“Vittoria di Cesare sugli Elvezi”

Ancipiti proelio diu atque acriter pugnatum est. Diutius cum hostes sutinere nostrorum impetus non possent, alteri se, ut facere coeperant, in montem receperunt, alteri ad impedimenta et carros suos se contulerunt. Etiam apud impedimenta pugnatum est, propterea quod Helvetii pro vallo carros obiecerant et loco superiore in nostros venientes tela coniciebant, et nonnulli inter carros rotasque mataras ac tragulas subiciebant nostrosque vulnerabant. Diu cum esset pugnatum, impedimentis castrisque nostri potiti sunt. Ibi Orgetorigis filia atque unus e filiis captus est. Ex eo proelio circiter milia hominum CXXX superfuerunt iique tota nocte continenter ierunt: denique, in fines Lingonum die quarto pervenerunt; nostri autem, propter vulnera militum et propter sepulturam occisorum triduum morati, eos sequi non potuerunt. Caesar ad Lingonas litteras nuntiosque misit, ne Helvetios frumento iuvarent. Ipse triduo intermisso cum omnibus copiis eos sequi coepit.

Si combatté a lungo e con accanimento con esito incerto. Giacché i nemici non erano in grado di trattener più a lungo gli assalti dei nostri, taluni, appena iniziato ad agire, si ritirarono verso un monte, altri si volsero verso i bagagli ed i propri carri. Anche presso i bagagli si combatté, per il fatto che gli Elvezi avevano disposto i carri come vallo e, da un luogo più elevato scagliavano dardi contro i nostri che s’avvicinavano, e taluni (tra i nemici) gettavano lance galliche e giavellotti tra i carri e le ruote, e ferivano i nostri. Dopo che si combatté a lungo, i nostri si impadronirono dei bagagli e dell’accampamento. Là furono catturati la figlia ed uno soltanto dei figli di Orgetorige. A quel combattimento sopravvissero circa 130000 uomini, e questi marciarono senza posa per tutta la notte. Infine il quarto giorno (di cammino) giunsero ai confini dei Lingoni; tuttavia i nostri, a causa delle ferite e per la sepoltura degli uccisi, dopo aver atteso tre giorni, non li potevano seguire. (Dunque) Cesare inviò una lettera e dei messaggeri dai Lingoni, affinchè non soccorressero gli Elvezi con il frumento. Egli, invece, lasciati trascorrere tre giorni, li iniziò a seguire con tutte le truppe.

“La sconfitta dei Germani di Ariovisto”

Omnes Germani terga verterunt neque fugere destiterunt prius quam ad flumen Rhenum, qui circiter duo milia passum ex eo loco distabat, pervenerunt. Ibi perpauci eorum, suis viribus confisi, lumen tranare conati sunt et sibi alutem reppererunt. In his fuit Ariovistus ipse qui, naviculam deligatam ad ripam cactus, ea ad alteram ripam profugit. Reliquos barbaros nostri equitatu consecuti, cunctos interfecerunt. Duae fuerunt Ariovisti uxores: una Sueba natione, quam domo secum duxerat; altera Norica, regis Voccionis sorror, quam in Gallia in matrimonium duxerat. Utraque in ea fuga preiit. Etiam duae filiae fuerunt, quorum altera occisa, altera fugiens capta est. Caius Valerius Procillus, qui captivus, tribus catenis vinctus, trahebatur, in ipsum Caesarem, hostes equitatu persequentem, incidit et liberatus est. Quae res non minorem quam ipsa victoria voluptatem Caesari peperit: nam hominem honestissimus provinciae Galliae, suum familiarem et hospitem, ereptum e manibus hostium, sibi restitutum videbat.

Tutti i Germani voltarono le spalle e non smisero di scappare prima di arrivare al fiume Remo, che distava da quel luogo circa duemila passi. Qui pochissimi di loro, confidando sulle loro forze, tentarono di passare il fiume a nuoto, e ottennero per sé la salvezza. Tra di loro ci fu Ariovisto, lo stesso che, trovata per caso una piccola imbarcazione legata alla riva, con quella fuggì sull’altra riva. I nostri, inseguiti gli altri barbari con la cavalleria, li uccisero tutti quanti. Due furono le mogli di Ariovisto: una proveniente dalla nazione sveva, che egli aveva portato con sé nella sua casa, l’altra norica, sorella del re Voccione, che aveva sposato in Gallia. Entrambe morirono durante quella fuga. Ci furono anche due figlie, delle quali una venne uccisa e l’altra catturata durante la fuga. Caio Valerio Procillo, che veniva trascinato prigioniero, avvinto da tre catene, si imbatté nello stesso Cesare, che inseguiva i nemici con la cavalleria e venne liberato. Questo fatto procurò a Cesare un piacere non inferiore alla vittoria stessa: infatti comprendeva che gli era stato reso un uomo degno di molto rispetto della provincia della Gallia, suo amico e ospite, sottratto dalle mani dei nemici.

De Bello Civili III, 18 (“Tentativi falliti di pacificazione”)

Bibulus multos dies terra prohibitus et graviore morbo ex frigore et labore implicitus, cum neque curari posset neque susceptum officium deserere vellet, vim morbi sustinere non potuit Eo mortuo ad neminem unum summa imperii redit, sed separatim suam quisque classem ad arbitrium suum administrabat. Vibullius sedato tumultu, quem repentinus adventus Caesaris concitaverat, ubi primum e re visum est, adhibito Libone et L. Lucceio et Theophane, quibuscum communicare de maximis rebus Pompeius consueverat, de mandatis Caesaris agere instituit. Quem ingressum in sermonem Pompeius interpellavit et loqui plura prohibuit. “Quid mihi”, inquit, “aut vita aut civitate opus est, quam beneficio Caesaris habere videbor? cuius rei opinio tolli non poterit, cum in Italiam, ex qua profectus sum, reductus existimabor bello periecto”. Ab eis Caesar haec facta cognovit, qui sermoni interfuerunt; conatus tamen nihilo minus est allis rationibus per colloquia de pace agere.

Bibulo, al quale da molti giorni era impedito lo sbarco, gravemente ammalato a causa della fatica e del freddo, non potendo essere curato e non volendo abbandonare l’incarico assunto, non sopportò la virulenza della malattia. Dopo la sua morte nessuno ebbe da solo il comando supremo, ma ciascuno comandava le proprie navi autonomamente e secondo il proprio giudizio. Vibullio, sedato il tumulto suscitato dall’improvviso arrivo di Cesare, appena il momento gli parve opportuno, assistito da Libone, L. Lucceio e Teofane, con i quali Pompeo era solito consultarsi sugli affari della massima importanza, cominciò a discutere delle proposte di Cesare. Aveva appena cominciato a parlare quando Pompeo lo interruppe e gli impedì di proseguire oltre il discorso: “Che importa a me”, disse, “della vita o dei diritti civili, se sembreranno da me posseduti per la benevolenza di Cesare? E questa opinione non potrà essere cancellata, poiché sembrerà che io sia stato ricondotto a forza in Italia, dalla quale mi sono allontanato”. Terminata la guerra, Cesare venne a conoscenza di questi fatti da coloro che furono presenti al colloquio. Ciò nonostante tentò in altro modo di fare trattative di pace mediante abboccamenti.

De Bello Gallico, I, 1 (“Cartina della Gallia”)

Gallia est omnis divisa in partes tres, quarum unam incolunt Belgae, aliam Aquitani, tertiam qui ipsorum lingua Celtae, nostra Galli appellantur. Hi omnes lingua institutis legibus inter se differunt. Gallos ab Aquitanis Garunna flumen, a Belgis Matrona et Sequana dividit. Horum omnium fortissimi sunt Belgae, propterea quod a cultu atque humanitate Provinciae longissime absunt minimeque ad eos mercatores saepe commeant atque ea quae ad effeminandos animos pertinent important proximique sunt Germanis qui trans Rhenum incolunt, quibuscum continenter bellum gerunt. Qua de causa Helvetii quoque reliquos Gallos virtute praecedunt, quod fere cotidianis proeliis cum Germanis contendunt, cum aut suis finibus eos prohibent aut ipsi in eorum finibus bellum. Eorum una pars, quam Gallos obtinere dictum est, initium capit a flumine Rhodano, continetur Garunna flumine Oceano finibus Belgarum, attingit etiam ab Sequanis et Helvetiis flumen Rhenum, vergit ad Septentriones. Belgae ab extremis Galliae finibus oriuntur, pertinent at inferiorem partem fluminis Rheni, spectant in Septentrionem et Orientem solem. Aquitania a Garunna flumine ad Pyrenaeos montes et eam partem Oceani quae est ad Hispaniam pertinent; spectat inter occasum solis et Septentriones.

La Gallia nel suo insieme è divisa in tre parti, una abitata dai Belgi, un’altra dagli Aquitani, la terza da coloro che nella propria lingua si chiamano Celti, nella nostra Galli. Tutti questi popoli si differenziano per lingua, istituzioni, leggi. Dividono i Galli dagli Aquitani il fiume Garonna, dai Belgi la Marna e la Senna. Più forti di tutti sono i Belgi, essendo i più lontani dalla vita civilizzata della nostra Provincia, e ben pochi mercanti giungono, e di rado, fino a loro, né vi importano i prodotti che rendono gli animi effeminati; inoltre confinano con i Germani stanziati oltre il Reno e sono in continuo conflitto con loro. Da qui deriva anche l’eccellenza degli Elvezi per valore su tutti gli altri Galli; poiché si misurano quasi ogni giorno con i Germani in combattimento, a volte respingendoli dai propri confini, a volte portando la guerra nel loro territorio. La parte della regione occupata, come si è detto, dai Galli comincia dal fiume Rodano, è compresa tra il fiume Garonna, l’Oceano e il territorio dei Belgi, e dal lato dei Sequani e degli Elvezi raggiunge il Reno per poi volgersi verso Settentrione e a Oriente. L’Aquitania si estende dal fiume Garonna alla catena dei Pirenei e alla parte dell’Oceano che fronteggia la Spagna; è disposta tra Occidente e Settentrione.

“I Carnuti uccidono Tasgezio”

Erat in Carnutibus summo loco natus Tasgetius, cuius maiores in sua civitate regnum obtinuerant. Huic Caesar pro eius virtute atque in se benevolentia, quod in omnibus bellis
singularem eius operam adhibuerat, maiorum locum restituerat. Tertium iam annum Tasgetium regnantem inimici, multis palam ex civitate auctoribus(per palese istigazione), interfecerunt. Defertur ea res ad Caesarem, quem eius mortis valde miseritum est. Ille veritus, quod ad plures pertinebat(sottintendere quel delitto), ne civitas eorum impulsu deficeret, Lucium PLancum cum legione ex Belgio celeriter in Carnutes proficisci iubet ibique hiemare, quorumque opera cognoverat Tasgetium interfectum, hos comprehensos ad se mittere. Interim omnes legati quaestoresque, quibus legiones traditae erant, certiorem Caesarem fecerunt in hiberna se pervenisse lucumque hibernis esse munitum.

Tra i Carnuti viveva una persona di nobili natali, Tasgezio, i cui antenati avevano regnato sul paese: Cesare gli aveva restituito il rango degli avi, in considerazione del suo valore e della sua fedeltà, dato che in tutte le guerre Cesare si era avvalso del suo contributo incomparabile. Tasgezio era già al suo terzo anno di regno, quando i suoi oppositori lo eliminarono con una congiura, mentre anche molti cittadini avevano appoggiato apertamente il piano. La cosa viene riferita a Cesare, che, temendo una defezione dei Carnuti sotto la spinta degli oppositori – parecchi erano implicati nella vicenda – ordina a L. Planco di partire al più presto dal Belgio alla testa della sua legione, di raggiungere il territorio dei Carnuti e di passarvi l’inverno: chiunque gli risultasse implicato nell’uccisione di Tasgezio, doveva essere arrestato e inviato a Cesare. Nello stesso tempo, tutti gli ufficiali preposti alle legioni informano Cesare che erano giunti ai quartieri d’inverno e che le fortificazioni erano ormai ultimate.

“I druidi”

In omni Gallia druides honorati sunt atque multas utilitates habent: a bello abesse consuerunt neque tributa pendunt. Militiae vacationem omniumque rerum immunitatem habent. Tantis praemiis excitati, multi iuvenes sua sponte apud eos in disciplinam conveniunt aut a parentibus propinquisque mittuntur. Discipulos,suos animos ad eorum praecepta applicantes, magnum numerum versuum ediscere constat. Itaque annos nonnulli vicenos in disciplina permanent. Druides enim ea sacra litteris mandare recusant ne in vulgus sua disciplina pervulgata sit. In primis animas non interire docent sed, cum eae ex corpore excesserint, ab aliis ad alios mortales transire.Sacerdotes iuvenes virosque hac doctrina maxime ad virtutem excitari putant, cum mortis metum neglegunt. Multa praeterea de sideribus atque eorum motu, de mundi ac terrarum magnitudine, de rerum natura vi ac potestate disputant et iuventuti tradunt. Hodie fama est Gallos religionibus se admodum dedisse.

In tutta la Gallia i druidi sono onorati e hanno molti vantaggi: si tengono lontano dalla guerra e non pagano le tasse. Sono esenti dal servizio militare e hanno l’immunità da tutte le cose. Eccitati da tanti premi, molti giovani di loro spontanea volontà si radunano presso di loro per l’insegnamento o sono mandati dai propri genitori. I discepoli, rivolgendo i loro animi ai loro insegnamenti, imparano un grande numero di poesie a memoria. Perciò rimangono parecchi anni nella formazione. I druidi infatti si oppongono al fatto che sia inoltrata la loro sacra letteratura affinchè non sia divulgata la loro dottrina nel volgo. Insegnano che le anime non muoiono subito ma, quando esse escono dai corpi, passano da quesi corpi a quelli di altri. I sacerdoti pensano di spronare a questa dottrina i giovani e gli uomini con la virtù soprattutto, dimenticano la paura della morte. Soprattutto parlano di molte cose delle stelle e del loro movimento, circa la grandezza del mondo e della terra, delle cose che riguardano la forza e la potenza della natura e la raccontano ai giovani. Oggi è noto che i Galli si dedicassero sopra ogni modo alla religione.

“I Druidi sono anche giudici”

In omni Gallia eorum hominum, qui aliquo sunt numero atque honore, genera sunt duo. Nam plebes paene servorum habetur loco, quae nihil audet per se, nullo adhibetur consilio. Plerique, cum aut aere alieno aut magnitudine tributorum aut iniuria potentiorum premuntur, sese in servitutem dicant nobilibus: in hos eadem omnia sunt iura, quae dominis in servos. Sed de his duobus generibus alterum est druidum, alterum equitum. Illi rebus divinis intersunt, sacrificia publica ac privata procurant, religiones interpretantur: ad hos magnus adulescentium numerus disciplinae causa concurrit, magnoque hi sunt apud eos honore. Nam fere de omnibus controversiis publicis privatisque constituunt, et, si quod est admissum facinus, si caedes facta, si de hereditate, de finibus controversia est, idem decernunt, praemia poenasque constituunt; si qui aut privatus aut populus eorum decreto non stetit, sacrificiis interdicunt. Haec poena apud eos est gravissima.

In tutta la Gallia ci sono due classi di persone tenute in un certo conto e riguardo. La gente del popolo, infatti, è considerata quasi alla stregua dei servi, non prende iniziative e non viene ammessa alle assemblee. I più, oberati dai debiti, dai tributi gravosi o dai soprusi dei potenti, si mettono al servizio dei nobili, che su di essi godono degli stessi diritti che hanno i padroni sugli schiavi. Delle due classi, dunque, la prima comprende i druidi, l’altra i cavalieri. I druidi si occupano delle cerimonie religiose, provvedono ai sacrifici pubblici e privati, regolano le pratiche del culto. Moltissimi giovani accorrono a istruirsi dai druidi, che tra i Galli godono di grande onore. Infatti, risolvono quasi tutte le controversie pubbliche e private e, se è stato commesso un reato, se c’è stato un omicidio, oppure se sorgono problemi d’eredità o di confine, sono sempre loro a giudicare, fissando risarcimenti e pene. Se qualcuno – si tratti di un privato cittadino o di un popolo – non si attiene alle loro decisioni, gli interdicono i sacrifici. È la pena più grave tra i Galli.

De Bello Gallico, VI, 13

In omni Gallia eorum hominum, qui aliquo sunt numero atque honore, genera sunt duo. Nam plebes paene servorum habetur loco, quae nihil audet per se, nullo adhibetur consilio. Plerique, cum aut aere alieno aut magnitudine tributorum aut iniuria potentiorum premuntur, sese in servitutem dicant nobilibus: in hos eadem omnia sunt iura, quae dominis in servos. Sed de his duobus generibus alterum est druidum, alterum equitum. Illi rebus divinis intersunt, sacrificia publica ac privata procurant, religiones interpretantur: ad hos magnus adulescentium numerus disciplinae causa concurrit, magnoque hi sunt apud eos honore. Nam fere de omnibus controversiis publicis privatisque constituunt, et, si quod est admissum facinus, si caedes facta, si de hereditate, de finibus controversia est, idem decernunt, praemia poenasque constituunt; si qui aut privatus aut populus eorum decreto non stetit, sacrificiis interdicunt. Haec poena apud eos est gravissima. Quibus ita est interdictum, hi numero impiorum ac sceleratorum habentur, his omnes decedunt, aditum sermonemque defugiunt, ne quid ex contagione incommodi accipiant, neque his petentibus ius redditur neque honos ullus communicatur. His autem omnibus druidibus praeest unus, qui summam inter eos habet auctoritatem. Hoc mortuo aut si qui ex reliquis excellit dignitate succedit, aut, si sunt plures pares, suffragio druidum, nonnumquam etiam armis de principatu contendunt. Hi certo anni tempore in finibus Carnutum, quae regio totius Galliae media habetur, considunt in loco consecrato. Huc omnes undique, qui controversias habent, conveniunt eorumque decretis iudiciisque parent. Disciplina in Britannia reperta atque inde in Galliam translata esse existimatur, et nunc, qui diligentius eam rem cognoscere volunt, plerumque illo discendi causa proficiscuntur

In tutta la Gallia ci sono due classi di persone tenute in un certo conto e riguardo. La gente del popolo, infatti, è considerata quasi alla stregua dei servi, non prende iniziative e non viene ammessa alle assemblee. I più, oberati dai debiti, dai tributi gravosi o dai soprusi dei potenti, si mettono al servizio dei nobili, che su di essi godono degli stessi diritti che hanno i padroni sugli schiavi. Delle due classi, dunque, la prima comprende i druidi, l’altra i cavalieri. I druidi si occupano delle cerimonie religiose, provvedono ai sacrifici pubblici e privati, regolano le pratiche del culto. Moltissimi giovani accorrono a istruirsi dai druidi, che tra i Galli godono di grande onore. Infatti, risolvono quasi tutte le controversie pubbliche e private e, se è stato commesso un reato, se c’è stato un omicidio, oppure se sorgono problemi d’eredità o di confine, sono sempre loro a giudicare, fissando risarcimenti e pene. Se qualcuno – si tratti di un privato cittadino o di un popolo – non si attiene alle loro decisioni, gli interdicono i sacrifici. È la pena più grave tra i Galli. Chi ne è stato colpito, viene considerato un empio, un criminale: tutti si scostano alla sua vista, lo evitano e non gli rivolgono la parola, per non contrarre qualche sciagura dal suo contatto; non è ammesso a chiedere giustizia, né può essere partecipe di qualche carica. Tutti i druidi hanno un unico capo, che gode della massima autorità. Alla sua morte, ne prende il posto chi preceda gli altri druidi in prestigio, oppure, se sono in parecchi ad avere uguali meriti, la scelta è lasciata ai voti dei druidi, ma talvolta si contendono la carica addirittura con le armi. In un determinato periodo dell’anno si radunano in un luogo consacrato, nella regione dei Carnuti, ritenuta al centro di tutta la Gallia. Chi ha delle controversie, da ogni regione qui si reca e si attiene alla decisione e al verdetto dei druidi. Si crede che la loro dottrina sia nata in Britannia e che, da lì, sia passata in Gallia: ancor oggi, chi intende approfondirla, in genere si reca sull’isola per istruirsi.

De Bello Gallico, VI, 11

Quoniam ad hunc locum perventum est, non alienum esse videtur de Galliae Germaniaeque moribus et quo differant hae nationes inter sese proponere. In Gallia non solum in omnibus civitatibus atque in omnibus pagis partibusque, sed paene etiam in singulis domibus factiones sunt, earumque factionum principes sunt qui summam auctoritatem eorum iudicio habere existimantur, quorum ad arbitrium iudiciumque summa omnium rerum consiliorumque redeat. Itaque eius rei causa antiquitus institutum videtur, ne quis ex plebe contra potentio rem auxili egeret: suos enim quisque opprimi et circumveniri non patitur, neque, aliter si faciat, ullam inter suos habet auctoritatem. Haec eadem ratio est in summa totius Galliae: namque omnes civitates in partes divisae sunt duas.

Poiché si è giunti a questo punto della narrazione non sembra che sia inopportuno parlare dei costumi della Gallia e della Germania e in che cosa differiscono queste popolazioni fra loro. In Gallia esistono fazioni non solo in tutte le città, villaggi e cantoni, ma anche quasi in ogni casa, e di queste fazioni sono i capi coloro che a loro giudizio si stima che abbiano la massima autorità, al cui giudizio e arbitrio è affidato il sommo potere decisionale. E sembra che ciò sia stato stabilito anticamente a questo scopo, affinché nessuno fra la plebe fosse privo di difese contro i più potenti: infatti nessuno sopporta che i suoi vengano oppressi e sopraffatti e non avrebbe nessuna autorità fra i suoi se agisse diversamente. Questo regime è lo stesso in tutta quanta la Gallia: ed infatti tutte le città sono divise in due partiti.

De Bello Gallico IV, 12

At hostes, ubi primum nostros equites conspexerunt, quorum erat V milium numerus, cum ipsi non amplius DCCC equites haberent, quod ii qui frumentandi causa erant trans Mosam profecti nondum redierant, nihil timentibus nostris, quod legati eorum paulo ante a Caesare discesserant atque is dies indutiis erat ab his petitus, impetu facto celeriter nostros perturbaverunt; rursus his resistentibus consuetudine sua ad pedes desiluerunt subfossis equis compluribus nostris deiectis reliquos in fugam coniecerunt atque ita perterritos egerunt ut non prius fuga desisterent quam in conspectum agminis nostri venissent. In eo proelio ex equitibus nostris interficiuntur IIII et LXX, in his vir fortissimus Piso Aquitanus, amplissimo genere natus, cuius avus in civitate sua regnum obtinuerat amicus a senatu nostro appellatus. Hic cum fratri intercluso ab hostibus auxilium ferret, illum ex periculo eripuit, ipse equo vulnerato deiectus, quoad potuit, fortissime restitit; cum circumventus multis vulneribus acceptis cecidisset atque id frater, qui iam proelio excesserat, procul animadvertisset, incitato equo se hostibus obtulit atque interfectus est.

Ma i nemici, appena videro la nostra cavalleria, che contava cinquemila unità, mentre loro non avevano più di ottocento cavalieri, visto che non erano ancora tornati quelli che erano stati mandati al di là della Mosa in cerca di grano, assalirono e sbaragliarono i nostri che non avevano ragione di temere un assalto, dal momento che gli ambasciatori dei Germani avevano da poco lasciato Cesare, dopo aver chiesto quel giorno di tregua. Quando i nostri si ripresero e cominciarono ad opporre resistenza, i nemici, seguendo la tattica abituale, smontarono e, colpendo dal basso i cavalli, disarcionarono parecchi dei nostri costringendo gli altri alla fuga, inseguendoli e spaventandoli al punto che non cessarono di fuggire se non quando furono in vista del nostro esercito in marcia. Perdemmo in questa battaglia settantaquattro cavalieri, tra i quali Pisone Aquitano, un uomo coraggiosissimo, di nobilissima stirpe, il cui avo aveva tenuto tra la sua gente il comando supremo e ricevuto dal nostro senato il titolo di amico del popolo romano. Questi, accorso in aiuto del fratello, che era stato circondato dai nemici, era riuscito a strapparlo al pericolo, ma, essendo stato colpito il suo cavallo, fu a sua volta disarcionato, e fino a quando gli fu possibile, resistette con grande valore, finché, circondato, cadde coperto di ferite. Quando il fratello, che ormai si era ritirato dalla battaglia, lo vide da lontano, spronato il cavallo, si slanciò tra i nemici e venne ucciso.

“Cassivellauno si arrende a Cesare” (“La resa di Cassivellauno”)

Dum haec in his locis geruntur, Cassivellaunus ad Cantium, quod esse ad mare supra demonstravimus, quibus regionibus quattuor reges praeerant, Cingetorix, Carvilius, Taximagulus, Segovax, nuntios mittit atque eis imperat uti coactis omnibus copiis castra navalia de improviso adoriantur atque oppugent. Ei cum ad castra venissent, nostri eruptione facta multis eorum interfectis, capto etiam nobili duce Lugotorige suos incolumes reduxerunt. Cassivellaunus hoc proelio nuntiato tot detrimentis acceptis, vastatis finibus, maxime etiam permotus defectione civitatum legatos per Atrebatem Commium de deditione ad Caesarem mittit. Caesar, cum constituisset hiemare in continenti propter repentinos Galliae motus, neque multum aestatis superesset, atque id facile extrahi posse intellegeret, obsides imperat et quid in annos singulos vectigalis populo Romano Britannia penderet constituit; interdicit atque imperat Cassivellauno, ne Mandubracio neu Trinobantibus noceat.

Nel corso di tali avvenimenti, Cassivellauno invia dei messi nel Canzio, regione che si affaccia sul mare – lo si è già ricordato – e che era governata da quattro re: Cingetorige, Carvilio, Taximagulo e Segovace. A essi ordina di raccogliere tutte le loro truppe e di sferrare un improvviso attacco all’accampamento navale romano, ponendolo sotto assedio. Appena i nemici giunsero al campo, i nostri effettuarono una sortita e ne fecero strage: catturato anche il loro capo, Lugotorige, di nobile stirpe, rientrarono sani e salvi. Quando gli fu annunciato l’esito della battaglia, Cassivellauno, visti i tanti rovesci, i territori devastati e scosso, soprattutto, dalle defezioni, invia, tramite l’atrebate Commio, una legazione a Cesare per trattare la resa. Cesare aveva deciso di svernare sul continente per prevenire repentine sollevazioni in Gallia e si rendeva conto che, volgendo ormai l’estate al termine, i nemici potevano con facilità temporeggiare. Perciò, chiede ostaggi e fissa il tributo che la Britannia avrebbe dovuto pagare annualmente al popolo romano; a Cassivellauno proibisce formalmente di arrecar danno a Mandubracio o ai Trinovanti.

“I Romani passano il Tamigi a guado”

Caesar, cognito consilio eorum, ad flumen Tamesim in fines Cassivellauni exercitum duxit; quod flumen uno omnino loco pedibus atque hoc aegre transiri potest. Eo cum venisset, animum advertit ad alteram fluminis ripam magnas esse copias hostium instructas. Ripa autem erat acutis sudibus praefixis munita; eiusdemque generis sub aqua defixae sudes flumine tegebantur. His rebus cognitis a perfugis captivisque Caesar praemisso equitatu confestim legiones subsequi iussit. sed ea celeritate atque eo impetu milites ierunt, cum capite solo ex aqua extarent, ut hostes impetum legionum atque equitum sustinere non possent ripasque dimitterent ac se fugae mandarent.

Cesare, saputo il loro piano, guidò l’esercito presso il fiume Tamigi nei territori di Cassivellauno; questo fiume però solamente in un unico luogo ed in questo a fatica si può passare a piedi. Essendo giunto là, s’accorse che sull’altra riva c’erano schierate grandi truppe di nemici. La riva poi era fortificata con pali appuntiti e conficcati, pali dello stesso genere conficcati sott’acqua erano coperti dal fiume. Sapute queste cose da disertori e prigionieri, Cesare, mandata avanti la cavalleria, ordinò che le legioni lo seguissero subito. Ma i soldati avanzarono con tale celerità e con tale impeto, stando fuori dall’acqua con la sola testa, che i nemici non poterono sostenere l’impeto delle legioni e dei cavalieri ed abbandonarono le rive e si diedero alla fuga.

De Bello Civili, III, 64 (“L’eroico sacrificio di un soldato vessillifero”)

Hoc tumultu nuntiato Marcellinus cohortes subsidio nostris laborantibus submittit ex castris; quae fugientes conspicatae neque illos suo adventu confirmare potuerunt neque ipsae hostium impetum tulerunt. Itaque quodcumque addebatur subsidii, id corruptum timore fugientium terrorem et periculum augebat; hominum enim multitudine receptus impediebatur. In eo proelio cum gravi vulnere esset affectus aquilifer et a viribus deficeretur, conspicatus equites nostros, “hanc ego,” inquit, “et vivus multos per annos magna diligentia defendi et nunc moriens eadem fide Caesari restituo. Nolite, obsecro, committere, quod ante in exercitu Caesaris non accidit, ut rei militaris dedecus admittatur, incolumemque ad eum deferte”. Hoc casu aquila conservatur omnibus primae cohortis centurionibus interfectis praeter principem priorem.

All’annuncio di questo assalto improvviso, Marcellino manda dal campo coorti in aiuto ai nostri in difficoltà, ma queste trovarono i nostri in fuga e non poterono col loro arrivo infondere coraggio; esse stesse non sostennero l’assalto nemico. E così, qualunque aiuto inviato, contaminato dal terrore dei fuggitivi, aumentava a sua volta terrore e pericolo: infatti la ritirata veniva impedita dal gran numero di uomini. In quella battaglia un aquilifero, ferito gravemente, mentre già gli venivano meno le forze, alla vista dei nostri cavalieri disse: “Quest’aquila io da vivo per molti anni l’ho difesa con grande zelo e ora, morendo, la restituisco a Cesare con la medesima fedeltà. Vi prego, non permettete che sia commesso atto vergognoso per l’onore militare, cosa che mai è avvenuta prima nell’esercito di Cesare, e consegnategliela intatta”. In tal modo l’aquila fu salvata, sebbene fossero uccisi tutti i centurioni della prima coorte, eccetto il centurione al comando della prima centuria.

“Differenze tra i Germani e i Galli”

Germani multum ab hac consuetudine differunt. Nam neque druides habent qui rebus divinis praesint, neque sacrificiis student. Deorum numero eos solos ducunt, quos cernunt et quorum aperte opibus iuvantur, Solem et Vulcanum et Lunam; reliquos ne fama quidem acceperunt. Vita omnis in venationibus atque in studiis rei militaris consistit; a parvis labori ac duritiae student. Qui diutissime impuberes permanserunt, maximam inter suos ferunt laudem; hoc ali staturam, ali vires nervosque confirmari putant. Intra annum vero vicesimum feminae notitiam habuisse in turpissimis habent rebus. Cuius rei nulla est occultatio, quod et promiscue in fluminibus perluuntur et pellibus aut parvis renonum tegimentis utuntur, magna corporis parte nuda.

I Germani differiscono molto da questa consuetudine. Infatti, non hanno né druidi che presiedano alle cerimonie religiose, né si dedicano ai sacrifici. Considerano nel numero degli dèi solo quelli che vedono e dalla cui potenza sono chiaramente aiutati: il Sole, Vulcano, la Luna. Non conoscono gli altri neppure di fama. Tutta la (loro) vita consiste in cacce e addestramento al combattimento: fin da bambini si allenano alla fatica e alla vita dura. Coloro che sono rimasti casti più a lungo, godono della massima stima fra i loro: pensano che ciò aumenti la statura, accresca le forze e renda i nervi saldi. E stimano tra le cose più vergognose l’aver avuto rapporti con una donna prima del ventunesimo anno; ma di questa cosa non c’è nessun mistero, poiché si lavano promiscuamente nei fiumi, indossano pelli o piccole coperture di giubbe di pelliccia (e hanno) gran parte del corpo nuda.

De Bello Civili, III, 1

Dictatore habente comitia Caesare consules creantur Iulius Caesar et P. Servilius: is enim erat annus, quo per leges ei consulem fieri liceret. His rebus confectis, cum fides tota Italia esset angustior neque creditae pecuniae solverentur, constituit, ut arbitri darentur; per eos fierent aestimationes possessionum et rerum, quanti quaeque earum ante bellum fuisset, atque hac creditoribus traderentur. Hoc et ad timorem novarum tabularum tollendum minuendumve, qui fere bella et civiles dissensiones sequi consuevit, et ad debitorum tuendam existimationem esse aptissimum existimavit. Itemque praetoribus tribunisque plebis rogationes ad populum ferentibus nonnullos ambitus Pompeia lege damnatos illis temporibus, quibus in urbe praesidia legionum Pompeius habuerat, quae iudicia aliis audientibus iudicibus, aliis sententiam ferentibus singulis diebus erant perfecta, in integrum restituit, qui se illi initio civilis belli obtulerant, si sua opera in bello uti vellet, proinde aestimans, ac si usus esset, quoniam aui fecissent potestatem. Statuerat enim prius hos iudicio populi debere restitui, quam suo beneficio videri receptos, ne aut ingratus in referenda gratia aut arrogans in praeripiendo populi beneficio videretur.

Nei comizi che si tennero sotto la dittatura di Cesare, furono eletti consoli Giulio Cesare e Publio Servilio; era quello infatti l’anno in cui, a termini di legge, egli poteva accedere di nuovo al consolato. Fatto ciò, poiché in tutta l’Italia il credito era in una situazione piuttosto grave, e i debiti non venivano pagati, stabilì che venissero nominati degli arbitri, che procedessero alla stima dei beni mobili e immobili, in base al loro valore di prima della guerra, per soddisfare con questi i creditori. Ritenne che questo fosse il provvedimento più adatto ad eliminare o almeno a diminuire il timore della cancellazione dei debiti, normale conseguenza delle guerre e delle discordie civili, e a salvaguardare il credito dei debitori. Parimenti, su proposta presentata al popolo dai pretori e dai tribuni della plebe, riabilitò alcuni cittadini condannati per broglio elettorale in base alla legge Pompea, nel periodo in cui Roma era presidiata dalle legioni di Pompeo e le sentenze venivano emesse da giudici diversi da quelli che avevano seguito la causa, e il tutto veniva liquidato in una sola giornata. Questi cittadini si erano messi a sua disposizione fin dall’inizio della guerra civile, nel caso volesse servirsi di loro nel conflitto, ed egli si comportava come se se ne fosse servito, poiché gli avevano dato la loro disponibilità. Aveva infatti stabilito che costoro dovevano essere reintegrati nei loro diritti con una pubblica sentenza, piuttosto che sembrare riabilitati dal suo personale favore, questo per non sembrare ingrato nel restituire un favore o arrogante nell’attribuire a se stesso la facoltà di accordare un beneficio che spettava al popolo concedere.

De Bello Gallico, VI, 23

Civitatibus maxima laus est quam latissime circum se vastatis finibus solitudines habere. hoc proprium virtutis existimant, expulsos agris finitimos cedere neque quemquam prope se audere consistere. Simul hoc se fore tutiores arbitrantur, repentinae incursionis timore sublato. Cum bellum civitas aut inlatum defendit aut infert, magistratus qui ei bello praesint et vitae necisque habeant potestatem deliguntur. In pace nullus est communis magistratus, sed principes regionum atque pagorum inter suos ius dicunt controversiasque minuunt. latrocinia nullam habent infamiam quae extra fines cuiusque civitatis fiunt, atque ea iuventutis exercendae ac desidiae minuendae causa fieri praedicant. Atque ubi quis ex principibus in concilio dixit se ducem fore, qui sequi velint, profiteantur, consurgunt ii qui et causam et hominem probant, suumque auxilium pollicentur atque a multitudine conlaudantur; qui ex his secuti non sunt, in desertorum ac proditorum numero ducuntur, omniumque his rerum postea fides derogatur. Hospitem violare fas non putant; qui quacumque de causa ad eos venerunt, ab iniuria prohibent sanctosque habent, hisque omnium domus patent victusque communicatur.

Per le nazioni è massima gloria è che essi abbiano attorno il più ampiamente possibile, devastati i territori, dei deserti. Questo stimano proprio del valore, che i confinanti espulsi si ritirino dai campi e che nessuno osi fermarsi vicino a loro. Con questo insieme pensano che saranno più sicuri, tolto il timore di un improvviso assalto. Quando la nazione o s’oppone ad una guerra dichiarata o la dichiara, vengono scelti magistrati che presiedano a quella guerra ed abbiano il potere di vita e di morte. In pace non c’è nessun magistrato comune, ma i capi delle regioni e dei villaggi amministrano la giustizia tra i loro e riducono le controversie. Le rapine non hanno nessuna infamia, quelle (però) che siano fatte fuori dei territori di ogni nazione, e proclamano che si facciano per esercitare la gioventù e diminuire la pigrizia. Ma quando uno tra i capi ha detto in assemblea che sarà comandante (d’una spedizione) e quelli che vogliono seguirlo lo dichiarino, si alzano quelli che approvano la causa e la persona e promettono il loro aiuto e sono approvati dalla folla; quelli tra loro che non l’anno seguito sono considerati nel novero dei disertori e traditori, ed in seguito a questi è tolta il credito di tutte le cose. Credono sacrilego violare l’ospite; quelli che per qualunque motivo sono arrivati da loro, li difendono da danno e li considerano sacri, per questi le case di tutti sono aperte e viene condiviso il vitto.

De Bello Gallico, VII, 70 (“La cavalleria germanica sconfigge i Galli”)

Opere instituto fit equestre proelium in ea planitie, quam intermissam collibus tria milia passuum in longitudinem patere supra demonstravimus. Summa vi ab utrisque contenditur. Laborantibus nostris Caesar Germanos summittit legionesque pro castris constituit, ne qua subito irruptio ab hostium peditatu fiat. Praesidio legionum addito nostris animus augetur: hostes in fugam coniecti se ipsi multitudine impediunt atque angustioribus portis relictis coacervantur. Germani acrius usque ad munitiones sequuntur. Fit magna caedes: nonnulli relictis equis fossam transire et maceriam transcendere conantur. Paulum legiones Caesar quas pro vallo constituerat promoveri iubet. Non minus qui intra munitiones erant perturbantur Galli: veniri ad se confestim existimantes ad arma conclamant; nonnulli perterriti in oppidum irrumpunt. Vercingetorix iubet portas claudi, ne castra nudentur. Multis interfectis, compluribus equis captis Germani sese recipiunt.

Quando i lavori erano già iniziati, le cavallerie vengono a battaglia nella pianura che si stendeva tra i colli per tre miglia di lunghezza, come abbiamo illustrato. Si combatte con accanimento da entrambe le parti. In aiuto dei nostri in difficoltà, Cesare invia i Germani e schiera le legioni di fronte all’accampamento, per impedire un attacco improvviso della fanteria nemica. Il presidio delle legioni infonde coraggio ai nostri. I nemici sono messi in fuga: numerosi com’erano, si intralciano e si accalcano a causa delle porte, costruite troppo strette. I Germani li inseguono con maggior veemenza fino alle fortificazioni. Ne fanno strage: alcuni smontano da cavallo e tentano di superare la fossa e di scalare il muro. Alle legioni schierate davanti al vallo Cesare ordina di avanzare leggermente. Un panico non minore prende i Galli all’interno delle fortificazioni: pensano a un attacco imminente, gridano di correre alle armi. Alcuni, sconvolti dal terrore, si precipitano in città. Vercingetorige comanda di chiudere le porte, perché l’accampamento non rimanesse sguarnito. Dopo aver ucciso molti nemici e catturato parecchi cavalli, i Germani ripiegano.

“Prudenza di un luogotenente di Cesare”

Dum haec in Venetis geruntur, Q. Titurius Sabinus cum iis copiis, quas a Caesare acceperat, in fines Unellorum pervenit. His praeerat Viridovix ac summam imperii tenebat earum omnium civitatum, quae defecerant, ex quibus exercitum magnasque copias coegerat; atque his paucis diebus Aulerci Eburovices Lexoviique senatu suo interfecto, quod auctores belli esse nolebant, portas
clauserunt seseque cum Viridovice coniunxerunt. Magnaque praeterea multitudo undique ex Gallia perditorum hominum latronumque convenerat, quos spes praedandi studiumque bellandi ab agri cultura et cotidiano labore revocabat. Sabinus idoneo omnibus rebus loco castris se tenebat, cum Viridovix contra eum duorum milium spatio consedisset cotidieque productis copiis pugnandi potestatem faceret, ut iam non solum hostibus in contemptionem Sabinus veniret, sed etiam nostrorum militum vocibus nonnihil carperetur; tantamque opinionem timoris praebuit, ut iam ad vallum castrorum hostes accedere auderent. Id ea de causa faciebat quod cum tanta multitudine hostium, praesertim eo absente qui summam imperii teneret, nisi aequo loco aut opportunitate aliqua data legato dimicandum non existimabat.

Mentre si compivano queste cose contri i Veneti, Q. Titurio Sabino con quelle truppe, che aveva ricevuto da Cesare, giunse nei territori degli Unelli.Era loro capo Virodovice e teneva il controllo del potere di rutte quelle nazioni, che s’erano ribellate, tra le quali aveva radunato un esercito e grandi truppe;ma dopo pochi giorni, Aulirci, Eburovici e Lessovi, ucciso il loro senato, perché non volevano essere iniziatori della guerra, chiusero le porte e si unirono con Virodovice.Inoltre da ogni darte dalla Galli si era raccolta una gran massa di personaggi perduti e predoni, che una speranza di far bottino ed una voglia di combattere distoglieva dall’afgricoltura e dalla fatica quotidiana.Sabino si manteneva negli accampamenti in posizione favorevole per tutte le situazioni, mentre Virodovice si era insediato contro di lui alla distanza di due miglia e quotidianamente fatte avanzare le truppe offriva la possibilità di combattere, tanto che Sabino non solo per i nemici arrivava al disprezzo, ma qualcosa si poteva cogliere anche dalle frasi dei nostri soldati; ed offri una così grande convinzione di paura, che ormai i nemici osavano avvicinarsi alla palizzata deglia accampamenti. Faceva ciò per tale motivo, perché con una massa così grande di nemici, soprattutto essendo assente colui che deteneva il supremo comando, il legato non riteneva di scontrarsi se non in posizione favorevole o per una qualche opportunità offertasi.

“Cesare attraversa il Reno con l’esercito”

Caesar, bello Belgico confecto, statuit rhenum transire, ut germanis metum iniceret, qui cum gallis contra romanosbellum gesserant. Sed trans flumen exercitum traicere non tutum esse putabat. Etsi pontis aedificatio summam difficultatem proponebat, propter latitudinem, rapiditatem, altitudinemque fluminis, immane opus aedificare Romanus dux instituit decemque diebus effecit. Exercitu autem transducto, ad utramque partem pontis firmo praesidio relicto, in fines Sugambrorum contendit, qui ex omnibus Germanis infestissimi romanis erant. Tum a multis civitatibus ad eum legati venerunt, quibus pacem atque amicitiam petentibus liberaliter Caesar respondit. At Sugambri, fuga comparata, e finibus suis excesserant suaque omnia exportaverant. Romanorum dux autem, post paucos dies, omnibus vicis incensis frumentisque succisis, diebus X et VIII trans Rhenum consumptis, omnibus rebus confectis quarum causa transducere exercitum constituerat, se in Galliam satisfactus recepit et pontem rescidit.

Cesare, conclusa la guerra contro i Belgi, decise di attraversare il Reno per incutere timore ai Germani, che avevano fatto la guerra insieme ai Galli contro i Romani. Ma non riteneva fosse sicuro traghettare l’esercito al di là del fiume. Anche se la costruzione di un ponte presentava grandissima difficoltà, a causa della larghezza, della forza della corrente, della profondità del fiume, il condottiero Romano intraprese l’impresa immane e in dieci giorni la concluse. Condotto poi l’esercito al di là (del fiume), lasciato un robusto presidio ad entrambe le parti del ponte, mosse verso il territorio dei Sigambri, che fra tutti i Germani erano i più ostili ai Romani. Allora da molte città vennero a lui ambasciatori che chiedevano pace ed amicizia, ai quali rispose con generosità. Ma i Sigambri, preparata la fuga, erano usciti dai loro territori ed avevano portato con sé tutte le loro cose. Il condottiero dei Romani però, dopo pochi giorni, dati alle fiamme tutti i villaggi e reciso tutto il frumento, dopo avere trascorso diciotto giorni al di là del Reno, portate a termine tutte le operazioni per le quali aveva preso la decisione di far passare al di là l’esercito, soddisfatto si ritirò in Gallia e tagliò il ponte.

“Cesare contro gli Elvezi”

Flumen Arar per fines Aeduorum et Sequanorum in Rhodanum influit mira lenitate. Ararim Helvetii ratibus ac lintribus iunctis transibant. Tres partes copiarum Helvetii trans flumen traducunt, quartam fere partem citra flumen Ararim reliquunt. Cum Caesar per exploratores factum cognoscit, e castris discedit, ad quartam Helvetiorum partem pervenit et hostium magnum numerum concidit. Reliqui fuga salutem petunt atque in propinquas silvas recedunt.

Il fiume Arari sfocia attraverso i territori degli Edui e dei Sequani nel Rodano con straordinaria lentezza. Gli Elvezi attraversavano l’Arari con zattere e barche. Tre parti delle truppe elvetiche passano al di là del fiume, la quarta parte circa rimane al di qua del fiume Arari. Quando Cesare conosce il fatto grazie agli esploratori, parte dell’accampamento, giunge al quarto gruppo degli Elvezi e massacra un gran numero di nemici. Gli altri cercano salvezza con la fuga e si ritirano nella vicina foresta.

“Due ufficiali disonesti”

Erant apud Caesarem in equitum numero duo Allobroges frates, Rucillus et Egus, singularis virtutis homines. Eorum opera, optima fortissimaque, Caesari omnibus Gallicis bellis utilissima fuerat. Eis domi ob has causas amplissimos magistratus mandaverat agosque in Gallia ex hostium praeda praemiaque rei pecuniarie magna tribuerat locupletesque eos fecerat. Hi, propter suam virtutem, non solum apud Caesarem in honore erat, sed etiam eius exercitui cari erant. Sed, freti amicitia Caesaris et sua stulta ac barbara arrogantia elati, despiciebant suos commilitones stipendiumque eorum fraudabant et praedam omnem sibi avertebant. Cum haecanimadvertissent eorum equites, universi ad Caesarem venerunt palamque de eorum iniuriis questi sunt. Hoc etiam verbis suis addiderunt: “Falsum numerum equitum tibi deferunt, ut sibi nostra stipendia avertant”. Caesar, cum illud tempus non opportunum ad animadversionem putaret, ut animos eorum sibi adiunctos teneret, ad aliud tempus rem totam distulit; sed eos secrete castigavit monuitque ut ex sua amicitia omnia bona, ex ira maximas poenas expectarent.

Vi erano presso Cesare, nella sua cavalleria, due fratelli Allobrogi, Roucillo ed Eco, uomini di singolare valore, la cui opera, eccellente e valorosissima, era stata assai utile a Cesare durante tutte le guerre galliche. A costoro in patria, per questi motivi, aveva fatto affidare cariche molto importanti e li aveva, eccezionalmente, fatti eleggere senatori; aveva dato loro in Gallia terreni sottratti ai nemici e grandi premi in denaro, facendoli, da poveri che erano, ricchi. Costoro, per il loro valore, erano non solo stimati da Cesare, ma anche considerati dall’esercito; ma, fiduciosi dell’amicizia di Cesare e trascinati da una stolta arroganza tipica dei barbari, disprezzavano i loro compagni, defraudavano la paga dei cavalieri e sottraevano tutto il bottino per mandarlo a casa. Avendo saputo queste cose, tutti i loro soldati vennero da Cesare e si lamentarono per le loro offese. Aggiunsero con le loro parole questo: “Ti riferiscono un falso numero di cavalieri per portarsi a casa i nostri stipendi”. Cesare, non considerando quello il tempo opportuno per la punizione, per tenere legati a sè gli animi di quelli, rimandò la cosa ad altro tempo, ma segretamente li punì e ammonì che dalla sua amicizia aspettavano tutti i beni, dalla sua ira grandi pene.

“I Romani in gravi difficoltà”

Caesar, cum ad dextrum cornu pervenisset, suos urgeri a gallis vidit, signis in unum locum adductis, quartae cohortis omnibus centurionibus occisis, signo amisso, primipilo P. Sextio Baculo fortissimo viro, multis gravibusque vulneribus confecto. Ubi animadvertit multos suos milites tardiores esse et nonnullos, deserto proelio, loco excedere ut tela vitarent, scuto uni militi detracto, quod ipse sine scuto in pugnam venerat, suorum omnium animos confirmavit. Postea Caesar signa inferre et manipulos laxare iussit. Ducis adventu spe reddita militibus ac redintegrato animo, omnes milites suam virtutem ostendere optabant in imperatoris conspectu etiam in extremis suis rebus, itaque paulum hostium impetus tardatus est.

Cesare, terminato il suo discorso alla decima legione, si diresse verso l’ala destra, dove vide che i suoi erano alle strette e che i soldati della dodicesima legione, vicini l’uno all’altro, si impacciavano a vicenda, perché le insegne erano state raccolte in un sol luogo; tutti i centurioni e un vessillifero della quarta coorte erano caduti, il vessillo perduto, quasi tutti i centurioni delle altre coorti morti o feriti; tra di essi il primipilo P. Sestio Baculo, soldato di grandissimo valore, non riusciva più a reggersi in piedi, sfinito com’era dalle numerose e gravi ferite; gli altri andavano esaurendo le forze e alcuni della retroguardia, rimasti senza comandanti, lasciavano la mischia e si sottraevano ai colpi; il nemico non cessava di avanzare dal basso frontalmente e di premere dai lati. Quando vide che la situazione era critica e che non aveva truppe di rincalzo, prese lo scudo a un soldato della retroguardia (perché era giunto fin lì senza), avanzò in prima linea, si rivolse ai centurioni chiamandoli per nome, uno per uno, arringò i soldati e diede l’ordine di muovere all’attacco e di allargare i manipoli, perché i nostri potessero usare le spade con maggior facilità. Il suo arrivo infuse fiducia nei soldati e restituì loro il coraggio: ciascuno, pur in una situazione di estremo pericolo, voleva dar prova di valore agli occhi del comandante, per cui l’impeto dei nemici per un po’ venne frenato.

“Bilancio dopo la battaglia di Farsalo”

In eo proelio Caesar non amplius ducentos milites desideravit, sed centuriones, fortes viros, circiter triginta amisit. Interfectus est etiam, fortissime pugnans, Crastinus, gladio in os adversum coniecto. Neque id fuit falsum quod ille centurio in pugnam proficiscens dixerat. Nam, Caesarem respiciens, se facturum esse promiserat ut imperator sibi aut vivo aut mortuo gratias ageret. Ex Pompeiano exercitu circiter milia quindecim cecidisse dicebantur, sed amplius viginti quattuor milia in deditionem venerunt. At Lucius Domitius,cum eius victoris arbitrio se dedere nollet,ex castris in montem refugit; ibi vero, cum vires eum lassitudine defecissent, ab equitibus Caesaris est interfectus.
Pompeius autem, cum aciem suam iam inclinatam vidisset, equo invectus ad mare advolavit; ibique Lesbum transvehi iussit, in Aegyptum traiecturus.

In quel combattimento Cesare non desiderò più di duecento soldati, ma perse centurioni, uomini forti, circa trecento. Fu ucciso anche, combattendo fortissimamente, Crastino, colpito al volto con la spada. E non questo fu falso perchè quello aveva detto questo al centurione andando in battaglia. Infatti, guardando Cesare, aveva promesso che lui stesso avrebbe fatto in modo che il generale gli rendesse grazie o da vivo o da morto. Si diceva che dell’esercito pompeiano erano caduti circa quindicimila, ma ne vennero di più di ventiquattromila alla resa. Ma Lucio Domizio, non volendo concedersi all’arbitrio del suo vincitore, scappò dall’accampamento al monte: qui in vero, mancandogli le forze per la stanchezza, fu ucciso dai cavalieri di Cesare. Pompeo tuttavia, avendo visto che la sua schiera era piegata, salito a cavallo si diresse verso il mare, e qui ordinò che fosse condotto a Lesbo, per poi dirigersi in Egitto.

“Gli inizi della guerra gallica”

Caesari nuntiatur Helvetiis esse in animo per agrum Sequanorum et Haeduorum iter in Santonum fines facere, qui non longe a Tolosatium finibus absunt, quae civitas est in provincia. Id putabat magnum periculum provinciae futurum esse, quia homines bellicosos, populi Romani inimicos, locis patentibus maximeque frumentariis finitimos habebat. Ob eas causas ei munitioni, quam fecerat, T. Labienum legatum praefecit; Caesar in Italiam magnis itineribus contendit duasque ibi legiones conscribit et tres, quae circum Aquileiam hiemabant, ex hibernis educit et, qua proximum iter in ulteriorem Galliam per Alpes erat, cum eis quinque legionibus contendit.

A Cesare venne riferito che gli Elvezi avevano intenzione di passare, attraverso le terre dei Sequani e degli Edui, nella regione dei Santoni, confinanti con i Tolosati, popolo compreso nella Provincia. Capiva che, se ciò fosse avvenuto, sarebbe stato molto pericoloso per la Provincia avere per vicini, in regioni piane e fertilissime, genti bellicose e nemiche dei Romani. Per questa ragione diede al legato T. Labieno il comando della linea fortificata che aveva costruito e a grandi giornate tornò in Italia, vi arruolò due legioni, fece uscire dai quartieri d’inverno le tre che erano nei pressi di Aquileia, e con queste cinque legioni ritornò in Gallia, passando per la strada più breve, attraverso le Alpi.

De Bello Gallico, VI, 22

Agriculturae non student, maiorque pars eorum victus in lacte, caseo, carne consistit. Neque quisquam agri modum certum aut fines habet proprios; sed magistratus ac principes in annos singulos gentibus cognationibusque hominum, qui una coierunt, quantum et quo loco visum est agri attribuunt atque anno post alio transire cogunt. Eius rei multas adferunt causas: ne adsidua consuetudine capti studium belli gerendi agricultura commutent; ne latos fines parare studeant, potentioresque humiliores possessionibus expellant; ne accuratius ad frigora atque aestus vitandos aedificent; ne qua oriatur pecuniae cupiditas, qua ex re factiones dissensionesque nascuntur; ut animi aequitate plebem contineant, cum suas quisque opes cum potentissimis aequari videat.

Non si occupano della coltivazione dei campi, la maggior parte del loro vitto consiste in latte, formaggio e carne. E nessuno ha una determinata estensione di terreno o terre proprie, ma i magistrati e i capi attribuiscono di anno in anno la quantità di terreno e nel luogo in cui sembra opportuno alle famiglie e alle parentele degli uomini che vivono insieme, e dopo un anno li obbligano a trasferirsi altrove. Adducono molte ragioni di questa usanza: affinché, presi dalla lunga abitudine, non sostituiscano l’agricoltura al desiderio di fare guerra; affinché non desiderino procurarsi campi vasti e i più potenti non scaccino dai possedimenti i più deboli; affinché non costruiscano le case con troppa cura per evitare il freddo e il caldo; affinché non sorga alcuna brama di denaro, motivo per cui nascono fazioni e dissensi; affinché trattengano la plebe con equanimità dato che ciascuno vede che le sue ricchezze sono uguali a quelle dei più facoltosi.

De Bello Gallico, IV, 25

Quod ubi Caesar animadvertit, naves longas, quarum et species erat barbaris inusitatior et motus ad usum expeditior, paulum removeri ab onerariis navibus et remis incitari et ad latus apertum hostium constitui atque inde fundis, sagittis, tormentis hostes propelli ac submoveri iussit; quae res magno usui nostris fuit. Nam et navium figura et remorum motu et inusitato genere tormentorum permoti barbari constiterunt ac paulum modo pedem rettulerunt. Atque nostris militibus cunctantibus, maxime propter altitudinem maris, qui X legionis aquilam gerebat, obtestatus deos, ut ea res legioni feliciter eveniret, “desilite”, inquit, “milites, nisi vultis aquilam hostibus prodere; ego certe meum rei publicae atque imperatori officium praestitero”. Hoc cum voce magna dixisset, se ex navi proiecit atque in hostes aquilam ferre coepit. Tum nostri cohortati inter se, ne tantum dedecus admitteretur, universi ex navi desiluerunt. Hos item ex proximis primi navibus cum conspexissent, subsecuti hostibus adpropinquaverunt.

Quando se ne accorse, Cesare ordinò che le navi da guerra, di forma inconsueta per i barbari e facilmente manovrabili, si staccassero un po’ dalle imbarcazioni da carico e, accelerando a forza di remi, si disponessero sul fianco destro del nemico e, da qui, azionassero le fionde, gli archi, le macchine da lancio per costringere gli avversari alla ritirata. La manovra si rivelò molto utile. Infatti, i barbari, scossi dalla forma delle navi, dal movimento dei remi e dall’insolito genere di macchine da lancio, si arrestarono e ripiegarono leggermente. Ma, visto che i nostri soldati, soprattutto per la profondità dell’acqua, esitavano, l’aquilifero della decima legione, dopo aver pregato gli dèi di dare felice esito all’impresa, gridò: “Saltate giù, commilitoni, se non volete consegnare l’aquila al nemico: io, per parte mia, avrò fatto il mio dovere verso la repubblica e il comandante”. Lo disse a gran voce, poi saltò giù dalla nave e cominciò a correre contro i nemici. Allora i nostri, vicendevolmente spronandosi a non permettere un’onta così grave, saltarono giù dalla nave, tutti quanti. Anche i soldati delle navi vicine, come li videro, li seguirono e avanzarono contro i nemici.

De Bello Gallico, IV, 16 (“Cesare progetta il passaggio del Reno”)

Germanico bello confecto multis de causis Caesar statuit sibi Rhenum esse transeundum; quarum illa fuit iustissima quod, cum videret Germanos tam facile impelli ut in Galliam venirent, suis quoque rebus eos timere voluit, cum intellegerent et posse et audere populi Romani exercitum Rhenum transire. Accessit etiam quod illa pars equitatus Usipetum et Tencterorum, quam supra commemoravi praedandi frumentandi causa Mosam transisse neque proelio interfuisse, post fugam suorum se trans Rhenum in fines Sugambrorum receperat seque cum his coniunxerat. Ad quos cum Caesar nuntios misisset, qui postularent eos qui sibi Galliae bellum intulissent sibi dederent, responderunt: populi Romani imperium Rhenum finire; si se invito Germanos in Galliam transire non aequum existimaret, cur sui quicquam esse imperii aut potestatis trans Rhenum postularet? Ubii autem, qui uni ex Transrhenanis ad Caesarem legatos miserant, amicitiam fecerant, obsides dederant, magnopere orabant ut sibi auxilium ferret, quod graviter ab Suebis premerentur; vel, si id facere occupationibus rei publicae prohiberetur, exercitum modo Rhenum transportaret: id sibi ad auxilium spemque reliqui temporis satis futurum. Tantum esse nomen atque opinionem eius exercitus Ariovisto pulso et hoc novissimo proelio facto etiam ad ultimas Germanorum nationes, uti opinione et amicitia populi Romani tuti esse possint. Navium magnam copiam ad transportandum exercitum pollicebantur.

Terminata la guerra con i Germani, Cesare decise che doveva varcare il Reno, per molte ragioni, di cui una importantissima: vedendo con quale facilità i Germani tendevano a passare in Gallia, voleva che nutrissero timore anche per il proprio paese, quando si fossero resi conto che l’esercito del popolo romano poteva e osava oltrepassare il Reno. Si aggiungeva un’altra considerazione: la parte della cavalleria degli Usipeti e dei Tenteri che, come abbiamo detto, attraversata la Mosa a scopo di razzia e in cerca di grano, non aveva partecipato alla battaglia, dopo la fuga dei suoi si era rifugiata al di là del Reno, nelle terre dei Sigambri, unendosi a essi. Cesare, per chiedere la consegna di chi aveva mosso guerra a lui e alla Gallia, mandò suoi emissari ai Sigambri, che così risposero: il Reno segnava i confini del dominio di Roma; se egli riteneva ingiusto che i Germani, contro il suo volere, passassero in Gallia, perché pretendeva di aver dominio o potere al di là del Reno? Gli Ubi, poi, l’unico popolo d’oltre Reno che avesse inviato a Cesare emissari, stringendo alleanza e consegnando ostaggi, lo scongiuravano di intervenire in loro aiuto perché incombevano su di loro, pesantemente, gli Svevi; oppure, se ne era impedito dagli affari di stato, lo pregavano, almeno, di condurre l’esercito al di là del Reno: sarebbe stato un ausilio sufficiente per il presente e una speranza per il futuro. Il nome e la fama dell’esercito romano, dopo la vittoria su Ariovisto e il recentissimo successo, aveva raggiunto anche le più lontane genti germane: considerati alleati del popolo romano, gli Ubi sarebbero stati al sicuro. Promettevano una flotta numerosa per trasportare l’esercito.

De Bello Gallico, II, 25

Caesar ab X. legionis cohortatione ad dextrum cornu profectus, ubi suos urgeri signisque in unum locum conlatis XII. legionis confertos milites sibi ipsos ad pugnam esse impedimento vidit, quartae cohortis omnibus centurionibus occisis signiferoque interfecto, signo amisso, reliquarum cohortium omnibus fere centurionibus aut vulneratis aut occisis, in his primipilo P. Sextio Baculo, fortissimo viro, multis gravibusque vulneribus confecto, ut iam se sustinere non posset, reliquos esse tardiores et non nullos ab novissimis deserto loco proelio excedere ac tela vitare, hostes neque a fronte ex inferiore loco subeuntes intermittere et ab utroque latere instare et rem esse in angusto vidit, neque ullum esse subsidium quod submitti posset, scuto ab novissimis [uni] militi detracto, quod ipse eo sine scuto venerat, in primam aciem processit centurionibusque nominatim appellatis reliquos cohortatus milites signa inferre et manipulos laxare iussit, quo facilius gladiis uti possent. Cuius adventu spe inlata militibus ac redintegrato animo, cum pro se quisque in conspectu imperatoris etiam in extremis suis rebus operam navare cuperet, paulum hostium impetus tardatus est.

Cesare, terminato il suo discorso alla decima legione, si diresse verso l’ala destra, dove vide che i suoi erano alle strette e che i soldati della dodicesima legione, vicini l’uno all’altro, si impacciavano a vicenda, perché le insegne erano state raccolte in un sol luogo; tutti i centurioni e un vessillifero della quarta coorte erano caduti, il vessillo perduto, quasi tutti i centurioni delle altre coorti morti o feriti; tra di essi il primipilo P. Sestio Baculo, soldato di grandissimo valore, non riusciva più a reggersi in piedi, sfinito com’era dalle numerose e gravi ferite; gli altri andavano esaurendo le forze e alcuni della retroguardia, rimasti senza comandanti, lasciavano la mischia e si sottraevano ai colpi; il nemico non cessava di avanzare dal basso frontalmente e di premere dai lati. Quando vide che la situazione era critica e che non aveva truppe di rincalzo, prese lo scudo a un soldato della retroguardia (perché era giunto fin lì senza), avanzò in prima linea, si rivolse ai centurioni chiamandoli per nome, uno per uno, arringò i soldati e diede l’ordine di muovere all’attacco e di allargare i manipoli, perché i nostri potessero usare le spade con maggior facilità. Il suo arrivo infuse fiducia nei soldati e restituì loro il coraggio: ciascuno, pur in una situazione di estremo pericolo, voleva dar prova di valore agli occhi del comandante, per cui l’impeto dei nemici per un po’ venne frenato.

“Cesare previene Pompeo a Durazzo”

Caesar eadem celeritate, qua solebat, usus, saepe conatus est ad pugnam Pompeium provocare, qui autem ne minima quidem audebat. Cum exercitu profectus, expugnato in itinere oppido Parthinorum, tertio die ad Pompeium pervenit iuxtaque eum castra posuit et postridie, omnibus eductis copiis, acie instructa, Pompeio potestatem decernendi fecit. Ubi illum suis locis se tenere animadvertit, reducto in castra exercitu, aliud consilium cepit ut cum Pompeio decerneret. Itaque postero die cum omnibus copiis Dyrrachium profectus est. Pompeius, Caesaris consilium ignorans, putabat eum discessisse rei frumentariae inopia compulsum; postea certior per exploratores factus, castra movit, breviore itinere se ei occurrere posse sperans. Quod fore suspicatus, Caesar, parva parte noctis itinere intermisso, mane Dyrrachium pervenit, dum primum agmen Pompei procul cernitur.

Cesare si servì della stessa velocità che gli era solita e spesso cercò di provocare allo scontro Pompeo, che tuttavia non si arrischiava minimamente. Partito con l’esercito, espugnata nell’itinerario la città dei Parti, nel terzo giorno giunse da Pompeo e pose accanto a quello l’accampamento e il giorno dopo, condotte fuori tutte le truppe, preparata la schiera, rese a Pompeo il potere di combattere. Quando capì che quello si tratteneva nei suoi luoghi, riportato l’esercito nell’accampamento, presa un’altra decisione affinchè si scontrasse con Pompeo. E così l’ultimo giorno partì per Durazzo con tutte le truppe. Pompeo, ignorando il piano di Cesare, riteneva che quello si allontanasse spinto dalla mancanza di viveri, dopo reso più certo dagli esploratori, mosse l’accampamento, sperando di poter imbattersi con quello nel breve itinerario, di mattina giunse a Durazzo, mentre da lontano si vedeva la schiera di Pompeo.

De Bello Gallico, IV, 27

Hostes proelio superati, simul atque se ex fuga receperunt, statim ad Caesarem legatos de pace miserunt; obsides sese daturos quaeque imperasset facturos polliciti sunt. Una cum his legatis Commius Atrebas venit, quem supra demonstraveram a Caesare in Britanniam praemissum. Hunc illi e navi egressum, cum ad eos oratoris modo Caesaris mandata deferret, comprehenderant atque in vincula coniecerant; tum proelio facto remiserunt et in petenda pace eius rei culpam in multitudinem contulerunt et propter imprudentiam ut ignosceretur petiverunt. Caesar questus quod, cum ultro in continentem legatis missis pacem ab se petissent, bellum sine causa intulissent, ignoscere se imprudentiae dixit obsidesque imperavit; quorum illi partem statim dederunt, partem ex longinquioribus locis arcessitam paucis diebus sese daturos dixerunt. Interea suos in agros remigrare iusserunt, principesque undique convenire et se civitatesque suas Caesari commendare coeperunt.

I nemici, vinti in battaglia, non appena si riebbero dall’affanno della fuga, immediatamente inviarono messi a Cesare per offrirgli la resa, promettendo la consegna di ostaggi e il rispetto degli ordini che volesse impartire. Insieme a loro giunse l’atrebate Commio, l’uomo mandato da Cesare in Britannia in avanscoperta, come in precedenza avevo chiarito. Non appena Commio era sceso dalla nave e aveva riferito, come portavoce, le richieste di Cesare, i Britanni lo avevano fatto prigioniero e messo in catene; ora, dopo la battaglia, lo avevano liberato e, nel domandare pace, attribuivano la responsabilità dell’accaduto al popolo, chiedendo di perdonare una colpa dovuta alla leggerezza. Cesare si lamentò che i Britanni, dopo aver spontaneamente inviato ambascerie sul continente per domandare pace, gli avevano poi mosso guerra senza motivo, ma disse che perdonava la loro leggerezza e chiese ostaggi. Una parte venne consegnata immediatamente, altri invece, fatti venire da regioni lontane. li avrebbero consegnati – dissero – entro pochi giorni. Nel frattempo, diedero disposizione ai loro di ritornare alle campagne; i principi di tutte le regioni si riunirono e cominciarono a pregare Cesare di aver riguardo per loro e per i rispettivi popoli.