Orationes, In Pisonem, 11

Magnum nomen est, magna species, magna dignitas, magna maiestas consulis; non capiunt angustiae pectoris tui, non recipit levitas ista, non egestas animi; non infirmitas ingeni sustinet, non insolentia rerum secundarum tantam personam, tam gravem, tam severam. Seplasia me hercule, ut dici audiebam, te ut primum aspexit, Campanum consulem repudiavit. Audierat Decios Magios et de Taurea illo Vibellio aliquid acceperat; in quibus si moderatio illa quae in nostris solet esse consulibus non fuit, at fuit pompa, fuit species, fuit incessus saltem Seplasia dignus et Capua. Gabinium denique si vidissent duumvirum vestri illi unguentarii, citius agnovissent. Erant illi compti capilli et madentes cincinnorum fimbriae et fluentes purpurissataeque buccae, dignae Capua, sed illa vetere; nam haec quidem quae nunc est splendidissimorum hominum, fortissimorum virorum, optimorum civium mihique amicissimorum multitudine redundat. Quorum Capuae te praetextatum nemo aspexit qui non gemeret desiderio mei, cuius consilio cum universam rem publicam, tum illam ipsam urbem meminerant esse servatam. Me inaurata statua donarant, me patronum unum asciverant, a me se habere vitam, fortunas, liberos arbitrabantur, me et praesentem contra latrocinium tuum suis decretis legatisque defenderant et absentem principe Cn. Pompeio referente et de corpore rei publicae tuorum scelerum tela revellente revocarant. An tum eras consul cum in Palatio mea domus ardebat non casu aliquo sed ignibus iniectis instigante te? Ecquod in hac urbe maius umquam incendium fuit cui non consul subvenerit? At tu illo ipso tempore apud socrum tuam prope a meis aedibus, cuius domum ad meam domum exhauriendam patefeceras, sedebas non exstinctor sed auctor incendi et ardentis faces furiis Clodianis paene ipse consul ministrabas.

Grande è il nome, grande l’aspetto, grande la nobiltà, grande l’autorevolezza del console; non lo affliggono le angosce del tuo cuore, non lo distrae codesta volubilità né la mancanza di carattere. La via Seplasia, a quanto sentivo dire, appena ti ha visto ti ha rifiutato un console campano. Aveva sentito parlare di persone come Decio Magio e aveva avuto qualche notizia del famoso Vibellio Taurea, nei quali, se mancava il senso della misura che di solito si trova nei nostri consoli, almeno c’era una magnificenza, un aspetto, un portamento degno della via Seplasia e di Capua. Insomma se quei vostri profumieri avessero visto come duumviro Gabinio, l’avrebbero riconosciuto prima. Aveva i capelli ben acconciati, sfrangiature di riccioli stillanti di unguenti, le guance cascanti e imbellettate degne di Capua; ma di quella di un tempo, perché quella di adesso è colma di una quantità di persone della più grande signorilità, di uomini pieni di coraggio, di cittadini ottimi e con la più viva amicizia per me. Nessuno di loro ti ha visto in pretesta senza levare gemiti di rimpianto, perché ricordavano bene che dalla mia saggezza sia lo stato tutto quanto sia la loro città erano stati salvati. A me avevano reso onore con una statua dorata, me avevano assunto come unico patrono, a me erano convinti di essere debitori della vita, dei beni, dei figli, me sia avevano difeso, quando ero a Roma, con i loro decreti e con i loro inviati dalla tua azione da brigante sia, durante la mia assenza, hanno richiamato quando Pompeo per primo metteva il problema all’ordine del giorno e strappava dal corpo dello stato i dardi dei tuoi delitti. Eri console quando sul Palatino la mia casa bruciava non per qualche accidente ma perché per tua istigazione vi era stato appiccato il fuoco? Quale incendio di qualche rilievo si è mai verificato in questa città senza che un console accorresse in aiuto? Invece tu proprio in quel momento te ne stavi seduto vicino a casa mia da tua suocera, la cui casa avevi fatto spalancare per vuotare la mia, non per estinguere ma per provocare l’incendio ed eri tu, il console, a fornire quasi di persona torce accese alle furie di Clodio.