50 – Hesterno, Licini, die otiosi multum lusimus in meis tabellis, ut convenerat esse delicatos: scribens versiculos uterque nostrum ludebat numero modo hoc modo illoc, reddens mutua per iocum atque vinum. atque illinc abii tuo lepore incensus, Licini, facetiisque, ut nec me miserum cibus iuvaret nec somnus tegeret quiete ocellos, sed toto indomitus furore lecto versarer, cupiens videre lucem, ut tecum loquerer, simulque ut essem. at defessa labore membra postquam semimortua lectulo iacebant, hoc, iucunde, tibi poema feci, ex quo perspiceres meum dolorem. nunc audax cave sis, precesque nostras, oramus, cave despuas, ocelle, ne poenas Nemesis reposcat a te. est vehemens dea: laedere hanc caveto.
51 – Ille mi par esse deo videtur, ille, si fas est, superare divos, qui sedens adversus identidem te spectat et audit dulce ridentem, misero quod omnis eripit sensus mihi: nam simul te, Lesbia, aspexi, nihil est super mi
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lingua sed torpet, tenuis sub artus flamma demanat, sonitu suopte tintinant aures, gemina et teguntur lumina nocte. otium, Catulle, tibi molestum est: otio exsultas nimiumque gestis: otium et reges prius et beatas perdidit urbes.
52 – Quid est, Catulle? quid moraris emori? sella in curuli struma Nonius sedet, per consulatum peierat Vatinius: quid est, Catulle? quid moraris emori?
53 – Risi nescio quem modo e corona, qui, cum mirifice Vatiniana meus crimina Calvos explicasset admirans ait haec manusque tollens, “di magni, salaputium disertum!”
50 – Ieri, Licinio, liberi molto giocammo sulle mie tavolette, come si addiceva che fosse per dei raffinati: scrivendo versicoli ognuno di noi giocava col metro ora questo ora quello, rispondendoci a vicenda tra scherzo e vino. E mene andai da lì accesso, Licinio, dal tuo garbo e spirito, che , povero me, né il cibo mi giovava né il sonno copriva di quiete le pupille, ma indomito mi volgevo per tutto il letto con smania, bramando di veder la luce, per parlare con te, e per starti insieme. Ma dopo che la membra stanche di fatica giacevan semimorte sul lettuccio, ti feci, carissimo, questa poesia, da cui intravedessi il mio dolore. Ora guardati dall’esser audace, prego, guarda di non disprezzare, (mia) pupilla, le nostre preghiere, perché Vendetta non ti chieda di pagare il fio. E’ una de furiosa: guardati dal colpirla.
51 – Egli simile mi sembra essere ad un dio, egli, se e lecito, (sembra) superare gli dei, lui che sedendo di fronte continuamente i ammira ed ascolta sorridere dolcemente, cosa che toglie a me poveretto tutti i sensi: appena ti, scorsi, Lesbia, nulla mi resta
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ma la lingua si blocca, sotto le membra una sottile fiamma emana, del loro stesso suono tintinnano le orecchie, anche le gemelle luc si coprono di notte. Il riposo, Catullo, ti è nocivo: Esulti di riposo e smani troppo: il riposo in passato ha distrutto re e città felici.
52 – Che c’è, Catullo? Perché tardi a crepare? Nonio, il bubbone, siede sulla sedia curule, per il consolato spergiura Vatinio: Che c’è, Catullo? Perché tardi a crepare?
53 – Risi almeno non so di un tale tra il pubblico, che, mentre il mio Calvo aveva magnificamente esposto i delitti vatiniani, meravigliandosi ed alzando le mani s’espresse così: “Dei grandi, che coglione eloquente!”