Ad Familiares, IV, 9

Etsi perpaucis ante diebus dederam Q. Mucio litteras ad te pluribus verbis scriptas, quibus declaraveram, quo te animo censerem esse oportere et quid tibi faciendum arbitrarer, tamen, cum Theophilus, libertus tuus, proficisceretur, cuius ego fidem erga te benevolentiamque perspexeramn, sine meis litteris eum ad te venire nolui. Iisdem igitur te rebus etiam atque etiam hortor, quibus superioribus litteris hortatus sum, ut in ea re publica, quaecumque est, quam primum velis esse: multa videbis fortasse, quae nolis, non plura tamen, quam audis quotidie; non est porro tuum uno sensu solum oculorum moveri, cum idem illud auribus percipias -quod etiam maius videri solet-, minus laborare. At tibi ipsi dicendum erit aliquid, quod non sentias, aut faciendum, quod non probes. Primum tempori cedere, id est necessitati parere, semper sapientis est habitum; deinde non habet, ut nunc quidem est, id vitii res: dicere fortasse, quae sentias, non licet, tacere plane licet; omnia enim delata ad unum sunt: is utitur consilio ne suorum quidem, sed suo; quod non multo secus fieret, si is rem publicam teneret, quem secuti sumus: an, qui in bello, cum omnium nostrum coniunctum esset periculum, suo et certorum hominum minime prudentium consilio uteretur, eum magis communem censemus in victoria futurum fuisse, quam incertis in rebus fuisset? et, qui nec te consule tuum sapientissimum consilium secutus esset nec fratre tuo consulatum ex auctoritate tua gerente vobis auctoribus uti voluerit, nunc omnia tenentem nostras sententias desideraturum censes fuisse? Omnia sunt misera in bellis civilibus -quae maiores nostri ne semel quidem, nostra aetas saepe iam sensit-; sed miserius nihil quam ipsa victoria, quae, etiamsi ad meliores venit, tamen eos ipsos ferociores impotentioresque reddit, ut, etiamsi natura tales non sint, necessitate esse cogantur; multa enim victori eorum arbitrio, per quos vicit, etiam invito facienda sunt. An tu non videbas mecum simul, quam illa crudelis esset futura victoria? igitur tum quoque careres patria, ne, quae nolles, videres? “Non,” inquies, “ego enim ipse tenerem opes et dignitatem meam.” At erat tuae virtutis in minimis tuas res ponere, de re publica vehementius laborare. Deinde qui finis istius consilii est? nam adhuc et factum tuum probatur et, ut in tali re, etiam fortuna laudatur: factum, quod et initium belli necessario secutus sis et extrema sapienter persequi nolueris; fortuna, quod honesto otio tenueris et statum et famam dignitatis tuae: nunc vero nec locus tibi ullus dulcior esse debet patria nec eam diligere minus debes, quod deformior est, sed misereri potius nec eam multis claris viris orbatam privare etiam aspectu tuo. Denique, si fuit magni animi non esse supplicem victori, vide, ne superbi sit aspernari eiusdem liberalitatem, et, si sapientis est carere patria, duri non desiderare, et, si re publica non possis frui, stultum est nolle privata. Caput illud est, ut, si ista vita tibi commodior esse videatur, cogitandum tamen sit, ne tutior non sit: magna gladiorum est licentia, sed in externis locis minor etiam ad facinus verecundia. Mihi salus tua tantae curae est, ut Marcello, fratri tuo, aut par aut certe proximus sim; tuum est consulere temporibus et incolumitati et vitae et fortunis tuis.

Solo pochissimi giorni fa ho consegnato a Quinto Mucio una lettera piuttosto lunga per te, in cui chiarivo quale doveva essere, a mio avviso, la tua condizione di spirito e che cosa secondo me dovevi fare. Tuttavia, poiché il tuo liberato Teofilo, la cui lealtà e devozione nei tuoi confronti ho avuto modo di sperimentare, sta per mettersi in viaggio, non voglio che ti raggiunga senza una mia lettera.
Dunque, per le stesse ragioni che ti esponevo nella lettera precedente io insisto ancora una volta perché tu scelga il prima possibile di vivere nel nostro stato, qualunque ne sia la forma. Vedrai forse molte cose che desidereresti non vedere, ma non più di quelle che senti dire ogni giorno. D’altra parte non è degno di te lasciarsi condizionare solo dal senso della vista e soffrire di meno quando percepisci esattamente la medesima cosa con l’udito, sebbene quanto viene così percepito appaia di solito ancora più grave.
Tu però temi di essere personalmente obbligato a dire qualcosa che non pensi o a fare qualcosa che non ti va. Ma in primo luogo, piegarsi alle circostanze, ovvero obbedire allo stato di necessità si è sempre ritenuta una scelta da uomo saggio. E poi, almeno per ora, la situazione non presenta questo inconveniente. Forse non sarà permesso dire quel che si pensa, ma è del tutto permesso tacere. Tutto è stato delegato a una sola persona. E questa non segue il consiglio di nessuno, neppure degli amici, tranne il proprio. Non che la situazione sarebbe molto diversa, se lo stato fosse nelle mani di colui che abbiamo seguito. Durante la guerra, quando tutti noi correvamo uno stesso pericolo, egli prendeva consiglio solo da se stesso e da certe persone assolutamente prive di buon senso; e possiamo forse credere che in caso di vittoria sarebbe stato più aperto ai consigli altrui di quanto non lo era stato nell’incertezza del conflitto? Lui, quando tu eri console, non seguì il tuo consiglio pieno di saggezza, e, quando tuo cugino reggeva il consolato sotto la tua guida, non volle avvalersi delle vostre autorevoli indicazioni; e credi che, se ora avesse il potere, sentirebbe il bisogno di chiedere il nostro parere?
Tutto è penoso nelle guerre civili, che i nostri antenati non hanno conosciuto neppure una volta, mentre la nostra generazione ormai troppo spesso; ma niente è più penoso della vittoria in sé che, se anche tocca ai migliori, rende anch’essi più feroci e senza controllo; tanto che, se pure non lo sono per natura, sono costretti a diventarlo per necessità. Spesso infatti il vincitore deve agire anche contro la propria inclinazione per soddisfare quanti gli hanno permesso di vincere. Forse che tu non vedevi con me quanto sarebbe stata crudele quella vittoria? Anche allora dunque ti saresti tenuto lontano dalla patria, per non vedere quel che non avresti voluto vedere? “No!”, tu dirai, “perché avrei conservato i miei beni e la mia condizione.” Ma la tua virtù ti imponeva di tenere nel minimo conto i tuoi interessi privati, e di preoccuparti invece molto di più dell’interesse generale.
“poi, che senso ha questa tua decisione? Perché fino ad ora la tua condotta viene approvata e, nella situazione attuale, anche la tua sorte è tenuta per buona: la tua condotta, perché hai compiuto i primi passi nella guerra per necessità e poi per saggezza non l’hai seguita fino alle sue estreme conseguenze; la tua sorte, perché nel tuo onorevole ritiro hai conservato intatti la tua alta condizione e il tuo prestigio. Ora, però, nessun luogo deve esserti più caro della tua patria né devi amarla meno perché si è imbruttita; ma piuttosto devi averne pietà e, se ha già perso molti dei suoi illustri figli, non devi privarla anche della tua vista.
Infine, se è stata una forma di magnanimità non supplicare il vincitore, bada che non sia un gesto di superbia rifiutarne la generosità, e se è da saggio stare lontano dalla patria, è segno di insensibilità non sentirne la mancanza, e , nel caso non si possa godere dei vantaggi della vita pubblica, è da sciocchi rifiutare quelli della vita privata.
Il punto essenziale è questo: se la tua vita attuale ti sembra la più confacente, devi considerare però se è anche la più sicura. Le spade hanno ovunque campo libero, ma in regioni lontane c’è minor ritegno anche di fronte al delitto.
Sono così preoccupato per la tua incolumità da non essere secondo a nessuno se non a tuo cugino Marcello, o forse addirittura alla pari con lui. A te spetta provvedere, tenendo conto delle circostanze, al tuo stato di cittadino, alla tua vita e al tuo patrimonio.