Ad Familiares, XIV, 3 (“Dolenti parole di Cicerone”)

Accepi ab Aristocrito tres epistulas, quas ego lacrimis prope delevi; conficior enim maerore, mea Terentia, nec meae me miseriae magis excruciant quam tuae vestraeque, ego autem hoc miserior sum quam tu, quae es miserrima, quod ipsa calamitas communis est utriusque nostrum, sed culpa mea propria est. Meum fuit officium vel legatione vitare periculum vel diligentia et copiis resistere vel cadere fortiter: hoc miserius, turpius, indignius nobis nihil fuit. Quare cum dolore conficior, tum etiam pudore: pudet enim me uxori meae optimae, suavissimis liberis virtutem et diligentiam non praestitisse; nam mihi ante oculos dies noctesque versatur squalor vester et maeror et infirmitas valetudinis tuae, spes autem salutis pertenuis ostenditur. Inimici sunt multi, invidi paene omnes: eiicere nos magnum fuit, excludere facile est; sed tamen, quamdiu vos eritis in spe, non deficiam, ne omnia mea culpa cecidisse videantur. Ut tuto sim, quod laboras, id mihi nunc facillimum est, quem etiam inimici volunt vivere in his tantis miseriis; ego tamen faciam, quae praecipis. Amicis, quibus voluisti, egi gratias et eas litteras Dexippo dedi meque de eorum officio scripsi a te certiorem esse factum. Pisonem nostrum mirifico esse studio in nos et officio et ego perspicio et omnes praedicant: di faxint, ut tali genero mihi praesenti tecum simul et cum liberis nostris frui liceat! Nunc spes reliqua est in novis tribunis pl. et in primis quidem diebus; nam, si inveterarit, actum est. Ea re ad te statim Aristocritum misi, ut ad me continuo initia rerum et rationem totius negotii posses scribere, etsi Dexippo quoque ita imperavi, statim ut recurreret, et ad fratrem misi, ut crebro tabellarios mitteret; nam ego eo nomine sum Dyrrhachii hoc tempore, ut quam celerrime, quid agatur, audiam, et sum tuto; civitas enim haec semper a me defensa est. Cum inimici nostri venire dicentur, tum in Epirum ibo. Quod scribis te, si velim, ad me venturam, ego vero, cum sciam magnam partem istius oneris abs te sustineri, te istic esse volo. Si perficitis, quod agitis, me ad vos venire oportet; sin autem””sed nihil opus est reliqua scribere. Ex primis aut summum secundis litteris tuis constituere poterimus, quid nobis faciendum sit: tu modo ad me velim omnia diligentissime perscribas, etsi magis iam rem quam litteras debeo exspectare. Cura, ut valeas et ita tibi persuadeas, mihi te carius nihil esse nec umquam fuisse. Vale, mea Terentia; quam ego videre videor: itaque debilitor lacrimis. Vale.

Da Aristocrito ho avuto tre lettere e le ho quasi cancellate con le mie lacrime: Terenzia mia, una cupa disperazione mi distrugge e le mie sciagure non danno tanto tormento quanto le tue e le vostre. Ma io mi sento più disgraziato di te, che pure sei al colmo d’ogni male, perché se la sventura di per sé è comune a tutti e due, la colpa è tutta e solo mia. Sarebbe stato compito mio o evitare il pericolo accettando la missione offertami, o resistere predisponendo con ogni cura le difese necessarie, o cadere da forte. Niente è stato più sciagurato, vergognoso, indegno del mio comportamento. Ecco perciò che oltre al dolore mi consuma la cattiva coscienza: mi vergogno di non avere provveduto con energia e sollecitudine ai diritti della migliore delle mogli e a quelli di due figli amorosissimi. Ho davanti agli occhi giorno e notte lo spettacolo della vostra desolazione e della vostra angoscia e la precarietà della tua salute, mentre la speranza di risollevarci si rivela tanto esigua. Molti ci sono ostili, quasi tutti pieni di rancore: cacciarmi via è stata una grossa impresa; tenermi lontano è facile! Ma pure, finché voi avrete un filo di speranza, terrò duro, perché non sembri che tutto sia affondato per colpa mia. Per la mia sopravvivenza, della quale continui a preoccuparti, a questo punto non trovo alcuna difficoltà: i nemici stessi desiderano vedermi vivere in questo panorama di miserie senza fine! Ma seguirò lo stesso i tuoi suggerimenti. Ho ringraziato gli amici che volevi tu e ho affidato le lettere a Dexippo e ho scritto che tu mi avevi informato delle loro premure. Vedo da me stesso e tutti mi raccontano quante care prove di affetto per me stia dando il nostro Pisone. Mi conceda il cielo di godere un giorno di persona insieme con te e con i nostri figlioli delle premure di un simile genero! Ora la speranza residua è nei nuovi tribuni della plebe e nei primissimi giorni della loro attività: se si tirasse per le lunghe, sarebbe la fine. Così ti ho subito rinviato Aristocrito, per darti la possibilità di riferirmi immediatamente sulle prime iniziative e sul taglio che si vuole dare all’intera faccenda; per quanto abbia dato disposizioni anche a Dexippo di rimettersi in moto senza indugio e abbia scritto a mio fratello di intensificare i corrieri. È anche inìatti a questo titolo che in questo momento mi trovo a Durazzo, per essere a giorno il più rapidamente possibile delle ultime novità, e qui sono al sicuro: ho sempre tutelato gli interessi di questa comunità. Quando dovessero giungermi voci di un prossimo arrivo dei nemici nostri, allora passerò in Epiro. Quanto alla tua proposta di venire da me, se voglio, io per me – sapendo che gran parte di quest’onere ricade su di te – preferirei che rimanessi dove sei. Se portate a termine la vostra azione, sono io che dovrò venire da voi; in caso contrario… Ma non c’è bisogno di proseguire oltre. Dalla prima, o al più dalla seconda lettera tua, si potrà decidere il da farsi. Per ora, gradirei che mi ragguagliassi su tutto, senza tralasciare alcun particolare: anche se, in verità, sono fatti più che lettere che oramai devo aspettarmi. Cerca di star bene e credi che niente mi è né mai mi è stato più caro di te. Addio, mia cara Terenzia: mi pare come se ti vedessi ed ecco che mi sento venir meno dalla commozione. Addio.