Non te furialibus armis
persequor: en, adsum victor terraque marique
Caesar, ubique tuus (liceat modo, nunc quoque) miles.
ille erit ille nocens, qui me tibi fecerit hostem.’
inde moras solvit belli tumidumque per amnem
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signa tulit propere: sicut squalentibus arvis
aestiferae Libyes viso leo comminus hoste
subsedit dubius, totam dum colligit iram;
mox, ubi se saevae stimulavit verbere caudae
erexitque iubam et vasto grave murmur hiatu
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infremuit, tum torta levis si lancea Mauri
haereat aut latum subeant venabula pectus,
per ferrum tanti securus volneris exit.
fonte cadit modico parvisque inpellitur undis
puniceus Rubicon, cum fervida canduit aestas,
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perque imas serpit valles et Gallica certus
limes ab Ausoniis disterminat arva colonis.
tum vires praebebat hiemps atque auxerat undas
tertia iam gravido pluvialis Cynthia cornu
et madidis Euri resolutae flatibus Alpes.
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primus in obliquum sonipes opponitur amnem
excepturus aquas; molli tum cetera rumpit
turba vado faciles iam fracti fluminis undas.
Caesar, ut adversam superato gurgite ripam
attigit, Hesperiae vetitis et constitit arvis,
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‘hic’ ait ‘hic pacem temerataque iura relinquo;
te, Fortuna, sequor. procul hinc iam foedera sunto;
credidimus satis
sic fatus noctis tenebris rapit agmina ductor
inpiger, et torto Balearis verbere fundae
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ocior et missa Parthi post terga sagitta,
vicinumque minax invadit Ariminum, et ignes
solis Lucifero fugiebant astra relicto.
iamque dies primos belli visura tumultus
exoritur; sed sponte deum, seu turbidus Auster
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inpulerat, maestam tenuerunt nubila lucem.
constitit ut capto iussus deponere miles
signa foro, stridor lituum clangorque tubarum
non pia concinuit cum rauco classica cornu.
rupta quies populi, stratisque excita iuventus
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deripuit sacris adfixa penatibus arma
quae pax longa dabat: nuda iam crate fluentis
invadunt clipeos curvataque cuspide pila
et scabros nigrae morsu robiginis enses.
ut notae fulsere aquilae Romanaque signa
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et celsus medio conspectus in agmine Caesar,
deriguere metu, gelidos pavor occupat artus,
et tacito mutos volvunt in pectore questus.
‘o male vicinis haec moenia condita Gallis,
o tristi damnata loco! pax alta per omnes
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et tranquilla quies populos: nos praeda furentum
primaque castra sumus. melius, Fortuna, dedisses
orbe sub Eoo sedem gelidaque sub Arcto
errantisque domos, Latii quam claustra tueri.
nos primi Senonum motus Cimbrumque ruentem
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vidimus et Martem Libyes cursumque furoris
Teutonici: quotiens Romam fortuna lacessit,
hac iter est bellis.’ gemitu sic quisque latenti,
non ausus timuisse palam: vox nulla dolori
credita, sed quantum, volucres cum bruma coercet,
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rura silent, mediusque tacet sine murmure pontus,
tanta quies.
noctis gelidas lux solverat umbras:
ecce, faces belli dubiaeque in proelia menti
urguentes addunt stimulos cunctasque pudoris
rumpunt fata moras: iustos Fortuna laborat
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esse ducis motus et causas invenit armis.
expulit ancipiti discordes urbe tribunos
victo iure minax iactatis curia Gracchis.
hos iam mota ducis vicinaque signa petentes
audax venali comitatur Curio lingua,
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vox quondam populi libertatemque tueri
ausus et armatos plebi miscere potentes.
utque ducem varias volventem pectore curas
conspexit ‘dum voce tuae potuere iuvari,
Caesar,’ ait ‘partes, quamvis nolente senatu
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traximus imperium, tum cum mihi rostra tenere
ius erat et dubios in te transferre Quirites.
at postquam leges bello siluere coactae
pellimur e patriis laribus patimurque volentes
exilium: tua nos faciet victoria cives.
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dum trepidant nullo firmatae robore partes,
tolle moras: semper nocuit differre paratis.
[par labor atque metus pretio maiore petuntur.]
bellantem geminis tenuit te Gallia lustris,
pars quota terrarum! facili si proelia pauca
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gesseris eventu, tibi Roma subegerit orbem.
nunc neque te longi remeantem pompa triumphi
excipit aut sacras poscunt Capitolia laurus:
livor edax tibi cuncta negat, gentesque subactas
vix inpune feres. socerum depellere regno
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decretum genero est: partiri non potes orbem,
solus habere potes.’ sic postquam fatus, et ipsi
in bellum prono tantum tamen addidit irae
accenditque ducem, quantum clamore iuvatur
Eleus sonipes, quamvis iam carcere clauso
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inmineat foribus pronusque repagula laxet.
Non mi lancio contro di te con le armi delle Furie: ecco, io Cesare son qui, vincitore in terra e in mare, dovunque, e anche ora (purché me ne sia data la possibilità), tuo soldato. Il vero colpevole sarà colui, che mi ti renderà nemico». Subito dopo ruppe gli indugi della guerra e fece passare rapidamente le insegne attraverso il fiume gonfio: come, nei desolati campi della Libia infuocata, un leone, scorto un nemico da presso, si ferma incerto, mentre raccoglie tutta la sua ira, e poi, spronandosi con forti colpi di coda, drizza la criniera ed emette dalle grandi fauci un profondo ruggito, allora, anche se una lancia vibrata da un agile Mauro si infigge nel suo corpo o se gli spiedi gli si conficcano nel largo petto, balza, incurante di così vaste ferite, tra le armi.Il rosseggiante Rubicone nasce da una piccola fonte e procede con brevi onde, allorquando brucia la fervida estate, e scorre nel fondo delle valli e si pone, come esatto confine, tra i campi gallici e le terre occupate dai coloni italici. Allora esso era reso più forte dall’inverno e ne avevano accresciuto il corso il terzo giorno del novilunio con la sua falce apportatrice di molta pioggia e la neve delle Alpi che si scioglieva agli umidi soffi dell’euro. Per prima la cavalleria si dispose trasversalmente alla corrente del fiume, pronta a sostenere l’urto delle onde: quindi il resto dell’esercito passò, guadando facilmente le acque del fiume, la cui violenza era stata infranta.
Cesare, non appena, superato il fiume, toccò l’altra riva e si fermò nei campi italici, che gli erano stati interdetti, disse: «Qui, in questo momento, abbandono la pace e il diritto calpestato: seguo te, o Fortuna. Ormai i patti non abbiano più valore: ci siamo affidati al destino; che sia la guerra a giudicare». Detto questo, il condottiero trascina instancabile il suo esercito con il favore delle tenebre, procede più veloce del colpo lanciato dalla fionda baleare e della freccia scagliata dal Parto, che si volge improvvisamente, e incombe minaccioso sulla vicina Rimini. Gli astri, abbandonato Lucìfero, fuggivano i raggi del sole e ormai sorgeva il giorno che avrebbe visto i primi sconvolgimenti della guerra: le nubi si opposero a quella triste luce sia che gli dèi avessero così deciso sia che esse fossero state spinte via dall’austro burrascoso. Non appena i soldati, conquistato il foro, ebbero l’ordine di porvi le insegne, lo stridore dei litui e il clangore delle trombe fecero risuonare, insieme ai rauci corni, l’empio segnale di guerra. La gente ne fu sconvolta e i giovani, balzati giù dai letti, dettero di piglio alle armi appese ai sacri Penati, così come le trovavano dopo un lungo periodo di pace: afferrarono gli scudi, la cui protezione esterna cadde a pezzi, e i giavellotti senza più punta e le spade ruvide per l’effetto della nera ruggine. Allorquando rifulsero le ben note aquile e le insegne romane ed essi scorsero, al centro delle schiere, Cesare in posizione eminente, si irrigidirono per la paura e il terrore si impadronì delle membra divenute fredde; essi allora volsero nel cuore silenziosi lamenti: «O queste nostre mura infelicemente innalzate in prossimità dei Galli e condannate da una infausta localizzazione! Tutti i popoli godono di una pace duratura e di una grande tranquillità: noi invece siamo preda e primo luogo di scontro di avversari impazziti. Meglio, o Fortuna, ci avresti fornito una sede nella zona orientale ed erranti dimore nel gelido nord piuttosto che renderci sorveglianti delle porte del Lazio. Noi per primi abbiamo assistito alle invasioni dei Sènoni, all’irrompere dei Cimbri, alla guerra d’Africa e al dispiegarsi della rabbia teutonica: tutte le volte che la Fortuna ha trascinato Roma in guerra, la via per il conflitto è passata per di qua». Così ciascuno con gemiti nascosti, dal momento che non osò palesare il timore: il dolore non si manifestò e la quiete fu la stessa di quando i campi sono silenziosi, allorché gli uccelli sono muti per il freddo, e di quando il mare tace senza un mormorio.
La luce aveva dissolto le gelide ombre della notte ed ecco che i fati incalzano con le fiamme della guerra, stimolano al combattimento gli animi ancora esitanti e spazzano via ogni scrupolo: la Fortuna si prende cura di giustificare le azioni di Cesare e trova motivi per il suo intervento armato. Infranto il diritto, il Senato, agitando minacciosamente il fantasma dei Gracchi, caccia dalla città ormai divisa nelle opposte fazioni i tribuni dissidenti. Essi, che si dirigono verso le insegne di Cesare, ormai in movimento e vicine, sono accompagnati dall’arrogante Curione, il quale metteva in vendita la sua abilità oratoria e che un tempo era espressione della volontà del popolo ed aveva avuto il coraggio di difendere la libertà e di mettere sullo stesso piano della plebe i potenti in armi. Quando egli scorse il condottiero, che volgeva nel suo cuore diversi pensieri, così lo apostrofò: «Finché il tuo partito, o Cesare, trasse giovamento dalla mia voce, siamo riusciti a prolungare il tuo potere, nonostante l’opposizione del Senato, allorquando mi era possibile parlare dalla tribuna e tirare dalla tua parte i Romani ancora esitanti. Ma da quando le leggi furono messe a tacere, schiacciate dalla guerra, siamo cacciati dalla patria e sopportiamo un esilio volontario: la tua vittoria ci renderà nuovamente cittadini. Mentre il partito contrario ondeggia, non rafforzato da alcun sostegno, rompi gli indugi: a quelli che son pronti ha sempre nuociuto rimandare. Una pari fatica ed un uguale timore sono ripagati con un risultato ben più importante: per dieci anni le tue cure di guerra sono state assorbite dalla Gallia (ben poca parte della terra!): se riuscirai a vincere poche battaglie, Roma avrà sottomesso per te il mondo. Ora, al tuo ritorno, non ti accoglie la pompa di un lungo trionfo né il Campidoglio richiede i sacri allori: una divorante invidia ti nega tutto e con grande difficoltà ti si riuscirà a perdonare di aver sottomesso tante popolazioni. Il genero ha stabilito di cacciare il suocero dal dominio: non puoi dividere il mondo, puoi possederlo da solo». Quando ebbe detto queste cose, accese una grande ira in lui, già di per se stesso pronto alla guerra, e lo infiammò così come viene eccitato dal clamore il destriero elèo, che già incalza alle porte dello steccato in cui è rinchiuso e cerca di forzarne le sbarre.