemettero. Allora si udirono, nei luoghi più impenetrabili delle selve, clangore di armi e voci possenti: fantasmi si avvicinarono rapidamente e coloro che coltivavano i campi del suburbio fuggirono in preda al terrore. Un’immane Erinni circondava la città, agitando un pino rovesciato con la punta in fiamme e la chioma sibilante, così come l’Eumènide penetrò nella tebana Agàve o vibrò i dardi del crudele Licurgo o come Ercole, che pur aveva veduto Dite, fu atterrito, per ordine dell’iniqua Giunone, da Megèra. Risuonarono squilli di trombe e la nera notte produsse nell’aria silenziosa il medesimo fragore di due eserciti che si scontrano. Fu visto il fantasma di Silla sorgere dal centro del Campo Marzio e predire sinistri responsi e i contadini fuggirono alla vista di Mario, il quale, infranto il sepolcro, sollevava il capo presso le fredde onde dell’Aniene.
A motivo di tutti questi avvenimenti si decretò di far intervenire, secondo l’antica consuetudine, gli aruspici etruschi. Il più vecchio di essi, Arrunte, che abitava le mura di Lucca deserta, esperto nell’interpretare i movimenti della folgore e le calde vene delle fibre e i presagi degli uccelli erranti nell’aria, ordina per prima cosa di eliminare i parti mostruosi, che la natura, che non seguiva più le sue leggi, aveva generato senza alcun seme, e di bruciare con fiamme funeste gli orrendi prodotti di uteri infecondi. Subito dopo comanda ai cittadini impauriti di fare il giro dell’intera città e ai sacerdoti, cui spettavano i sacrifici, di percorrere il lungo pomèrio agli estremi confini dell’Urbe, purificando le mura con una solenne processione.