Decem deinde interpositis annis, qui Ti. Graccum idem Gaium fratrem eius occupavit furor, tam virtutibus eius omnibus quam huic errori similem, ingenio etiam eloquentiaque longe praestantiorem. Qui cum summa quiete animi civitatis princeps esse posset, vel vindicandae fraternae mortis gratia vel praemuniendae regalis potentiae eiusdem exempli tribunatum ingressus, longe maiora et acriora petens dabat civitatem omnibus Italicis, extendebat eam paene usque Alpis, dividebat agros, vetabat quemquam civem plus quingentis iugeribus habere, quod aliquando lege Licinia cautum erat, nova constituebat portoria, novis coloniis replebat provincias, iudicia a senatu trasferebat ad equites, frumentum plebi dari instituerat; nihil immotum, nihil tranquillum, nihil quietum, nihil denique in eodem statu relinquebat; quin alterum etiam continuavit tribunatum. Hunc L. Opimius consul, qui praetor Fregellas exciderat, persecutus armis unaque Fulvium Flaccum, consularem ac triumphalem virum, aeque prava cupientem, quem C. Gracchus in locum Tiberii fratris triumvirum nominaverat, eumque socium regalis adsumpserat potentiae, morte adfecit. Id unum nefarie ab Opimio proditum, quod capitis non dicam Gracchi, sed civis Romani pretium se daturum idque auro repensurum proposuit. Flaccus in Aventino annatos ac pugnam ciens cum filio maiore iugulatus est; Gracchus profugiens, cum iam comprehenderetur ab iis, quos Opimius miserat, cervicem Euporo servo praebuit, qui non segnius se ipse interemit, quam domino succurrerat. Quo die singularis Pomponii equitis Romani in Gracchum fides fuit. Qui more Coclitis sustentatis in ponte hostibus eius, gladio se tranfixit. Ut Ti. Gracchi antea corpus, ita Gai mira crudelitate victorum in Tiberim deiectum est.
Trascorsi poi dieci anni, lla follia che invase Tiberio invase ugualmente anche Gaio Gracco, per ogni virtù simile a quello quanto lo era anche nell’errore, ma per ingegno ed eloquenza era lui senza dubbio ad essere il più bravo. Non appena costui, con la più salda tranquillità d’animo, ebbe l’occasione di mettersi a capo della città, quando assunse la carica di tribuno, certo più in virtù del voler vendicare la morte del fratello o di rafforzare la potenza regale di se stesso, si mise a richiedere riforme ancora più ambiziose e astiose: concedeva la cittadinanza a tutti gli Italici, la voleva estendere quasi fino alle Alpi, divideva i campi, vietava a qualsiasi cittadino di avere in proprietà più di cinquecento iugeri, limite che un tempo era stato già fissaro dalla lex Licinia, istituiva nuove tasse commerciali, riempiva le province di nuovi coloni, trasferiva le corti giudicanti dal senato ai cavalieri, istituiva la distribuzione di frumento alla plebe; nulla era più stabile, nulla era più sicuro, nulla era più calmo, perché nulla, nello stesso stato, aveva lasciato immutato, che non abbia poi continuato a turbare anche durante il secondo suo tribunato. Sicché il console L. Opimio, colui che aveva espugnato Fregellae, lo perseguì con le armi in pugno e insieme a Fulvio Flacco, uomo che aveva rivestito già il consolato ed aveva anche avuto già un trionfo, ma che allo stesso modo ambiva alle perniciose riforme e che G. Gracco avevqa nominato triumviro al posto del fratello Tiberio e lo aveva accolto come alleato della sua supremazia degna di un re, (costui L. Opimio) punì con la morte. L’abuso di Opimio aveva solo questo di nefasto, che aveva proposto di mettere una taglia sulla testa, non tanto di un Gracco, quanto di un cittadino romano e aveva proposto che fosse pagata a peso d’oro. FLacco si rifugiò sull’Aventino e poiché incitava alla resistenza fu poi sgozzato insieme a suo figlio; Gracco tentò di fuggire, ma quando poi fu accerchiato da coloro che Opimio aveva inviato dietro di lui, offrì il collo al suo schiavo Euporo, il quale non fu più lento nell’uccidersi di quanto non lo fu nell’aiutare il suo padrone a farlo. In quel giorno vi fu un gesto di profonda fedeltà del cavaliere romano Pomponio nei confronti di Gracco. Costui, alla maniera di un Coclite, oppostosi ai nemici di quello sopra ad un ponte, si uccise poi con la sua spada. Come già prima il corpo di Tiberio, anche quello di Gaio fu gettato nel Tevere, tale fu l’infierire dei suoi nemici.