De Bello Civili, II, 35

Qua in fuga Fabius Pelignus quidam ex infimis ordinibus de exercitu Curionis primus agmen fugientium consecutus magna voce Varum nomine appellans requirebat, uti unus esse ex eius militibus et monere aliquid velle ac dicere videretur. Ubi ille saepius appellatus aspexit ac restitit et, quis esset aut quid vellet, quaesivit, umerum apertum gladio appetit paulumque afuit, quin Varum interficeret; quod ille periculum sublato ad eius conatum scuto vitavit. Fabius a proximis militibus circumventus interficitur. Hac fugientium multitudine ac turba portae castrorum occupantur atque iter impeditur, pluresque in eo loco sine vulnere quam in proelio aut fuga intereunt, neque multum afuit, quin etiam castris expellerentur, ac nonnulli protinus eodem cursu in oppidum contenderunt. Sed cum loci natura et munitio castrorum aditum prohibebant, tum quod ad proelium egressi Curionis milites eis rebus indigebant, quae ad oppugnationem castrorum erant usui. Itaque Curio exercitum in castra reducit suis omnibus praeter Fabium incolumibus, ex numero adversariorum circiter DC interfectis ac mille vulneratis; qui omnes discessu Curionis multique praeterea per simulationem vulnerum ex castris in oppidum propter timorem sese recipiunt. Qua re animadversa Varus et terrore exercitus cognito bucinatore in castris et paucis ad speciem tabernaculis relictis de tertia vigilia silentio exercitum in oppidum reducit.

Durante questa fuga un Peligno, di nome Fabio, che aveva uno dei gradi più bassi dell’esercito di Curione, raggiunta la prima fila dei fuggitivi, andava in cerca di Varo chiamandolo per nome ad alta voce sì da sembrare essere uno dei suoi soldati e volerlo avvertire e parlargli. Quando Varo, dopo essere stato più volte chiamato, lo vide, si fermò, e chiese chi fosse e che cosa volesse, quello tirò un colpo di spada al fianco e mancò poco che uccidesse Varo; egli, alzato lo scudo per difendersi dall’attacco, evitò questo pericolo. Fabio circondato dai soldati che erano più vicini viene ucciso. Le porte dell’accampamento vengono ostruite da una moltitudine disordinata di fuggitivi e viene impedito il passaggio; muoiono più soldati in quel luogo senza ricevere ferita che in battaglia o durante la fuga e non mancò molto che venissero scacciati dal campo; alcuni uomini, senza interrompere la corsa, si diressero verso la città. Ma l’accesso era allora impedito per un verso dalla natura del luogo e dalle fortificazioni e per l’altro dal fatto che i soldati di Curione, usciti per combattere, mancavano di quei mezzi necessari per espugnare il campo. E così Curione riconduce l’esercito nell’accampamento con tutti i suoi soldati incolumi, eccetto Fabio; mentre fra i nemici ne furono uccisi circa seicento e feriti mille. Alla partenza di Curione tutti costoro e molti altri, che si fingevano feriti, lasciano l’accampamento e si rifugiano, per la paura, nella città. Varo, accortosi di ciò, visto il terrore dell’esercito, lasciati nel campo un trombettiere e poche tende per ingannare il nemico, verso mezzanotte, in silenzio, riconduce l’esercito in città.

De Bello Gallico, I, 20

Diviciacus multis cum lacrimis Caesarem complexus obsecrare coepit ne quid gravius in fratrem statueret: scire se illa esse vera, nec quemquam ex eo plus quam se doloris capere, propterea quod, cum ipse gratia plurimum domi atque in reliqua Gallia, ille minimum propter adulescentiam posset, per se crevisset; quibus opibus ac nervis non solum ad minuendam gratiam, sed paene ad perniciem suam uteretur. Sese tamen et amore fraterno et existimatione vulgi commoveri. Quod si quid ei a Caesare gravius accidisset, cum ipse eum locum amicitiae apud eum teneret, neminem existimaturum non sua voluntate factum; qua ex re futurum uti totius Galliae animi a se averterentur. Haec cum pluribus verbis flens a Caesare peteret, Caesar eius dextram prendit; consolatus rogat finem orandi faciat; tanti eius apud se gratiam esse ostendit uti et rei publicae iniuriam et suum dolorem eius voluntati ac precibus condonet. Dumnorigem ad se vocat, fratrem adhibet; quae in eo reprehendat ostendit; quae ipse intellegat, quae civitas queratur proponit; monet ut in reliquum tempus omnes suspiciones vitet; praeterita se Diviciaco fratri condonare dicit. Dumnorigi custodes ponit, ut quae agat, quibuscum loquatur scire possit.

Diviziaco abbracciò Cesare e scoppiò in lacrime: incominciò a implorarlo di non prendere provvedimenti troppo gravi nei confronti del fratello. Diceva di sapere che era vero, ma ne era addolorato più di chiunque altro, perché a rendere potente Dumnorige era stato proprio lui, Diviziaco, quando era molto influente in patria e nel resto della Gallia, mentre suo fratello non lo era affatto a causa della sua giovane età. Dumnorige, però, si era servito delle risorse e delle forze acquisite, finendo non solo per diminuire il favore di cui godeva suo fratello, ma quasi per rovinare se stesso. Tuttavia, Diviziaco diceva di essere mosso sia dall’affetto fraterno, sia dall’opinione della sua gente. Se Cesare condannava Dumnorige a una pena grave, nessuno avrebbe creduto all’estraneità di Diviziaco, che aveva una posizione di privilegio, come amico di Cesare, ragion per cui egli avrebbe perso l’appoggio di tutti i Galli. Piangendo, continuava a rivolgergli parole di supplica. Cesare, prendendogli la destra, lo consola, gli chiede di non aggiungere altro e gli dichiara che la sua influenza contava per lui tanto, che avrebbe sacrificato al suo desiderio e alle sue preghiere sia l’offesa arrecata alla repubblica, sia il proprio risentimento. Alla presenza del fratello convoca Dumnorige, gli espone gli addebiti da muovergli, le cose che aveva capito e quelle di cui il suo popolo si lamentava. Lo ammonisce a evitare in futuro tutti i sospetti e gli dice che gli perdonava il passato in virtù di suo fratello Diviziaco. Lo mette, però, sotto sorveglianza per poter sapere che cosa facesse e con chi parlasse.

De bello gallico, 1, 47

Biduo post Ariovistus ad Caesarem legatos misit: velle se de iis rebus quae inter eos egi coeptae neque perfectae essent agere cum eo: uti aut iterum conloquio diem constitueret aut, si id minus vellet, ex suis legatis aliquem ad se mitteret. Conloquendi Caesari causa visa non est, et eo magis quod pridie eius diei Germani retineri non potuerant quin tela in nostros coicerent. Legatum ex suis sese magno cum periculo ad eum missurum et hominibus feris obiecturum existimabat. Commodissimum visum est C. Valerium Procillum, C. Valerii Caburi filium, summa virtute et humanitate adulescentem, cuius pater a C. Valerio Flacco civitate donatus erat, et propter fidem et propter linguae Gallicae scientiam, qua multa iam Ariovistus longinqua consuetudine utebatur, et quod in eo peccandi Germanis causa non esset, ad eum mittere, et una M. Metium, qui hospitio Ariovisti utebatur. His mandavit quae diceret Ariovistus cognoscerent et ad se referrent. Quos cum apud se in castris Ariovistus conspexisset, exercitu suo praesente conclamavit: quid ad se venirent? an speculandi causa? Conantes dicere prohibuit et in catenas coniecit.

Due giorni dopo, Ariovisto manda di nuovo ambasciatori a Cesare, chiedendo di riprendere il colloquio interrotto e di fissare un nuovo appuntamento: se Cesare non era disponibile, mandasse uno dei suoi luogotenenti. Cesare ritenne che non vi fosse motivo di intrattenere un nuovo colloquio, tanto più che la volta prece­dente i Germani non si erano potuti trattenere dal lanciare proiettili contro i nostri. Riteneva che fosse molto pericoloso mandare uno dei suoi luogotenenti, lasciandolo nelle mani di quegli uomini selvaggi. Gli sembrò molto più opportuno inviare Gaio Valerio Procillo, figlio di Gaio Valerio Caburo, un giovane di grandissimo coraggio e molto colto, il cui padre aveva ricevuto la cittadinanza romana da Gaio Valerio Flacco: egli era leale e conosceva la lingua gallica, che una lunga pratica aveva ormai reso familiare ad Ariovisto; contro di lui, inoltre, non vi potevano essere motivi di risentimento da parte dei Germani. Decise di mandare con lui anche Marco Mettio, legato ad Ariovisto da vincoli di ospitalità. Il loro compito era di ascoltare quanto Ariovisto avesse da dirgli e riferirglielo. Appena si trovarono di fronte a lui nel suo accampamento, in presenza dell’esercito, Ariovisto gridò: perché venivano da lui? forse per spiare? Mentre tentavano di rispondere, glielo impedì e li gettò in catene.

De Bello Gallico, II, 20

Caesari omnia uno tempore erant agenda: vexillum proponendum, quod erat insigne, cum ad arma concurri oporteret, signum tuba dandum, ab opere revocandi milites, qui paulo longius aggeris petendi causa processerant, arcessendi, acies instruenda, milites cohortandi, signum dandum. Quarum rerum magnam partem temporis brevitas et incursus hostium impediebat. His difficultatibus duae res erant subsidio, scientia atque usus militum, quod superioribus proeliis esercitati: quid fieri oporteret, non minus commode ipsi sibi praescribere quam ab aliis doceri poterant, et quod ab opere singulisque legionibus singulos legatos Caesar discedere nisi munitis castris vetuerat. Hi propter propinquitatem et celeritatem hostium nihil iam Caesaris imperium exspectabant, sed per se quae videbantur administrabant.

Cesare doveva fare tutto nello stesso istante: (c’era da) alzare il vessillo, che era il segnale, quando bisognasse correre alle armi, dare il segno con la tromba, richiamare dalla fortificazione i soldati, che erano avanzati più lontano per cercare materiale, spronarli, schierare l’esercito, esortare i soldati, dare il segnale. Ma la brevità del tempo e l’assalto dei nemici impediva la maggior parte di quelle cose. A queste difficoltà due erano le cose d’aiuto, l’esperienza e l’abilità dei soldati, che esercitati dai precedenti scontri: cosa occorresse fare, non meno chiaramente essi stessi potevano ordinarselo che farselo insegnare da altri ed il fatto che Cesare aveva vietato che i singoli legati si allontanassero dalla fortificazione e dalle singole legioni, se non fortificati gli accampamenti. Questi per la vicinanza e la velocità dei nemici ormai non attendevano per nulla l’ordine di Cesare, ma da sé organizzavano quello che sembrava.

De Bello Gallico, IV, 13

Hoc facto proelio Caesar neque iam sibi legatos audiendos neque condiciones accipiendas arbitrabatur ab iis, qui per dolum atque insidias petita pace ultro bellum intulissent; exspectare vero dum hostium copiae augerentur equitatusque reverteretur, summae dementiae esse iudicabat et cognita Gallorum infirmitate quantum iam apud eos hostes uno proelio auctoritatis essent consecuti sentiebat. Quibus ad consilia capienda nihil spatii dandum existimabat. His constitutis rebus et consilio cum legatis et quaestore communicato, ne quem diem pugnae praetermitteret, opportunissime res accidit, quod postridie eius diei mane eadem et perfidia et simulatione usi Germani frequentes omnibus principibus maioribusque natu adhibitis ad eum in castra venerunt, simul, ut dicebatur, sui purgandi causa, quod contra atque esset dictum et ipsi petissent, proelium pridie commisissent, simul ut, si quid possent, de indutiis fallendo impetrarent. Quos sibi Caesar oblatos gavisus, illos retineri iussit, ipse omnes copias castris eduxit equitatumque, quod recenti proelio perterritum esse existimabat, agmen subsequi iussit.

Fatta questa battaglia, Cesare pensava che ormai non doveva ascoltare gli ambasciatori né accogliere condizioni da parte loro, che avevano mosso la guerra con l’inganno e le insidie, dopo aver chiesto la pace; aspettare poi fin che le truppe dei nemici fossero aumentate e ritornasse la cavalleria, lo considerava di grande stoltezza e saputa la leggerezza dei Galli si accorgeva quanto di prestigio ormai presso di loro avessero ottenuto. Riteneva che non bisognava dare ad essi nessuno spazio (di tempo) per prendere decisioni. Stabilite queste cose e comunicato il piano con i legati ed il questore, di non rimandare nessun giorno per la battaglia, molto opportunamente accadde il fatto che il giorno seguente a quello di mattina, servendosi della stessa slealtà e falsità, usati tutti i capi ed anziani, numerosi vennero da lui, allo stesso tempo, come si diceva, per scusarsi, perché essi contrariamente a quello che era stato detto ed essi stessi avevano chiesto, avevano attaccato battaglia il giorno prima, e nello stesso tempo, perché, se potevano qualcosa, ingannando ottenessero per la tregua. Rallegratosi che gli si fodero presentati, Cesare, comandò di arrestarli, egli fece uscire tutte le truppe dagli accampamenti e la cavalleria, comandò che la schiera.

De Bello Gallico, I, 31

Eo concilio dimisso idem principes civitatum, qui ante fuerant, ad Caesarem reverterunt petieruntque, uti sibi secreto in occulto de sua omniumque salute cum eo agere liceret. Ea re impetrata sese omnes flentes Caesari ad pedes proiecerunt: non minus se id contendere et laborare, ne ea quae dixissent enuntiarentur, quam uti ea quae vellent impetrarent, propterea quod, si enuntiatum esset, summum in cruciatum se venturos viderent. Locutus est pro his Diviciacus Haeduus: Galliae totius factiones esse duas: harum alterius principatum tenere Haeduos, alterius Arvernos. Hi cum tantopere de potentatu inter se multos annos contenderent, factum esse uti ab Arvernis Sequanisque Germani mercede arcesserentur. Horum primo circiter milia xv Rhenum transisse; posteaquam agros et cultum et copias Gallorum homines feri ac barbari adamassent, traductos plures; nunc esse in Gallia ad centum et viginti milium numerum. Cum his Haeduos eorumque clientes semel atque iterum armis contendisse;magnam calamitatem pulsos accepisse, omnem nobilitatem, omnem senatum, omnem equitatum amisisse. Quibus proeliis calamitatibusque fractos, qui et sua virtute et populi Romani hospitio atque amicitia plurimum ante in Gallia potuissent, coactos esse Sequanis obsides dare nobilissimos civitatis et iure iurando civitatem obstringere, sese neque obsides repetituros neque auxilium a populo Romano imploraturos neque recusaturos, quominus perpetuo sub illorum dicione atque imperio essent. Unum se esse ex omni civitate Haeduorum, qui adduci non potuerit, ut iuraret aut liberos suos obsides daret. Ob eam rem se ex civitate profugisse et Romam ad senatum venisse auxilium postulatum, quod solus neque iure iurando neque obsidibus teneretur. Sed peius victoribus Sequanis quam Haeduis victis accidisse, propterea quod Ariovistus rex Germanorum in eorum finibus consedisset tertiamque partem agri Sequani, qui esset optimus totius Galliae, occupavisset, et nunc de altera parte tertia Sequanos decedere iuberet, propterea quod paucis mensibus ante Harudum milia hominum xxiiii ad eum venissent, quibus locus ac sedes pararentur. Futurum esse paucis annis, uti omnes ex Galliae finibus pellerentur atque omnes Germani Rhenum transirent; neque enim conferendum esse Gallicum cum Germanorum agro, neque hanc consuetudinem victus cum illa comparandam. Ariovistum autem ut semel Gallorum copias proelio vicerit, quod proelium factum sit ad Magetobrigam, superbe et crudeliter imperare, obsides nobilissimi cuiusque liberos poscere et in eos omnia exempla cruciatusque edere, si qua res non ad nutum aut advoluntatem eius facta sit. Hominem esse barbarum, iracundum, temerarium; non posse eius imperia diutius sustineri. Nisi quid in Caesare populoque Romano sit auxilii, omnibus Gallis idem esse faciendum, quod Helvetii fecerint, ut domo emigrent, aliud domicilium, alias sedes, remotas a Germanis, petant fortunamque, quaecumque accidat, experiantur. Haec si enuntiata Ariovisto sint, non dubitare quin de omnibus obsidibus, qui apud eum sint, gravissimum supplicium sumat. Caesarem vel auctoritate sua atque exercitus vel recenti victoria vel nomine populi Romani deterrere posse, ne maior multitudo Germanorum Rhenum traducatur, Galliamque omnem ab Ariovisti iniuria posse defendere.

Congedata quella riunione, gli stessi capi delle nazioni, che c’erano stati prima, ritornarono da Cesare e chiesero che fosse loro permesso secretamente di parlare con lui della salvezza loro e di tutti in privato. Ottenuto questo, tutti piangendo si buttarono ai piedi di Cesare: (che) essi insistevano e si preoccupavano perché quello che dicevano non si rivelasse, non meno di quanto chiedessero ciò che volevano, per il fatto che, se si fosse rivelato, vedevano che essi sarebbero incappati in una estrema sofferenza. Per loro parlò l’eduo Diviziaco: (che) c’erano due partiti di tutta la Gallia: di uno di questi avevano la supremazia gli Edui, dell’altro gli Arverni. Scontrandosi questi tra loro per molti anni sull primato, è accaduto che dagli Arverni e dai Sequani erano stati assoldati i Germani con denaro. Dapprima circa 15 mila di questi avevano attraversato il Reno; dopo che uomini feroci e barbari avevano bramato campi, civiltà e ricchezze dei Galli, ne erano passati di più; ora c’era in Gallia un numero di circa cento venti mila. Contro costoro gli Edui ed i loro clienti più e più volte si erano scontrati con le armi; sconfitti avevan subito un grave danno, avevano perso tutta la nobiltà, tutto il senato, tutta la cavalleria. Rovinati da quei combattimenti e disfatte, quelli che per il proprio valore e per l’ospitalità del popolo romano in Gallia prima avevano potuto moltissimo, eran stati costretti a dare come ostaggi ai Sequani i più nobili della nazione e a legare la nazione con giuramento, (che) essi non avrebbero richiesto gli ostaggi, né avrebbero implorato l’aiuto del popolo romano, né si sarebbero sottratti, poiché per sempre erano sotto il loro potere e supremazia. C’era lui solo di tutta la nazione degli Edui, che non si poté obbligare a giurare o a dare i suoi figli come ostaggi. Per tale motivo era fuggito dalla nazione ed era venuto a Roma dal senato a chiedere aiuto, perché lui solo non era tenuto dal giuramento e dagli ostaggi. Ma era accaduto di peggio ai Sequani vincitori che agli Edui vinti, per il fatto che Ariovisto re dei Germani si era insediato nei loro territori ed aveva occupato la terza parte del terreno seguano, che era il migliore di tutta la Gallia ed ora ordinava che i Sequani se ne andassero da un’altra terza parte per il fatto che pochi mesi prima 24 mila uomini Arudi erano giunti da lui, per i quali erano preparati luogo e sede. In pochi anni sarebbe accaduto che tutti verrebbero cacciati dalla Gallia e tutti i Germani avrebbero attraversato il Reno; e non si poteva paragonare il gallico con il terreno germanico, né l’abitudine di vita si poteva confrontare con quella. Inoltre Ariovisto come aveva vinto una volta le truppe dei Galli, combattimento che era avvenuto presso Magetobriga, comandava superbamente e crudelmente, chiedeva come ostaggi i figli di qualunque nobile e promuove contro di essi tutti gli esempi e le punizioni, e una cosa non sia stata fatta secondo il suo cenno o la suavolontà.Era un personaggio barbaro, iracondo, temerario; isuoi dispotismi non si potevano sopportare a lungo. Se non ci fosse qualcosa di aiuto in Cesare e nel popolo romano, tutti i Galli devono fare la stessa cosa che hanno fatto gli Elvezi, emigrare dalla patria, cercare un’ altra dimora,altre sedi, lontane dai Germani e tentare la sorte, qualunque capiti. Se queste cose fossero state riferite ad Ariovisto, non dubitava che per tutti gli ostaggi, che c’erano presso di lui, darebbe una dolorosissima punizione. Cesare poteva o col suo prestigio e con la vittoria anche recente dell’esercito o con la fama del popolo romano atterrirlo, perché una maggiore moltitudine di Germani attraversasse il Reno, e poteva difendere tutta la Gallia dall’oltraggio di Ariovisto.

De Bello Gallico, I, 10

Caesari nuntiatur Helvetiis esse in animo per agrum Sequanorum et Haeduorum iter in Santonum fines facere, qui non longe a Tolosatium finibus absunt, quae civitas est in provincia. Id si fieret, intellegebat magno cum periculo provinciae futurum, ut homines bellicosos, populi Romani inimicos, locis patentibus maximeque frumentariis finitimos haberet. Ob eas causas ei munitioni, quam fecerat, T. Labienum legatum praefecit; ipse in Italiam magnis itineribus contendit duasque ibi legiones conscribit et tres, quae circum Aquileiam hiemabant, ex hibernis educit et, qua proximum iter in ulteriorem Galliam per Alpes erat, cum his quinque legionibus ire contendit. Ibi Ceutrones et Graioceli et Caturiges locis superioribus occupatis itinere exercitum prohibere conantur. Compluribus his proeliis pulsis ab Ocelo, quod est citerioris provinciae extremum, in fines Vocontiorum ulterioris provinciae die septimo pervenit; inde in Allobrogum fines, ab Allobrogibus in Segusiavos exercitum ducit. Hi sunt extra provinciam trans Rhodanum primi.

A Cesare viene annunciato che gli Elvezi hanno in animo di fare la marcia per il terreno dei Sequani e degli Edui verso i territori dei Santoni, che non distano molto dai territori dei Tolosati, e questa popolazione è nella provincia. Se accadesse ciò, capiva che sarebbe capitato con grande rischio della provincia, che avessero come confinanti uomini bellicosi, avversari del popolo romano, in zone aperte e soprattutto cerealicole. Per tali motivi mette a capo di quella fortificazione, che aveva fatto, il legato T. Labieno; egli si dirige a marce forzate in Italia ed arruola lì due legioni e (ne) richiama dagli accampamenti invernali tre, che svernavano attorno ad Aquileia e, per dove la marcia verso la Gallia transalpina era più vicina attraverso le Alpi, decide di andare con queste cinque legioni. Qui i Neutroni, i Graioceli ed i Caturigi, occupati i luoghi superiori, tentano di bloccare l’esercito durante la marcia. Sconfitti costoro con parecchi combattimenti, da Ocelo, che è l’estremità della provincia cisalpina, giunge nei territori dei Voconzi della provincia transalpina al settimo giorno; di lì nei territori degli Allobrogi, dagli Allobrogi guida l’esercito tra i Segusiavi. Questi sono i primi fuori della provincia al di là del Rodano.

De Bello Gallico, I, 9

Relinquebatur una per Sequanos via, qua Sequanis invitis propter angustias ire non poterant. His cum sua sponte persuadere non possent, legatos ad Dumnorigem Haeduum mittunt, ut eo deprecatore a Sequanis impetrarent. Dumnorix gratia et largitione apud Sequanos plurimum poterat et Helvetiis erat amicus, quod ex ea civitate Orgetorigis filiam in matrimonium duxerat, et cupiditate regni adductus novis rebus studebat et quam plurimas civitates suo beneficio habere obstrictas volebat. Itaque rem suscipit et a Sequanis impetrat ut per fines suos Helvetios ire patiantur, obsidesque uti inter sese dent perficit: Sequani, ne itinere Helvetios prohibeant, Helvetii, ut sine maleficio et iniuria transeant.

Restava un’unica via, quella attraverso i Sequani, impercorribile però senza il loro consenso, tanto era angusta. Incapaci di trarli dalla propria parte da soli, mandano una delegazione a Dumnorige, l’eduo, perchè con la sua intercessione ottenga l’assenso dei Sequani. Dumnorige aveva una grande influenza su questi ultimi per il suo prestigio e le sue largizioni, oltre ad essere amico degli Elvezi per aver sposato una loro connazionale, figlia di Orgetorige; la brama di potere lo spingeva poi a cercare un rivolgimento e desiderava di aver legate a sè con favori il maggior numero possibile di nazioni. Perciò accetta l’incombenza e ottiene dai Sequani che lascino passare per il proprio territorio gli Elvezi; perfeziona anche uno scambio di ostaggi fra i due popoli, perchè i Sequani non ostacolino la marcia degli Elvezi, e gli Elvezi trascorrano senza recare danno e oltraggi.

De Bello Gallico, I, 8

Interea ea legione quam secum habebat militibusque, qui ex provincia convenerant, a lacu Lemanno, qui in flumen Rhodanum influit, ad montem Iuram, qui fines Sequanorum ab Helvetiis dividit, milia passuum XVIIII murum in altitudinem pedum sedecim fossamque perducit. Eo opere perfecto praesidia disponit, castella communit, quo facilius, si se invito transire conentur, prohibere possit. Ubi ea dies quam constituerat cum legatis venit et legati ad eum reverterunt, negat se more et exemplo populi Romani posse iter ulli per provinciam dare et, si vim facere conentur, prohibiturum ostendit. Helvetii ea spe deiecti navibus iunctis ratibusque compluribus factis, alii vadis Rhodani, qua minima altitudo fluminis erat, non numquam interdiu, saepius noctu si perrumpere possent conati, operis munitione et militum concursu et telis repulsi, hoc conatu destiterunt.

Intanto, impiegando la legione che aveva con sè e i soldati affluiti dalla provincia, conduce al lago Lemano, che ha uno sbocco sul fiume Rodano, fino al Giura, che divide il territorio dei Sequani e degli Elvezi, una massicciata alta sedici piedi e un fossato di diciannove miglia. Compiuta l’opera, dispone guarnigioni, allestisce fortini per poter opporsi più facilmente se tentavano di forzare il passaggio a suo dispetto. Al sopraggiungere del giorno fissato con gli ambasciatori e a loro ritorno li avverte che la consuetudine e il comportamento del popolo romano gli impedivano di concedere a chicchessia il transito per la provincia, e dichiara che se tentassero di forzarlo si sarebbe opposto. Gli Elvezi, caduta questa speranza, su barche legate assieme e su un buon numero di zattere da loro allestite, oppure guadando il Rodano nei punti meno profondi, talora di giorno, più spesso di notte, tentarono di aprirsi un varco, ma, respinti dalle fortificazioni e dai proiettili dei soldati prontamente accorsi, desistettero dal tentativo.

De Bello Gallico, I, 7

Caesari cum id nuntiatum esset, eos per provinciam nostram iter facere conari, maturat ab urbe proficisci et quam maximis potest itineribus in Galliam ulteriorem contendit et ad Genavam pervenit. Provinciae toti quam maximum potest militum numerum imperat (erat omnino in Gallia ulteriore legio una), pontem, qui erat ad Genavam, iubet rescindi. Ubi de eius adventu Helvetii certiores facti sunt, legatos ad eum mittunt nobilissimos civitatis, cuius legationis Nammeius et Verucloetius principem locum obtinebant, qui dicerent sibi esse in animo sine ullo maleficio iter per provinciam facere, propterea quod aliud iter haberent nullum: rogare ut eius voluntate id sibi facere liceat. Caesar, quod memoria tenebat L. Cassium consulem occisum exercitumque eius ab Helvetiis pulsum et sub iugum missum, concedendum non putabat; neque homines inimico animo, data facultate per provinciam itineris faciundi, temperaturos ab iniuria et maleficio existimabat. Tamen, ut spatium intercedere posset dum milites quos imperaverat convenirent, legatis respondit diem se ad deliberandum sumpturum: si quid vellent, ad Id. April. reverterentur.

Essendo stato annunciato questo a Cesare, cioè che gli Elvezi tentavano di passare per la nostra provincia, egli si affrettò a partire dalla città e si diresse verso la Gallia Ulteriore, a marce il più possibile forzate e giunse a Ginevra. Ordinò a tutte le province di fornire il numero più grande possibile di soldati – c’era solamente una legione in Gallia Ulteriore; ordinò di tagliare il ponte che era vicino a Ginevra. Quando gli Elvezi vennero informati del suo arrivo, inviarono presso di lui i legati più illustri della città, della cui ambasceria Nammeio e Veruclezio ottenevano il posto di capo, per dire che loro avevano intenzione di passare per la provincia senza alcun cattivo proposito, per il fatto che non avevano nessun’altra via. Lo pregavano di permettere loro di fare ciò con il suo assenso. Cesare, poiché ricordava che il console Lucio Cassio era stato ucciso, e il suo esercito era stato sconfitto dagli Elvezi e soggiogato, non ritenne di dover cedere; e pensava che, se si fosse concesso a uomini di animo ostile la facoltà di passare per la provincia, non si sarebbero astenuti dal recar danno e offesa. Tuttavia, per aspettare finché non arrivassero i soldati che aveva richiesto, rispose che avrebbe preso un giorno per decidere: se volessero una risposta, che tornassero il 13 aprile.

De Bello Gallico, I, 6

Erant omnino itinera duo, quibus itineribus domo exire possent: unum per Sequanos, angustum et difficile, inter montem Iuram et flumen Rhodanum, vix qua singuli carri ducerentur, mons autem altissimus impendebat, ut facile perpauci prohibere possent; alterum per provinciam nostram, multo facilius atque expeditius, propterea quod inter fines Helvetiorum et Allobrogum, qui nuper pacati erant, Rhodanus fluit isque non nullis locis vado transitur. Extremum oppidum Allobrogum est proximumque Helvetiorum finibus Genava. Ex eo oppido pons ad Helvetios pertinet. Allobrogibus sese vel persuasuros, quod nondum bono animo in populum Romanum viderentur, existimabant vel vi coacturos ut per suos fines eos ire paterentur. Omnibus rebus ad profectionem comparatis diem dicunt, qua die ad ripam Rhodani omnes conveniant. Is dies erat a. d. V. Kal. Apr. L. Pisone, A. Gabinio consulibus.

Solo due erano le strade che gli Elvezi potevano percorrere per uscire di patria: o attraverso i Sequani, strada angusta e difficile fra i monti del Giura e il fiume Rodano, dove i carri potevano a mala pena procedere in fila per uno, e dominata da cime altissime, cosicchè bastavano ben pochi uomini a impedire il passaggio; oppure attraverso la nostra provincia, assai più agevole e spiccia perchè fra il territorio degli Elvezi e degli Allobrogi, questi ultimi ridotti alla pace da poco, scorre il Rodano, guadabile in più punti. Ultima città degli Allobrogi, e vicinissima agli Elvezi, è Ginevra. Di lì un ponte raggiunge gli Elvezi, e questi ritenevano di poter convincere gli Allobrogi, poichè non sembravano ancora così inclini verso i Romani, o di poterli forzare a concedere loro il passaggio per il proprio territorio. Quando tutto è pronto per la partenza, fissano il giorno per l’adunata generale sulle sponde del Rodano. Era il 28 marzo del consolato di Lucio Pisone e Aulo Gabino.

De Bello Gallico, I, 5

Post eius mortem nihilo minus Helvetii id quod constituerant facere conantur, ut e finibus suis exeant. Ubi iam se ad eam rem paratos esse arbitrati sunt, oppida sua omnia, numero ad duodecim, vicos ad quadringentos, reliqua privata aedificia incendunt; frumentum omne, praeter quod secum portaturi erant, comburunt, ut domum reditionis spe sublata paratiores ad omnia pericula subeunda essent; trium mensum molita cibaria sibi quemque domo efferre iubent. Persuadent Rauracis et Tulingis et Latobrigis finitimis, uti eodem usi consilio oppidis suis vicisque exustis una cum iis proficiscantur, Boiosque, qui trans Rhenum incoluerant et in agrum Noricum transierant Noreiamque oppugnabant, receptos ad se socios sibi adsciscunt.

Dopo e nonostante la sua morte gli Elvezi persistono nella decisione di emigrare. Quando si ritengono pronti all’impresa, appiccano il fuoco a tutte le loro città, che erano una dozzina, ai villaggi, una quarantina, e ai casolari isolati; ardono tutto il grano che non avrebbero portato con sè, perchè senza più il miraggio di tornare in patria fossero meglio disposti ad affrontare qualsiasi pericolo, e ordinano che ciascuno porti via da casa per sè farina sufficiente a tre mesi. Convincono i loro confinanti Rauraci, Tulingi e Latobrigi a prendere la medesima decisione e a partire con loro dopo aver bruciato città e villaggi; anche i Boi, passati dai propri insediamenti oltre Reno al territorio del Norico e intenti a espugnare Noreia, vengon associati all’impresa.

De Bello Gallico, I, 4

Ea res est Helvetiis per indicium enuntiata. Moribus suis Orgetoricem ex vinculis causam dicere coegerunt; damnatum poenam sequi oportebat, ut igni cremaretur. Die constituta causae dictionis Orgetorix ad iudicium omnem suam familiam, ad hominum milia decem, undique coegit, et omnes clientes obaeratosque suos, quorum magnum numerum habebat, eodem conduxit; per eos ne causam diceret se eripuit. Cum civitas ob eam rem incitata armis ius suum exequi conaretur multitudinemque hominum ex agris magistratus cogerent, Orgetorix mortuus est; neque abest suspicio, ut Helvetii arbitrantur, quin ipse sibi mortem consciverit.

La trama viene svelata agli Elvezi da una delazione. Secondo la loro usanza, Orgetorige fu costretto a difendersi in catene; in caso di condanna lo apettava per punizione il rogo. Nel giorno fissato per il dibattimento Orgetorige fece affluire sul posto tutta la sua servitù – circa diecimila uomini – e tutti i suoi dipendenti e debitori, un bel numero di persone; col loro appoggio si sottrasse alla necessità di difendersi. Mentre la gente, irritata, cercava d’imporre il proprio diritto con le armi e i magistrati andavano radunando uomini dalla campagna, Orgrtorige morì; e c’è il spspetto , secondo gli Elvezi, che si sia suicidato.

De Bello Gallico, I, 3

His rebus adducti et auctoritate Orgetorigis permoti constituerunt ea quae ad proficiscendum pertinerent comparare, iumentorum et carrorum quam maximum numerum coemere, sementes quam maximas facere, ut in itinere copia frumenti suppeteret, cum proximis civitatibus pacem et amicitiam confirmare. Ad eas res conficiendas biennium sibi satis esse duxerunt; in tertium annum profectionem lege confirmant. Ad eas res conficiendas Orgetorix deligitur. Is sibi legationem ad civitates suscipit. In eo itinere persuadet Castico, Catamantaloedis filio, Sequano, cuius pater regnum in Sequanis multos annos obtinuerat et a senatu populi Romani amicus appellatus erat, ut regnum in civitate sua occuparet, quod pater ante habuerit; itemque Dumnorigi Haeduo, fratri Diviciaci, qui eo tempore principatum in civitate obtinebat ac maxime plebi acceptus erat, ut idem conaretur persuadet eique filiam suam in matrimonium dat. Perfacile factu esse illis probat conata perficere, propterea quod ipse suae civitatis imperium obtenturus esset: non esse dubium quin totius Galliae plurimum Helvetii possent; se suis copiis suoque exercitu illis regna conciliaturum confirmat. Hac oratione adducti inter se fidem et ius iurandum dant et regno occupato per tres potentissimos ac firmissimos populos totius Galliae sese potiri posse sperant.

Spinti da questi motivi e scossi dall’autorità di Orgertorige, stabilirono di predisporre l’occorrente alla partenza, adunare il maggior numero di bestie da soma e di carriaggi che si potesse acquistare, eseguire il massimo delle semine per non mancare di grano durante il viaggio, stabilire una pace amichevole con le nazioni limitrofe. Per compiere questi preparativi giudicarono sufficiente un bienno, e al terzo anno fissano la legge per la partenza. A realizzarli viene scelto Orgetorige. Questi nel corso delle ambascerie che compì presso varie nazioni convince Castico figlio di Catamantalede – un Sequano il cui padre aveva dominato per molti anni sul suo popolo ed era stato proclamato dal Senato amico del popolo romano – a prendere il potere fra i suoi connazionali come suo padre prima di lui; altrettanto fa con l’eduo Dumnorige, fratello di Diviciaco allora principe della sua nazione, e molto popolare, inducendolo a compiere un tentativo analogo e concedergli in moglie la propria figlia. Dimostra a entrambi l’estrema facilità dell’impresa, poichè anch’egli avrebbe ottenuto il dominio della propria nazione: ed essendo fuor di dubbio che gli Elvezi fossero il popolo più potente di tutta la Gallia, garantisce che con le sue risorse e il suo esercito egli avrebbe procurato loro il trono. Questo discorso li induce a giurare lealtà reciproca, e confidano che una volta raggiunto il potere, con quei tre popoli così forti e saldi potranno divenire padroni della Gallia intera.

De Bello Gallico, I, 2

Apud Helvetios longe nobilissimus fuit et ditissimus Orgetorix. Is M. Messala, [et P.] M. Pisone consulibus regni cupiditate inductus coniurationem nobilitatis fecit et civitati persuasit ut de finibus suis cum omnibus copiis exirent: perfacile esse, cum virtute omnibus praestarent, totius Galliae imperio potiri. Id hoc facilius iis persuasit, quod undique loci natura Helvetii continentur: una ex parte flumine Rheno latissimo atque altissimo, qui agrum Helvetium a Germanis dividit; altera ex parte monte Iura altissimo, qui est inter Sequanos et Helvetios; tertia lacu Lemanno et flumine Rhodano, qui provinciam nostram ab Helvetiis dividit. His rebus fiebat ut et minus late vagarentur et minus facile finitimis bellum inferre possent; qua ex parte homines bellandi cupidi magno dolore adficiebantur. Pro multitudine autem hominum et pro gloria belli atque fortitudinis angustos se fines habere arbitrabantur, qui in longitudinem milia passuum CCXL, in latitudinem CLXXX patebant.

Tra gli Elvezi primeggiò, e di molto, per nobiltà e ricchezze Orgetorige. Nell’anno del consolato di Marco Messala e Marco Pisone egli fu spinto dalla brama di potere a ordire una congiura di nobili e persuase i suoi compratrioti a uscire dal proprio territorio con tutti gli averi: per loro, primi fra tutti in valore, impadronirsi dell’intera Gallia e dominarla sarebbe stato facilissimo. Gli riuscì tanto più facilmente convincerli perchè gli Elvezi sono premuti da ogni parte dalla natura. Da un lato il fiume Reno divide col suo corso molto ampio e profondo il loro paese dai Germani, da un altro le altissime cime del Giura si frappongono tra Sequani ed Elvezi, da un terzo il lago Lemano e il fiume Rodano delimitano dalla loro parte la nostra provincia. Perciò riuscivano solo a compiere brevi sconfinamenti ed era per loro difficile muovere una vera guerra ai vicini, con grave sofferenza di una stirpe avida di combattere. In rapporto poi al numero della popolazione e alle gloriose tradizioni militari ritenevano di avere confini troppo angusti: una superficie di duecentoquaranta miglia in lunghezza e centottanta in larghezza.

De Bello Gallico, I, 1

Gallia est omnis divisa in partes tres, quarum unam incolunt Belgae, aliam Aquitani, tertiam qui ipsorum lingua Celtae, nostra Galli appellantur. Hi omnes lingua, institutis, legibus inter se differunt. Gallos ab Aquitanis Garumna flumen, a Belgis Matrona et Sequana dividit. Horum omnium fortissimi sunt Belgae, propterea quod a cultu atque humanitate provinciae longissime absunt, minimeque ad eos mercatores saepe commeant atque ea quae ad effeminandos animos pertinent important, proximique sunt Germanis, qui trans Rhenum incolunt, quibuscum continenter bellum gerunt. Qua de causa Helvetii quoque reliquos Gallos virtute praecedunt, quod fere cotidianis proeliis cum Germanis contendunt, cum aut suis finibus eos prohibent aut ipsi in eorum finibus bellum gerunt. Eorum una, pars, quam Gallos obtinere dictum est, initium capit a flumine Rhodano, continetur Garumna flumine, Oceano, finibus Belgarum, attingit etiam ab Sequanis et Helvetiis flumen Rhenum, vergit ad septentriones. Belgae ab extremis Galliae finibus oriuntur, pertinent ad inferiorem partem fluminis Rheni, spectant in septentrionem et orientem solem. Aquitania a Garumna flumine ad Pyrenaeos montes et eam partem Oceani quae est ad Hispaniam pertinet; spectat inter occasum solis et septentriones.

La Gallia nel suo complesso è divisa in tre parti: una è abitata dai Belgi, una dagli Aquitani, la terza da quelli che nella loro lingua si chiamano Celti, nella nostra Galli. Tutte queste popolazioni differiscono tra loro nella lingua, nelle istituzioni e nelle leggi. Divide i Galli dagli Aquitani il fiume Garonnna, dai Belgi la Marna e la Senna. Di tutti questi i più valorosi sono i Belgi, perché sono i più lontani dalla raffinatezza e dalla civiltà della provincia, e molto raramente i mercanti si recano da loro a portarvi quei prodotti che servono ad effeminari gli animi, e sono i più vicini ai Germani che abitano oltre Reno, con i quali sono ininterrottamente in guerra. Questa è la ragione per cui anche gli Elvezi superano nel valore gli altri Galli, perché quasi ogni giorno combattono contro i Germani, o tenendoli fuori dal proprio paese o portando essi la guerra nel loro paese. Quella parte che, come ho detto, è abitata dai Galli, inizia dal fiume Rodano; è delimitata dal fiume Garonna, dall’Oceano, dal paese dei Belgi; dalla parte dei Sequani e degli Elvezi tocca anche il fiume Reno; si stende verso settentrione. Il paese dei Belgi comincia dalla parte estrema della Gallia; tocca il corso inferiore del fiume Reno, si stende verso settentrione e oriente. L’Aquitania dal fiume Garonna si stende fino a toccare i monti Pirenei e quella parte dell’Oceano che volge verso la Spagna; si stende tra occidente e settentrione.