At liquidas avium voces imitarier ore
ante fuit multo quam levia carmina cantu
concelebrare homines possent aurisque iuvare.
et zephyri cava per calamorum sibila primum
agrestis docuere cavas inflare cicutas.
inde minutatim dulcis didicere querellas,
tibia quas fundit digitis pulsata canentum,
avia per nemora ac silvas saltusque reperta,
per loca pastorum deserta atque otia dia.
[sic unum quicquid paulatim protrahit aetas
in medium ratioque in luminis eruit oras.]
haec animos ollis mulcebant atque iuvabant
cum satiate cibi; nam tum sunt omnia cordi.
saepe itaque inter se prostrati in gramine molli
propter aquae rivom sub ramis arboris altae.
non magnis opibus iucunde corpora habebant,
praesertim cum tempestas ridebat et anni
tempora pingebant viridantis floribus herbas.
tum ioca, tum sermo, tum dulces esse cachinni
consuerant; agrestis enim tum musa vigebat.
tum caput atque umeros plexis redimire coronis
floribus et foliis lascivia laeta movebat,
atque extra numerum procedere membra moventes
duriter et duro terram pede pellere matrem;
unde oriebantur risus dulcesque cachinni,
omnia quod nova tum magis haec et mira vigebant.
et vigilantibus hinc aderant solacia somno
ducere multimodis voces et flectere cantus
et supera calamos unco percurrere labro;
unde etiam vigiles nunc haec accepta tuentur.
et numerum servare genus didicere, neque hilo
maiore interea capiunt dulcedine fructum
quam silvestre genus capiebat terrigenarum.
Ma l’imitare con la bocca le limpide voci degli uccelli
fu molto prima che gli uomini fossero capaci di praticare
il canto di versi armoniosi e dilettare gli orecchi.
E i sibili dello zefiro per le cavità delle canne dapprima
insegnarono ai campagnoli a soffiare entro cave zampogne.
Poi a poco a poco appresero i dolci lamenti
che effonde il flauto toccato dalle dita dei sonatori,
scoperto fra remoti boschi e selve e pascoli,
nei solinghi luoghi dei pastori e negli ozi divini.
[Così gradatamente il tempo rivela ogni cosa,
e la ragione la innalza alle plaghe della luce.]
Questi suoni carezzavano loro gli animi e davano diletto,
quando erano sazi di cibo; allora infatti tutto è caro al cuore.
Spesso, dunque, familiarmente distesi sull’erba morbida,
presso un ruscello, sotto i rami di un albero alto,
con tenui mezzi davano giocondità ai corpi,
soprattutto quando il tempo arrideva e la stagione
dipingeva di fiori le erbe verdeggianti.
Allora solevano esserci gli scherzi, allora i conversari, allora i dolci
scoppi di gaiezza; allora infatti la musa agreste era in rigoglio;
allora una libera allegria li spingeva a ornare il capo
e le spalle con corone intrecciate di fiori e di foglie,
e ad avanzare in danza senza ritmo, duramente movendo
le membra, e a battere con duro piede la madre terra;
di lì nascevano risa e dolci scoppi di gaiezza, perché allora
tutte queste cose, più nuove e meravigliose, erano pregiate.
E se vegliavano, di qui avevano sollievo per il sonno perduto:
far passare la voce per molti toni e modulare il canto,
e correre col labbro incurvato su per le canne del flauto;
donde venne questa usanza che anche ora conservano le scolte,
e hanno imparato a osservare i tipi dei ritmi, ma intanto
non colgono affatto un frutto di dolcezza maggiore di quello
che coglieva la stirpe silvestre dei figli della terra.