Pharsalia, I, 1, 296-401

Convocat armatos extemplo ad signa maniplos,
utque satis trepidum turba coeunte tumultum
conposuit voltu dextraque silentia iussit
‘bellorum o socii, qui mille pericula Martis

300
mecum’ ait ‘experti decimo iam vincitis anno,
hoc cruor Arctois meruit diffusus in arvis
volneraque et mortes hiemesque sub Alpibus actae?
non secus ingenti bellorum Roma tumultu
concutitur, quam si Poenus transcenderit Alpes

305
Hannibal: inplentur validae tirone cohortes,
in classem cadit omne nemus, terraque marique
iussus Caesar agi. quid, si mihi signa iacerent
Marte sub adverso ruerentque in terga feroces
Gallorum populi? nunc, cum fortuna secundis

310
mecum rebus agat superique ad summa vocantes,
temptamur. veniat longa dux pace solutus
milite cum subito partesque in bella togatae
Marcellusque loquax et nomina vana Catones.
scilicet extremi Pompeium emptique clientes

315
continuo per tot satiabunt tempora regno?
ille reget currus nondum patientibus annis,
ille semel raptos numquam dimittet honores?
quid iam rura querar totum suppressa per orbem
ac iussam servire famem? quis castra timenti

320
nescit mixta foro, gladii cum triste micantes
iudicium insolita trepidum cinxere corona
atque auso medias perrumpere milite leges
Pompeiana reum clauserunt signa Milonem?
nunc quoque, ne lassum teneat privata senectus,

325
bella nefanda parat suetus civilibus armis
et docilis Sullam scelerum vicisse magistrum.
utque ferae tigres numquam posuere furorem,
quas, nemore Hyrcano matrum dum lustra secuntur,
altus caesorum pavit cruor armentorum,

330
sic et Sullanum solito tibi lambere ferrum
durat, magne, sitis. nullus semel ore receptus
pollutas patitur sanguis mansuescere fauces.
quem tamen inveniet tam longa potentia finem?
quis scelerum modus est? ex hoc iam te, inprobe, regno

335
ille tuus saltem doceat descendere Sulla.
post Cilicasne vagos et lassi Pontica regis
proelia barbarico vix consummata veneno
ultima Pompeio dabitur provincia Caesar,
quod non victrices aquilas deponere iussus

340
paruerim? mihi si merces erepta laborum est,
his saltem longi non cum duce praemia belli
reddantur; miles sub quolibet iste triumphet.
conferet exanguis quo se post bella senectus?
quae sedes erit emeritis? quae rura dabuntur

345
quae noster veteranus aret, quae moenia fessis?
an melius fient piratae, Magne, coloni?
tollite iam pridem victricia tollite signa:
viribus utendum est quas fecimus. arma tenenti
omnia dat, qui iusta negat. nec numina derunt;

350
nam neque praeda meis neque regnum quaeritur armis:
detrahimus dominos urbi servire paratae.’

dixerat; at dubium non claro murmure volgus
secum incerta fremit. pietas patriique penates
quamquam caede feras mentes animosque tumentes

355
frangunt; sed diro ferri revocantur amore
ductorisque metu. summi tum munera pili
Laelius emeritique gerens insignia doni,
servati civis referentem praemia quercum,
‘si licet,’ exclamat ‘Romani maxime rector

360
nominis, et ius est veras expromere voces,
quod tam lenta tuas tenuit patientia vires
conquerimur. deratne tibi fiducia nostri?
dum movet haec calidus spirantia corpora sanguis
et dum pila valent fortes torquere lacerti,

365
degenerem patiere togam regnumque senatus?
usque adeo miserum est civili vincere bello?
duc age per Scythiae populos, per inhospita Syrtis
litora, per calidas Libyae sitientis harenas:
haec manus, ut victum post terga relinqueret orbem,

370
Oceani tumidas remo conpescuit undas
fregit et Arctoo spumantem vertice Rhenum:
iussa sequi tam posse mihi quam velle necesse est.
nec civis meus est, in quem tua classica, Caesar,
audiero. per signa decem felicia castris

375
perque tuos iuro quocumque ex hoste triumphos,
pectore si fratris gladium iuguloque parentis
condere me iubeas plenaeque in viscera partu
coniugis, invita peragam tamen omnia dextra;
si spoliare deos ignemque inmittere templis,

380
numina miscebit castrensis flamma monetae;
castra super Tusci si ponere Thybridis undas,
Hesperios audax veniam metator in agros.
tu quoscumque voles in planum effundere muros,
his aries actus disperget saxa lacertis,

385
illa licet, penitus tolli quam iusseris urbem,
Roma sit.’ his cunctae simul adsensere cohortes
elatasque alte, quaecumque ad bella vocaret,
promisere manus. it tantus ad aethera clamor,
quantus, piniferae Boreas cum Thracius Ossae

390
rupibus incubuit, curvato robore pressae
fit sonus aut rursus redeuntis in aethera silvae.

Caesar, ut acceptum tam prono milite bellum
fataque ferre videt, nequo languore moretur
fortunam, sparsas per Gallica rura cohortes

395
evocat et Romam motis petit undique signis.
deseruere cavo tentoria fixa Lemanno
castraque quae Vosegi curvam super ardua ripam
pugnaces pictis cohibebant Lingonas armis.
hi vada liquerunt Isarae, qui, gurgite ductus

400
per tam multa suo, famae maioris in amnem
lapsus ad aequoreas nomen non pertulit undas.

Immediatamente Cesare adunò presso le insegne i manipoli armati e, come riuscì a placare con l’espressione del suo volto il tumulto ansioso della truppa che si raccoglieva e riuscì ad imporre il silenzio con la destra, così parlò: «O compagni di lotta, che, sperimentando con me i mille pericoli del combattimento, vincete ormai da dieci anni, questo ha meritato il sangue sparso nei campi settentrionali e le ferite e le morti e gli inverni trascorsi ai piedi delle Alpi? Roma è squassata da un grande sommovimento di guerra, non diversamente che se il cartaginese Annibale avesse superato le Alpi: le coorti vengono rese più forti con l’aggiunta di reclute, il legno di tutti i boschi viene utilizzato per costruire una flotta e si comanda di incalzare Cesare per terra e per mare. Che cosa accadrebbe se le mie insegne fossero travolte da una sconfitta e le feroci popolazioni galliche mi assalissero alle spalle? Proprio adesso siamo attaccati, ora che la Fortuna mi è favorevole e che gli dèi ci chiamano a cose altissime. Venga al combattimento quel condottiero infrollito da un lungo periodo di pace con truppe raccogliticce e il suo partito in toga e il loquace Marcello e, vuoti nomi, i Catoni. Senza alcun dubbio saranno i clienti più infimi e prezzolati a saziare per tanto tempo la brama pompeiana di potere ininterrotto! Egli guiderà il carro del trionfo pur senza avere l’età prevista dalla legge e, una volta strappato il potere, non lo abbandonerà più! Perché piangere sulle campagne devastate in tutto il mondo e sul popolo affamato costretto a divenire schiavo? Chi non sa delle truppe installatesi nel foro impaurito, quando le spade, con un luccichio sinistro, circondarono con un insolito cordone protettivo un tribunale terrorizzato, e, allorché i soldati osarono irrompere nel bel mezzo del processo, le insegne di Pompeo si strinsero intorno al colpevole Milone? Anche ora, affinché la vecchiaia non lo renda un cittadino stanco ed appartato, egli, ormai abituato ai conflitti civili, appresta guerre nefande, egli che ha ben imparato a superare Silla, maestro di scelleratezze; e come sono sempre in preda al furore le feroci tigri, che nelle selve di Ircània, mentre cercano rifugio nelle tane delle madri, si nutrono abbondantemente del sangue degli armenti scannati, così anche a te rimane la sete, o Grande, abituato a leccare il ferro di Silla: il sangue, una volta che la bocca lo abbia gustato, non consente che le fauci, lordatesene, si ammansiscano. Purtuttavia qual fine avrà un così lungo strapotere? Quale sarà il limite dei delitti? Almeno, o empio, il tuo Silla ti insegni ormai a discendere da codesto tuo potere. Dopo i Cìlici erranti e le battaglie sostenute con lo stanco re del Ponto e che ebbero a stento termine grazie al veleno barbarico, io, Cesare, sarò dato come ultima provincia a Pompeo, poiché non avrò obbedito all’ordine di deporre le aquile vittoriose? Se mi è stata strappata la ricompensa delle mie fatiche, si concedano almeno a costoro, pur senza che io sia più il loro capo, il premio di una lunga guerra: questi soldati ottengano il trionfo sotto qualsiasi guida. Dove si ritirerà, terminate le guerre, la loro esausta vecchiaia? Quale sede essi, una volta congedati, occuperanno? Quali campi saranno dati da arare ai nostri veterani, quali mura a loro ormai stanchi? O forse, ancor meglio, i pirati diverranno coloni? Sollevate, sollevate le insegne, ormai da tempo vittoriose; è necessario servirsi delle forze, che siamo riusciti ad acquisire: colui che nega il dovuto concede tutto a chi impugna le armi. Né verrà meno l’assistenza celeste, dal momento che non cerco con le mie armi né preda né dominio: sottraiamo i tiranni alla città già pronta a divenir schiava».
Così parlò. La truppa dubbiosa si agitava, con un sordo brusio, in preda all’incertezza: la devozione per la famiglia faceva breccia negli animi, per quanto resi feroci dalle stragi, e negli spiriti orgogliosi, ma d’altra parte essi erano trascinati dal crudele amore delle armi e dal timore che provavano nei confronti del loro condottiero. A questo punto Lelio, che recava i gradi di primipìlo ed era insignito delle fronde di quercia, che si riferivano al salvataggio di un cittadino, esclamò: «Se è consentito e conforme al diritto, o massimo reggitore del nome romano, esprimere con sincerità quel che penso, noi ci lamentiamo del fatto che la tua pazienza ha tenuto ferme per tanto tempo le tue forze. Ti era forse venuta meno la fiducia in noi? Mentre il caldo sangue muove questi nostri corpi pronti ad agire e le nostre forti braccia sono in grado di scagliare giavellotti, sopporterai uno che indossa la toga in maniera indegna della propria origine e lo strapotere del Senato? È dunque meschino fino a questo punto vincere in un conflitto civile? Orsù, guidaci attraverso le popolazioni della Scizia, attraverso i guadi infidi delle Sirti, attraverso le torride sabbie della Libia assetata: questo braccio, per lasciarsi dietro il mondo sottomesso, ha tenuto a freno con il remo le gonfie onde dell’Oceano ed ha infranto la violenza del Reno spumeggiante sotto il cielo del nord: è necessario che per me sia la medesima cosa potere e voler eseguire i tuoi comandi. Né è un mio concittadino colui contro il quale udrò squillare la tua tromba, o Cesare. Per le tue insegne vittoriose in dieci campagne e per i tuoi trionfi conseguiti su ogni tipo di nemico, io proferisco questo giuramento: se tu mi ordinassi di immergere la spada nel petto del fratello o nella gola del padre o nelle viscere della moglie gravida, eseguirei accuratamente i tuoi ordini, pur con la destra riluttante; se mi comandassi di spogliare gli dèi e di appiccar fuoco ai templi, la fiamma della zecca castrense fonderebbe le statue delle divinità; se mi ordinassi di porre l’accampamento nei pressi dell’etrusco Tevere, andrei avanti, audace misuratore di confini, nei campi italici. L’ariete, sospinto da queste mie braccia, abbatterà i massi di tutte quelle mura che tu vorrai radere al suolo, anche se dovesse essere Roma la città, che tu avrai deciso di scalzare dalle fondamenta». A queste parole diedero il loro immediato assenso tutte le coorti e, alzate le mani, le promisero a qualunque guerra egli le avesse chiamate. Tale si innalza al cielo un clamore, quale – allorché il tracio borea si abbatte sulle rocce dell’Ossa pieno di pini – il rumore con cui gli alberi della selva si piegano e nuovamente si innalzano verso il cielo.
Cesare, non appena si accorge che i soldati sono totalmente disposti alla guerra e che i fati incalzano, – per non trattenere con un qualche indugio la Fortuna – richiama le coorti sparse per le terre di Gallia e, tolte le insegne, converge da ogni parte su Roma. I soldati Romani abbandonano le tende piantate nell’insenatura del Lemanno e gli accampamenti che, innalzantisi sul curvo fianco dei Vosgi, tenevano a bada i bellicosi Lìngoni dalle armi variopinte. Altri lasciano i guadi dell’ÃŒsara, che, scorrendo per un lungo percorso con acque sue, confluisce in un fiume molto più conosciuto e non mantiene fino allo sbocco in mare il suo nome.