De Rerum Natura, I, 1-49

Aeneadum genetrix, hominum divomque voluptas,
alma Venus, caeli subter labentia signa
quae mare navigerum, quae terras frugiferentis
concelebras, per te quoniam genus omne animantum
concipitur visitque exortum lumina solis:
te, dea, te fugiunt venti, te nubila caeli
adventumque tuum, tibi suavis daedala tellus
summittit flores, tibi rident aequora ponti
placatumque nitet diffuso lumine caelum.
nam simul ac species patefactast verna diei
et reserata viget genitabilis aura favoni,
aeriae primum volucris te, diva, tuumque
significant initum perculsae corda tua vi.
inde ferae pecudes persultant pabula laeta
et rapidos tranant amnis: ita capta lepore
te sequitur cupide quo quamque inducere pergis.
denique per maria ac montis fluviosque rapacis
frondiferasque domos avium camposque virentis
omnibus incutiens blandum per pectora amorem
efficis ut cupide generatim saecla propagent.
quae quoniam rerum naturam sola gubernas
nec sine te quicquam dias in luminis oras
exoritur neque fit laetum neque amabile quicquam,
te sociam studeo scribendis versibus esse,
quos ego de rerum natura pangere conor
Memmiadae nostro, quem tu, dea, tempore in omni
omnibus ornatum voluisti excellere rebus.
quo magis aeternum da dictis, diva, leporem.
effice ut interea fera moenera militiai
per maria ac terras omnis sopita quiescant;
nam tu sola potes tranquilla pace iuvare
mortalis, quoniam belli fera moenera Mavors
armipotens regit, in gremium qui saepe tuum se
reiicit aeterno devictus vulnere amoris,
atque ita suspiciens tereti cervice reposta
pascit amore avidos inhians in te, dea, visus
eque tuo pendet resupini spiritus ore.
hunc tu, diva, tuo recubantem corpore sancto
circum fusa super, suavis ex ore loquellas
funde petens placidam Romanis, incluta, pacem;
nam neque nos agere hoc patriai tempore iniquo
possumus aequo animo nec Memmi clara propago
talibus in rebus communi desse saluti.
omnis enim per se divum natura necessest
immortali aevo summa cum pace fruatur
semota ab nostris rebus seiunctaque longe;
nam privata dolore omni, privata periclis,
ipsa suis pollens opibus, nihil indiga nostri,
nec bene promeritis capitur nec tangitur ira.

Progenitrice degli Eneadi, delizia degli uomini e degli dei,
madre Venere, che sotto lo scorrere degli astri celesti
inondi di vita il mare navigabile e le terre fruttifere,
grazie a te si perpetua ogni specie d’esseri animati
e il neonato è condotto a vedere la luce del sole:
dinanzi a te, dea, e alla tua presenza fuggono i venti
e i nembi del cielo, al tuo passaggio la laboriosa terra
fa sorgere i fiori profumati, ti sorride la distesa del mare
e risplende di luce diffusa il cielo rasserenato.
Non appena si svela la bellezza dei giorni primaverili
e prende apertamente vigore il soffio vitale dello zefiro,
per primi gli uccelli dell’aria annunciano te, diva,
e il tuo avvento, colpiti al cuore dalla tua potenza.
E poi gli animali selvatici saltellano sui pascoli ridenti
e guadano fiumi impetuosi: così, presi dal diletto,
ti seguono bramosamente dovunque continui a guidarli.
Alfine, per mari e per monti, e per fiumi voraci,
e sui frondosi nidi degli uccelli, e nei campi rigogliosi,
instillando a ciascuno nel petto il delicato amore
fai che per ogni razza le generazioni si riproducano bramose.
Poiché tu sola governi la natura d’ogni cosa
e nulla senza te può innalzarsi alle divine sorgenti
di luce, come nulla ci sarà gradito né amabile,
desidero che tu mi sia compagna nel comporre i versi
che io mi affanno a plasmare sulla natura del mondo
in onore del caro Memmiade, che tu, dea, hai voluto
che, provvisto di ogni virtù, eccellesse in ogni frangente.
Perciò tanto più, diva, concedi alle mie parole eterna bellezza.
Fa’ che nel frattempo le crudeli opere di guerra
tutte assopite per mare e per terra si plachino.
Ché tu sola puoi rinfrancare i mortali con pace serena,
dal momento che Marte, il signore dell’armi, che pur guida
le forze spietate di guerra, così spesso sul tuo grembo
s’abbandona, sconfitto dall’eterna ferita d’amore,
e con lo sguardo all’insù, rovesciato all’indietro il bel collo,
ciba d’amore i suoi occhi avidi, anelante d’amore per te, dea,
e, così supino, il suo spirito pende dalle tue labbra.
Tu, divina, abbracciando dall’alto col tuo sacro corpo
il suo che si trova riverso, effondi di bocca soavi parole
chiedendo, illustrissima, per i Romani una pace tranquilla.
Ché non possiamo, in un momento tanto avverso per la patria,
attendere con animo sereno a questi versi, né la gloriosa stirpe
di Memmio può in tal frangente distrarsi dal bene comune.
Ché di per sé ogni natura divina ha bisogno
di godere vita immortale nell’eccelsa quiete,
separata e parecchio distante dalle umane vicende.
Priva di qualsiasi dolore, lontana dai pericoli, infatti,
potente per le sue facoltà, per nulla di noi bisognosa,
non è attirata dai nostri meriti né sfiorata dalla nostra ira.