De Bello Gallico, VIII, 33

Quo cum confestim Gaius Caninius venisset animadverteretque omnes oppidi partes praeruptissimis saxis esse munitas, quo defendente nullo tamen armatis ascendere esset difficile, magna autem impedimenta oppidanorum videret, quae si clandestina fuga subtrahere conarentur, effugere non modo equitatum, sed ne legiones quidem possent, tripertito cohortibus divisis trina excelsissimo loco castra fecit; a quibus paulatim, quantum copiae patiebantur, vallum in oppidi circuitum ducere instituit.

C. Caninio giunge lì in tutta fretta e si accorge che la città, su tutti i lati, era difesa da rocce a picco, di modo che, pur in assenza di difensori, la scalata risultava comunque difficile per degli armati. D’altro canto, vede la quantità di salmerie degli assediati: se i barbari avessero cercato di portarle via di nascosto, non avrebbero potuto sfuggire non dico alla cavalleria, ma neppure alle legioni. Allora divide in tre gruppi le coorti e pone tre distinti campi in un luogo molto elevato. Da qui, a poco a poco, per quanto permetteva il numero delle sue truppe, cominciò a circondare la città con un vallo.

De Bello Gallico, VIII, 32

At Drappes unaque Lucterius, cum legiones Caniniumque adesse cognoscerent nec se sine certa pernicie persequente exercitu putarent provinciae fines intrare posse nec iam libere vagandi latrociniorumque faciendorum facultatem haberent, in finibus consistunt Cadurcorum. Ibi cum Lucterius apud suos cives quondam integris rebus multum potuisset, semperque auctor novorum consiliorum magnam apud barbaros auctoritatem haberet, oppidum Vxellodunum, quod in clientela fuerat eius, egregie natura loci munitum, occupat suis et Drappetis copiis oppidanosque sibi coniungit.

Ma Drappete e Lucterio, appreso l’arrivo di Caninio e delle legioni, convinti di non poter entrare in provincia senza andar incontro a una sicura disfatta – tanto più che li inseguiva l’esercito romano – e di non aver più la libera possibilità di spostarsi e di compiere razzie, si fermano nei territori dei Cadurci. Un tempo, quando le cose erano tranquille, Lucterio aveva presso i suoi concittadini grande potere e anche adesso, instancabile fautore di piani di rivolta, godeva tra i barbari di grande autorità. Perciò, con i soldati suoi e di Drappete, occupa la città di Uxelloduno, molto ben protetta per posizione e che era già stata in passato sotto la sua tutela, e guadagna alla sua causa gli abitanti.

De Bello Gallico, VIII, 31

Gaius Fabius cum reliquo exercitu in Carnutes ceterasque proficiscitur civitates, quarum eo proelio, quod cum Dumnaco fecerat, copias esse accisas sciebat. Non enim dubitabat quin recenti calamitate summissiores essent futurae, dato vero spatio ac tempore eodem instigante Dumnaco possent concitari. Qua in re summa felicitas celeritasque in recipiendis civitatibus Fabium consequitur. Nam Carnutes, qui saepe vexati numquam pacis fecerant mentionem, datis obsidibus veniunt in deditionem, ceteraeque civitates positae in ultimis Galliae finibus Oceano coniunctae, quae Armoricae appellantur, auctoritate adductae Carnutum adventu Fabi legio numque imperata sine mora faciunt. Dumnacus suis finibus expulsus errans latitansque solus extremas Galliae regiones petere est coactus.

C. Fabio, con il resto delle truppe, si dirige verso i Carnuti e gli altri popoli, perché sapeva che le loro truppe avevano registrato gravi perdite nella battaglia da lui combattuta contro Dumnaco. Non dubitava che dopo la recente disfatta avrebbero abbassato la testa; ma passato un certo periodo di tempo, avrebbero anche potuto riprendere la rivolta per istigazione dello stesso Dumnaco. Nella circostanza C. Fabio agisce con la più felice e rapida prontezza nel sottomettere i vari popoli. I Carnuti, che nonostante i ripetuti rovesci non avevano mai chiesto pace, adesso gli consegnano ostaggi e si arrendono; le altre genti, stanziate nelle regioni più lontane della Gallia, che si affacciano sull’Oceano e si chiamano aremoriche, indotte dal prestigio dei Carnuti, obbediscono agli ordini senza frapporre indugi, appena arriva C. Fabio con le legioni. Dumnaco, cacciato dalle sue terre, è costretto a vagare, solo e nascosto, e a dirigersi verso le regioni estreme della Gallia.

De Bello Gallico, VIII, 30

Qua ex fuga cum constaret Drappetem Senonem, qui, ut primum defecerat Gallia, collectis undique perditis hominibus, servis ad libertatem vocatis, exulibus omnium civitatum adscitis, receptis latronibus impedimenta et commeatus Romanorum interceperat, non amplius hominum duobus milibus ex fuga collectis provinciam petere unaque consilium cum eo Lucterium Cadurcum cepisse, quem superiore commentario prima defectione Galliae facere in provinciam voluisse impetum cognitum est, Caninius legatus cum legionibus duabus ad eos persequendos contendit, ne detrimento aut timore provinciae magna infamia perditorum hominum latrociniis caperetur.

Si viene a sapere che, dopo la fuga, il senone Drappete aveva raccolto non più di duemila fuggiaschi e puntava contro la provincia (costui, all’inizio dell’insurrezione in Gallia, aveva raccattato dovunque dei furfanti, spinto gli schiavi alla libertà, chiamato a sé gli esuli di tutte le genti, riuscendo poi, con razzie improvvise, a intercettare le salmerie e i rifornimenti dei Romani). Con lui aveva preso l’iniziativa il cadurco Lucterio, che all’inizio della defezione della Gallia aveva deciso di attaccare la provincia, come sappiamo dal precedente commentario. Il legato Caninio, alla testa di due legioni, parte al loro inseguimento, per evitare che, per via dei danni o dei timori nutriti dalla provincia, su di noi ricadesse grave onta per le scorrerie di un gruppo di criminali.

De Bello Gallico, VIII, 3

Repentino adventu Caesaris accidit, quod imparatis disiectisque accidere fuit necesse, ut sine timore ullo rura colentes prius ab equitatu opprimerentur quam confugere in oppida possent. Namque etiam illud vulgare incursionis hostium signum, quod incendiis aedificiorum intellegi consuevit, Caesaris erat interdicto sublatum, ne aut copia pabuli frumentique, si longius progredi vellet, deficeretur, aut hostes incendius terrerentur. Multis hominum milibus captis perterriti Bituriges; qui primum adventum potuerant effugere Romanorum, in finitimas civitates aut privatis hospitiis confisi aut societate consiliorum confugerant. Frustra: nam Caesar magni sitineribus omnibus locis occurrit nec dat ulli civitati spatium de aliena potius quam de domestica salute cogitandi; qua celeritate et fideles amicos retinebat et dubitantes terrore ad condiciones pacis adducebat. Tali condicione proposita Bituriges, cum sibi viderent clementia Caesaris reditum patere in eius amicitiam finitimasque civitates sine ulla poena dedisse obsides atque in fidem receptas esse, idem fecerunt.

Al repentino arrivo di Cesare accadde l’inevitabile per gente colta alla sprovvista e sparpagliata: mentre i nemici, senza timore alcuno, attendevano ai lavori nei campi, vennero sopraffatti dalla cavalleria prima di potersi rifugiare nelle città. Infatti, per ordine di Cesare, era stato eliminato anche l’indizio più comune di un’incursione nemica, ovvero il fuoco appiccato agli edifici, sia perché in caso di ulteriore avanzata non venissero a mancare foraggio e grano, sia perché i nemici non fossero messi in allarme dagli incendi stessi. Dopo la cattura di molte migliaia di uomini, chi tra i Biturigi, in preda alla paura, era riuscito a sfuggire al primo attacco dei Romani, era riparato presso i popoli vicini, fidando o in vincoli personali d’ospitalità oppure nell’alleanza comune. Invano: a marce forzate Cesare accorre dappertutto e non lascia a nessun popolo il tempo di pensare alla salvezza altrui più che alla propria. Con la rapidità della sua azione teneva a freno gli alleati fedeli, con il terrore costringeva alla pace i titubanti. Di fronte a tale situazione, i Biturigi, vedendo che la clemenza di Cesare lasciava spazio per un ritorno all’alleanza con lui e che i popoli limitrofi non avevano subito pena alcuna, ma dietro la consegna di ostaggi erano stati accolti sotto la sua protezione, ne seguirono l’esempio.

De Bello Gallico, VIII, 29

Cum aliquamdiu summa contentione dimicaretur, Dumnacus instruit aciem quae suis esset equitibus in vicem praesidio, cum repente confertae legiones in conspectum hostium veniunt. Quibus visis perculsae barbarorum turmae ac perterritae acies hostium, perturbato impedimentorum agmine, magno clamore discursuque passim fugae se mandant. At nostri equites, qui paulo ante cum resistentibus fortissime conflixerant, laetitia victoriae elati magno undique clamore sublato cedentibus circumfusi, quantum equorum vires ad persequendum dextraeque ad caedendum valent, tantum eo proelio interficiunt. Itaque amplius milibus XII aut armatorum aut eorum qui eo timore arma proiecerant interfectis omnis multitudo capitur impedimentorum.

La battaglia proseguiva già da un pezzo, violentissima. Dumnaco schiera in formazione i fanti, in modo che loro e i cavalieri potessero darsi reciproco aiuto. Ma ecco apparire, all’improvviso, le legioni a ranghi serrati. A tale vista gli squadroni nemici sono colti da terrore, si diffonde il panico tra i fanti, lo scompiglio regna tra le salmerie: con alti clamori corrono qua e là, si danno a una fuga disordinata. Allora i nostri cavalieri, che poco prima si erano battuti con estremo valore contro la resistenza degli avversari, trascinati dalla gioia per la vittoria, levano alte grida da ogni parte e circondano i nemici in rotta: finché i cavalli hanno la forza di inseguire e le destre di tirar fendenti, seminano morte. Così, dopo aver ucciso più di dodicimila nemici, che fossero in armi oppure che le avessero gettate per il panico, catturano tutta la colonna delle salmerie.

De Bello Gallico, VIII, 28

Insequenti nocte Fabius equites praemittit sic paratos ut confligerent atque omne agmen morarentur, dum consequeretur ipse. Cuius praeceptis ut res gereretur, Quintus Atius Varus, praefectus equitum, singularis et animi et prudentiae vir, suos hortatur agmenque hostium consecutus turmas partim idoneis locis disponit, parte equitum proelium committit. Confligit audacius equitatus hostium succedentibus sibi peditibus, qui toto agmine subsistentes equitibus suis contra nostros ferunt auxilium. Fit proelium acri certamine. Namque nostri contemptis pridie superatis hostibus, cum subsequi legiones meminissent, et pudore cedendi et cupiditate per se conficiendi proeli fortissime contra pedites proeliantur, hostesque nihil amplius copiarum accessurum credentes, ut pridie cognoverant, delendi equitatus nostri nacti occasionem videbantur.

La notte successiva Fabio manda in avanscoperta i cavalieri, pronti allo scontro e a ritardare la marcia di tutto l’esercito nemico fino all’arrivo di Fabio stesso. Perché le cose procedessero secondo gli ordini, Q. Azio Varo, prefetto della cavalleria, uomo di straordinario coraggio e senno, sprona i suoi e, dopo aver inseguito le schiere nemiche, dispone una parte degli squadroni in zone favorevoli, mentre con il resto attacca battaglia. La cavalleria nemica si batte con particolare audacia, perché a essa subentravano i fanti, che, piazzatisi lungo tutta la colonna, recavano aiuto ai propri cavalieri contro i nostri. Si accende un’aspra battaglia. I nostri, infatti, disprezzavano i nemici già sconfitti il giorno precedente e, ben sapendo che le legioni erano in arrivo, combattevano contro i fanti con straordinario ardore, sia per la vergogna di un’eventuale ritirata, sia per il desiderio di risolvere da soli la battaglia; i nemici, dal canto loro, in base all’esperienza del giorno precedente, credevano che non sarebbero giunte altre truppe romane e pensavano di avere trovato l’occasione per annientare la nostra cavalleria.

De Bello Gallico, VIII, 27

Eodem tempore C. Fabius legatus complures civitates in fidem recipit, obsidibus firmat litterisque Gai Canini Rebili fit certior quae in Pictonibus gerantur. Quibus rebus cognitis proficiscitur ad auxilium Duratio ferendum. At Dumnacus adventu Fabi cognito desperata salute, si tempore eodem coactus esset et Romanum externum sustinere hostem et respicere ac timere oppidanos, repente ex eo loco cum copiis recedit nec se satis tutum fore arbitratur, nisi flumine Ligeri, quod erat ponte propter magnitudinem transeundum, copias traduxisset. Fabius, etsi nondum in conspectum venerat hostibus neque se Caninio coniunxerat, tamen doctus ab eis qui locorum noverant naturam potissimum credidit hostes perterritos eum locum, quem petebant, petituros. Itaque cum copiis ad eundem pontem contendit equitatumque tantum procedere ante agmen imperat legionum, quantum cum processisset, sine defatigatione equorum in eadem se reciperet castra. Consecuntur equites nostri, ut erat praeceptum, invaduntque Dumnaci agmen et fugientes perterritosque sub sarcinis in itinere adgressi magna praeda multis interfectis potiuntur. Ita re bene gesta se recipiunt in castra.

Nello stesso tempo il legato C. Fabio accetta la resa di parecchi popoli, la sancisce mediante ostaggi e viene avvisato di ciò che stava accadendo tra i Pictoni da una lettera di Caninio. A tale notizia, muove in soccorso di Durazio. Appena lo informano dell’arrivo di Fabio, Dumnaco dispera ormai della salvezza, perché avrebbe dovuto, a un tempo, affrontare sia i Romani, sia i rinforzi esterni, nonché sorvegliare e temere gli abitanti di Lemono. Con rapidità, dunque, ripiega con tutte le truppe e pensa di non poter essere abbastanza al sicuro, se non dopo aver condotto l’esercito oltre la Loira, un fiume che, per la sua imponenza, poteva essere varcato solo su ponte. Fabio, anche se non aveva ancora avvistato i nemici, né si era ricongiunto a Caninio, avvalendosi delle informazioni di chi conosceva la natura della zona, ritenne assai probabile che i nemici, atterriti, si sarebbero diretti là, dove effettivamente si stavano dirigendo. Così, con le sue truppe muove verso lo stesso ponte e ordina alla cavalleria di precedere l’esercito, ma a una distanza di marcia tale, che le consentisse il rientro nell’accampamento comune senza affaticare i cavalli. I nostri cavalieri, secondo gli ordini, partono all’inseguimento e si rovesciano sulla schiera di Dumnaco: avendo aggredito i nemici, già in fuga e atterriti, mentre erano ancora carichi di bagagli e in marcia, ne uccidono molti, si impadroniscono di un ricco bottino. Eseguita con successo la missione, rientrano al campo.

De Bello Gallico, VIII, 26

Interim Gaius Caninius legatus, cum magnam multitudinem convenisse hostium in fines Pictonum litteris nuntiisque Durati cognosceret, qui perpetuo in amicitia manserat Romanorum, cum pars quaedam civitatis eius defecisset, ad oppidum Lemonum contendit. Quo cum adventaret atque ex captivis certius cognosceret multis hominum milibus a Dumnaco, duce Andium, Duratium clausum Lemoni oppugnari neque infirmas legiones hostibus committere auderet, castra posuit loco munito. Dumnacus, cum appropinquare Caninium cognosset, copiis omnibus ad legiones conversis castra Romanorum oppugnare instituit. Cum complures dies in oppugnatione consumpsisset et magno suorum detrimento nullam partem munitionum convellere potuisset, rursus ad obsidendum Lemonum redit.

Nel frattempo, grazie a una lettera e ai messi inviati da Durazio – rimasto sempre fedele all’alleanza con i Romani, mentre una parte del suo popolo aveva defezionato – il legato C. Caninio, avvertito che un gran numero di nemici si era raccolto nelle terre dei Pictoni, si dirige alla città di Lemono. Era sul punto di raggiungerla, quando riceve dai prigionieri informazioni più dettagliate: alla testa di molte migliaia di uomini Dumnaco, capo degli Andi, aveva stretto d’assedio Durazio in Lemono. Così, non osando arrischiare in uno scontro coi nemici le sue legioni, troppo deboli, stabilì il campo in una zona ben munita. Dumnaco, saputo dell’arrivo di Caninio, volge tutte le truppe contro le legioni e comincia l’assalto all’accampamento dei Romani. Dopo aver speso diversi giorni nell’attacco, a prezzo di gravi perdite e senza riuscire a far breccia in nessun punto delle fortificazioni, Dumnaco torna ad assediare Lemono.

De Bello Gallico, VIII, 25

Cum in omnes partes finium Ambiorigis aut legiones aut auxilia dimisisset atque omnia caedibus, incendius, rapinis vastasset, magno numero hominum interfecto aut capto Labienum cum duabus legionibus in Treveros mittit, quorum civitas propter Germaniae vicinitatem cotidianis exercitata bellis cultu et feritate non multum a Germanis differebat neque imperata umquam nisi exercitu coacta faciebat.

Dopo aver inviato in ogni angolo del paese di Ambiorige legioni o truppe ausiliarie e aver seminato la desolazione con stragi, incendi, rapine, dopo aver ucciso o catturato un gran numero di uomini, Cesare spedisce Labieno con due legioni nelle terre dei Treveri. I Treveri, per la vicinanza con i Germani, erano abituati a far guerra tutti i giorni; per il loro grado di civiltà e la loro natura selvaggia non erano molto diversi dai Germani stessi e non ubbidivano mai agli ordini, se non costretti da un esercito.

De Bello Gallico, VIII, 24

Bellicosissimis gentibus devictis Caesar, cum videret nullam iam esse civitatem quae bellum pararet quo sibi resisteret, sed nonnullos ex oppidis demigrare, ex agris diffugere ad praesens imperium evitandum, plures in partes exercitum dimittere constituit. M. Antonium quaestorem cum legione duodecima sibi coniungit. C. Fabium legatum cum cohortibus XXV mittit in diversissimam partem Galliae, quod ibi quasdam civitates in armis esse audiebat neque C. Caninium Rebilum legatum, qui in illis regionibus erat, satis firmas duas legiones habere existimabat. Titum Labienum ad se evocat; legionem autem XV, quae cum eo fuerat in hibernis, in togatam Galliam mittit ad colonias civium Romanorum tuendas, ne quod simile incommodum accideret decursione barbarorum ac superiore aestate Tergestinis acciderat, qui repentino latrocinio atque impetu illorum erant oppressi. Ipse ad vastandos depopulandosque fines Ambiorigis proficiscitur; quem perterritum ac fugientem cum redigi posse in suam potestatem desperasset, proximum suae dignitatis esse ducebat, adeo fines eius vastare civibus, aedificiis, pecore, ut odio suorum Ambiorix, si quos fortuna reliquos fecisset, nullum reditum propter tantas calamitates haberet in civitatem.

Dopo aver assoggettato le genti più bellicose, Cesare vide che ormai più nessun popolo preparava la guerra per resistergli e che, anzi, molti lasciavano le città e fuggivano dalle campagne per non sottostare al dominio in atto. Decide, perciò, di inviare l’esercito in diverse zone del paese. Unisce a sé il questore M. Antonio con la dodicesima legione. Con venticinque coorti manda il legato C. Fabio al capo opposto della Gallia, perché gli giungeva notizia che là alcuni popoli erano in armi e stimava insufficiente il presidio delle due legioni agli ordini del legato C. Caninio Rebilo, che si trovava nella zona. Richiama T. Labieno; la quindicesima legione, che aveva svernato con Labieno, la spedisce nella Gallia togata, a difesa delle colonie dei cittadini romani; lo scopo era di evitare guai – dovuti alle scorrerie dei barbari – simili a quelli capitati l’estate precedente ai Tergestini, che erano stati sorpresi da un attacco improvviso e avevano visto saccheggiate le loro terre. Dal canto suo, punta verso la regione di Ambiorige per devastarla e far razzie; disperando di ridurre in suo potere l’uomo – Ambiorige, atterrito, continuava a fuggire – stimava come cosa più confacente alla propria dignità devastarne i territori, con popolazione, case, bestiame: Ambiorige, odiato dai suoi, se la sorte ne avesse risparmiato qualcuno, non avrebbe potuto ritornare nella sua città, dopo le tante sciagure che aveva provocato.

De Bello Gallico, VIII, 23

Nocte insequenti legati responsa ad suos referunt, obsides conficiunt. Concurrunt reliquarum civitatium legati, quae Bellovacorum speculabantur eventum; obsides dant, imperata faciunt excepto Commio, quem timor prohibebat cuiusquam fidei suam committere salutem. Nam superiore anno Titus Labienus, Caesare in Gallia citeriore ius dicente, cum Commium comperisset sollicitare civitates et coniurationem contra Caesarem facere, infidelitatem eius sine ulla perfidia iudicavit comprimi posse. Quem quia non arbitrabatur vocatum in castra venturum, ne temptando cautiorem faceret, Gaium Volusenum Quadratum misit, qui eum per simulationem colloqui curaret interficiendum. Ad eam rem delectos idoneos ei tradit centuriones. Cum in colloquium ventum esset, et, ut convenerat, manum Commi Volusenus arripuisset, centurio vel insueta re permotus vel celeriter a familiaribus prohibitus Commi conficere hominem non potuit; graviter tamen primo ictu gladio caput percussit. Cum utrimque gladii destricti essent, non tam pugnandi quam diffugiendi fuit utrorumque consilium: nostrorum, quod mortifero vulnere Commium credebant adfectum; Gallorum, quod insidius cognitis plura quam videbant extimescebant. Quo facto statuisse Commius dicebatur numquam in conspectum cuiusquam Romani venire.

La notte successiva, gli emissari riferiscono ai loro la risposta di Cesare e si radunano gli ostaggi. Si precipitano da Cesare le legazioni degli altri popoli, che stavano a vedere cosa sarebbe successo ai Bellovaci. Consegnano ostaggi, obbediscono agli ordini, tutti eccetto Commio: la paura gli impediva di mettere la propria vita nelle mani di chicchessia. L’anno precedente, infatti, mentre Cesare si trovava nella Gallia cisalpina per amministrare la giustizia, T. Labieno, avendo saputo che Commio sobillava i popoli e promuoveva una coalizione contro Cesare, pensò che si potesse soffocare il tradimento del Gallo senza venir tacciato di slealtà. Ritenne che Commio non avrebbe risposto a una convocazione all’accampamento; allora, per non renderlo più cauto con un tentativo del genere, inviò C. Voluseno Quadrato dietro pretesto di un colloquio, ma col solo scopo di eliminarIo. Mise a sua disposizione centurioni scelti, adatti al compito. Quando l’abboccamento ebbe luogo e Voluseno, come erano d’accordo, afferrò la mano di Commio, il centurione, o perché turbato dal compito insolito o per il pronto intervento del seguito del Gallo, non riuscì a ucciderlo; tuttavia, con il primo colpo lo ferì gravemente al capo. Le due parti sguainarono le spade, non tanto con l’intenzione di affrontarsi, quanto di fuggire: i nostri credevano che la ferita di Commio fosse mortale, i Galli avevano capito che si trattava di una trappola e temevano che le insidie non si limitassero a quanto avevano visto. Da allora, così almeno si diceva, Commio aveva deciso di non presentarsi mai più al cospetto di un Romano.

De Bello Gallico, VIII, 22

Haec orantibus legatis commemorat Caesar: Eodem tempore superiore anno Bellovacos ceterasque Galliae civitates suscepisse bellum: pertinacissime hos ex omnibus in sententia permansisse neque ad sanitatem reliquorum deditione esse perductos. Scire atque intellegere se causam peccati facillime mortuis delegari. Neminem vero tantum pollere, ut invitis principibus, resistente senatu, omnibus bonis repugnantibus infirma manu plebis bellum concitare et gerere posset. Sed tamen se contentum fore ea poena quam sibi ipsi contraxissent.

Agli emissari che così lo pregavano, Cesare ricorda che nello stesso periodo, l’anno precedente, i Bellovaci e gli altri popoli della Gallia avevano intrapreso la guerra; ma proprio loro, più di tutti, erano rimasti ostinatamente attaccati alla decisione, né la resa degli altri li aveva ricondotti alla ragione. Sapeva e capiva che era assai facile attribuire ai morti la colpa dell’accaduto. Nessuno, però, è così potente da poter provocare e sostenere guerre con il solo, fragile appoggio della plebe, se incontra l’ostilità dei nobili, la resistenza del senato e l’opposizione della gente onesta. Si sarebbe accontentato, tuttavia, della pena che si erano attirati da soli.

De Bello Gallico, VIII, 21

Hoc omnibus probato consilio Commius Atrebas ad eos confugit Germanos, a quibus ad id bellum auxilia mutuatus erat. Ceteri e vestigio mittunt ad Caesarem legatos petuntque, ut ea poena sit contentus hostium, quam si sine dimicatione inferre integris posset, pro sua clementia atque humanitate numquam profecto esset illaturus. Adflictas opes equestri proelio Bellovacorum esse; delectorum peditum multa milia interisse, vix refugisse nuntios caedis. Tamen magnum ut in tanta calamitate Bellovacos eo proelio commodum esse consecutos, quod Correus, auctor belli, concitator multitudinis, esset interfectus. Numquam enim senatum tantum in civitate illo vivo quantum imperitam plebem potuisse.

Poiché tutti approvano la proposta, l’atrebate Commio ripara presso le genti germaniche da cui aveva ricevuto rinforzi per la guerra in corso. Gli altri inviano lì per lì un’ambasceria a Cesare e gli chiedono di accontentarsi, come punizione, dei danni che avevano subito: non l’avrebbe certo mai riservata, nella sua clemenza e umanità, neppure a nemici nel pieno delle forze e ai quali la potesse infliggere senza colpo ferire; le forze di cavalleria dei Bellovaci erano state distrutte; avevano perduto la vita molte migliaia di fanti scelti, a stento si erano salvati i pochi che avevano dato la notizia della strage. Comunque, pur di fronte a una disfatta così grave, dalla battaglia i Bellovaci un vantaggio lo avevano conseguito: Correo, il fautore della guerra, l’agitatore della folla, era morto. Finché lui era in vita, infatti, il senato non aveva mai avuto tanto potere, quanto la plebe ignorante.

De Bello Gallico, VIII, 20

Tali modo re gesta recentibus proeli vestigiis ingressus Caesar, cum victos tanta calamitate existimaret hostes nuntio accepto locum castrorum relicturos, quae non longius ab ea caede abesse plus minus octo milibus dicebantur, tametsi flumine impeditum transitum videbat, tamen exercitu traducto progreditur. At Bellovaci reliquaeque civitates repente ex fuga paucis atque his vulneratis receptis, qui silvarum benefieio casum evitaverant, omnibus adversis, cognita calamitate, interfecto Correo, amisso equitatu et fortissimis pcditibus, cum adventare Romanos existimarent, concilio repente cantu tubarum convocato conclamant, legati obsidesque ad Caesarem mittantur.

Conclusasi così l’operazione, Cesare sopraggiunse mentre erano ancora freschi i segni della battaglia e pensò che i nemici, alla notizia di una tale disfatta, avrebbero spostato il campo, non distante – a quanto si diceva – oltre le otto miglia, più o meno, dal luogo della strage; perciò, nonostante il serio ostacolo rappresentato dal fiume, lo varca con l’esercito e avanza. I Bellovaci e gli altri popoli, intanto, accolgono i fuggiaschi, pochi e per di più feriti, che avevano evitato il peggio grazie alle boscaglie: apprendono che era stata una catastrofe, Correo era morto, la cavalleria e i fanti più valorosi annientati. Convinti che i Romani sarebbero ben presto sopraggiunti, al suono delle trombe radunano rapidamente l’assemblea e chiedono a gran voce di inviare a Cesare emissari e ostaggi.

De Bello Gallico, VIII, 2

Quae ne opinio Gallorum confirmaretur, Caesar Marcum Antonium quaestorem suis praefecit hibernis; ipse equitum praesidio pridie Kal. Ianuarias ab oppido Bibracte proficiscitur ad legionem XIII, quam non longe a finibus Aeduorum collocaverat in finibus Biturigum, eique adiungit legionem XI, quae proxima fuerat. Binis cohortibus ad impedimenta tuenda relictis reliquum exercitum in copiosissimos agros Biturigum inducit, qui, cum latos fines et complura oppida haberent, unius legionis hibernis non potuerint contineri quin bellum pararent coniurationesque facerent.

Per evitare che le aspettative dei Galli trovassero conferme, Cesare affida al questore M. Antonio il comando dei suoi quartieri d’inverno; la vigilia delle calende di gennaio, con una scorta di cavalieri parte da Bibracte verso la tredicesima legione, da lui stanziata nei territori dei Biturigi, non lontano dagli Edui. Alla tredicesima unisce l’undicesima legione, la più vicina. Lasciate due coorti a guardia delle salmerie, guida il resto dell’esercito nelle fertilissime campagne dei Biturigi. Quest’ultimi avevano vasti territori e molte città, per cui la presenza di una sola legione nei campi invernali non era valsa a impedire i preparativi di guerra e i patti di alleanza.

De Bello Gallico, VIII, 19

Cum dispositis turmis in vicem rari proeliarentur neque ab lateribus circumveniri suos paterentur, erumpunt ceteri Correo proeliante ex silvis. Fit magna contentione diversum proelium. Quod cum diutius pari Marte iniretur, paulatim ex silvis instructa multitudo procedit peditum, quae nostros coegit cedere equites. Quibus celeriter subveniunt levis armaturae pedites, quos ante legiones missos docui, turmisque nostrorum interpositi constanter proeliantur. Pugnatur aliquamdiu pari contentione; deinde, ut ratio postulabat proeli, qui sustinuerant primos impetus insidiarum hoc ipso fiunt superiores, quod nullum ab insidiantibus imprudentes acceperant detrimentum. Accedunt propius interim legiones, crebrique eodem tempore et nostris et hostibus nuntii adferuntur, imperatorem instructis copiis adesse. Qua re cognita praesidio cohortium confisi nostri acerrime proeliantur, ne, si tardius rem gessissent, victoriae gloriam communicasse cum legionibus viderentur; hostes concidunt animis atque itineribus diversis fugam quaerunt. Nequiquam: nam quibus difficultatibus locorum Romanos claudere voluerant, eis ipsi tenebantur. Victi tamen perculsique maiore parte amissa consternati profugiunt partim silvis petitis, partim flumine (qui tamen in fuga a nostris acriter insequentibus conficiuntur), eum interim nulla calamitate victus Correus excedere proelio silvasque petere aut invitantibus nostris ad deditionem potuit adduci, quin fortissime proeliando compluresque vulnerando cogeret elatos iracundia victores in se tela conicere.

I nostri, divisi in squadroni, si impegnavano a turno e in ordine sparso, senza permettere che il nemico aggirasse dai fianchi la fanteria. Ed ecco che, mentre Correo combatteva, altri rincalzi erompono dalle selve. Si scatenano accese mischie qua e là. Mentre la lotta si protraeva incerta, a poco a poco dalle selve avanza a ranghi serrati il grosso della fanteria nemica, che costringe alla ritirata i nostri cavalieri. In loro soccorso interviene rapidamente la nostra fanteria leggera, che precedeva le legioni, come avevo già detto: mescolati ai nostri squadroni di cavalleria affrontano con fermezza gli avversari. Per un certo tratto ci si batte con pari ardore; poi, conforme a una legge dei fatti d’arme, chi aveva resistito ai primi assalti dell’imboscata, ha la meglio, proprio perché non aveva patito lo svantaggio della sorpresa. Nel frattempo, le legioni si avvicinano e pervengono, di continuo, ai nostri e ai nemici notizie sull’arrivo del comandante con l’esercito in assetto di guerra. Di conseguenza, i nostri, rassicurati dal sostegno delle coorti, moltiplicano gli sforzi per non dover dividere l’onore del successo con le legioni, nel caso in cui la battaglia fosse andata troppo per le lunghe. I nemici si perdono d’animo e cercano da ogni parte vie di salvezza. Invano: vengono intrappolati dalle difficoltà dei luoghi, in cui avevano voluto rinserrare i Romani. Vinti e travolti, dopo aver perso il grosso delle truppe, scappano in preda al terrore, dirigendosi verso le selve o verso il fiume, ma tutti i fuggiaschi vengono massacrati dai nostri che li inseguivano con accanimento. Al contempo nessuna traversia piegò Correo: né si risolse a lasciare la mischia e a cercar riparo nelle selve, né acconsentì alla resa, che pure i nostri gli offrivano. Anzi, poiché combatté con estremo valore e ferì parecchi dei nostri, i vincitori, pieni d\’ira, furono costretti a bersagliarlo di frecce.

De Bello Gallico, VIII, 18

Hostes in insidus dispositi, cum sibi delegissent campum ad rem gerendam non amplius patentem in omnes partes passibus mille, silvis undique aut impeditissimo flumine munitum, velut indagine hunc insidiis circumdederunt. Explorato hostium consilio nostri ad proeliandum animo atque armis parati, cum subsequentibus legionibus nullam dimicationem recusarent, turmatim in eum locum devenerunt. Quorum adventu cum sibi Correus oblatam occasionem rei gerendae existimaret, primum cum paucis se ostendit atque in proximas turmas impetum fecit. Nostri constanter incursum sustinent insidiatorum neque plures in unum locum conveniunt; quod plerumque equestribus proeliis cum propter aliquem timorem accidit, tum multitudine ipsorum detrimentum accipitur.

I nemici, in agguato, dopo aver scelto una pianura non più ampia di un miglio in tutte le direzioni, circondata su ogni lato da selve o da un fiume inguadabile, si erano disposti tutt’attorno, per accalappiare la preda. I nostri, al corrente delle intenzioni nemiche, erano pronti alla lotta sia con le armi, sia nell’animo, e visto l’arrivo imminente delle legioni, non avrebbero rinunciato a nessun tipo di scontro: sul luogo dell’imboscata giunsero squadrone per squadrone. Al loro arrivo, Correo pensò che gli si offrisse l’occasione di agire: cominciò a mostrarsi con pochi uomini e attaccò i primi squadroni. I nostri resistono saldamente all’assalto, non si ammassano in un sol luogo, cosa che, quando si verifica negli scontri di cavalleria per un senso di paura, determina un grave danno proprio per il numero dei soldati.

De Bello Gallico, VIII, 17

Quod cum crebrius accideret, ex captivo quodam comperit Caesar Correum, Bellovacorum ducem, fortissimorum milia sex peditum delegisse equitesque ex omni numero mille, quos in insidiis eo loco collocaret, quem in locum propter copiam frumenti ac pabuli Romanos missuros suspicaretur. Quo cognito consilio legiones plures quam solebat educit equitatumque, qua consuetudine pabulatoribus mittere praesidio consuerat, praemittit: huic interponit auxilia levis armaturae; ipse cum legionibus quam potest maxime appropinquat.

Mentre gli agguati si facevano sempre più frequenti, da un prigioniero Cesare venne a sapere che Correo, il capo dei Bellovaci, aveva scelto seimila fanti tra i più forti e mille cavalieri tra il numero totale, per tendere una trappola nella zona in cui presumeva che si sarebbero spinti i Romani, vista l\’abbondanza di grano e foraggio. Avvertito del piano, Cesare guida fuori dal campo più legioni del solito e manda in avanti la cavalleria, che, come di consueto, scortava i soldati in cerca di foraggio. Inserisce tra i cavalieri gruppi di ausiliari armati alla leggera. Dal canto suo, si avvicina il più possibile con le legioni.

De Bello Gallico, VIII, 16

Caesar, etsi discessum hostium animadvertere non poterat incendiis oppositis, tamen id consilium cum fugae causa initum suspicaretur, legiones promovet, turmas mittit ad insequendum; ipse veritus insidias, ne forte in eodem loco subsistere hostis atque elicere nostros in locum conaretur iniquum, tardius procedit. Equites cum intrare fumum et flammam densissimam timerent ac, si qui cupidius intraverant, vix suorum ipsi priores partes animadverterent equorum, insidias veriti liberam facultatem sui recipiendi Bellovacis dederunt. Ita fuga timoris simul calliditatisque plena sine ullo detrimento milia non amplius decem progressi hostes loco munitissimo castra posuerunt. Inde cum saepe in insidiis equites peditesque disponerent, magna detrimenta Romanis in pabulationibus inferebant.

Cesare, anche se non aveva potuto vedere la ritirata dei nemici per le fiamme che gli si paravano dinnanzi, sospettava comunque che lo stratagemma servisse a una fuga. Perciò, fa avanzare le legioni e lancia all\’inseguimento gli squadroni di cavalleria. Temendo, però, un\’imboscata, nel caso che i nemici fossero rimasti nella loro posizione e cercassero solo di attirare i nostri in una zona svantaggiosa, procede con una certa lentezza. I cavalieri non osavano spingersi nella densissima cortina di fumo e di fiamme; se qualcuno vi era entrato per l\’eccessivo slancio, vedeva a stento la testa del proprio cavallo; temendo, dunque, un agguato, lasciarono che i Bellovaci si ritirassero senza difficoltà. Così, dopo una fuga dettata dal timore, ma al contempo piena di astuzia, senza aver subito alcuna perdita, i nemici procedettero per non più di dieci miglia e si attestarono in una zona ben munita. Da lì, appostandosi di continuo con i cavalieri e i fanti, infliggevano gravi perdite ai Romani in cerca di foraggio.

De Bello Gallico, VIII, 15

Barbari confisi loci natura, cum dimicare non recusarent, si forte Romani subire collem conarentur, paulatim copias distributas dimittere non possent, ne dispersi perturbarentur, in acie permanserunt. Quorum pertinacia cogruta Caesar XX cohortibus instructis castrisque eo loco metatis muniri iubet castra. Absolutis operibus pro vallo legiones instructas collocat, equites frenatis equis in statione disponit. Bellovaci, cum Romanos ad insequendum paratos viderent neque pernoctare aut diutius permanere sine periculo eodem loco possent, tale consilium sui recipiendi ceperunt. Fasces, ubi consederant (namque in acie sedere Gallos consuesse superioribus commentariis Caesaris declaratum est), per manus stramentorum ac virgultorum, quorum summa erat in castris copia, inter se traditos ante aciem collocarunt extremoque tempore diei signo pronuntiato uno tempore incenderunt. Ita continens flamma copias omnes repente a conspectu texit Romanorum. Quod ubi accidit, barbari vehementissimo cursu refugerunt.

I barbari, forti della posizione, non avrebbero rifiutato lo scontro, se i Romani avessero tentato un attacco al colle; ma non potevano inviare soldati in piccoli gruppi, per evitare che si scoraggiassero, una volta sparpagliati; perciò mantennero la stessa formazione. Cesare, di fronte alla loro pervicacia, lascia pronto un distaccamento di venti coorti e, tracciato il campo, ordina di fortificarlo. Terminati i lavori, schiera le legioni, le dispone, in pieno assetto, dinnanzi al vallo e piazza di guardia i cavalieri con i loro cavalli tenuti a briglia. I Bellovaci, vedendo i Romani pronti all’inseguimento e non potendo né pernottare, né rimanere più a lungo in quel luogo senza correre pericoli, decidono la ritirata con il seguente stratagemma: le fascine di paglia e frasche su cui sedevano (infatti, i Galli sono soliti sedere su fascine, come ricorda Cesare nei precedenti commentari) e che abbondavano nel loro accampamento, se le passarono di mano in mano e le posero dinnanzi alla loro linea. Quando il giorno volgeva al termine, contemporaneamente, a un segnale stabilito, le incendiano. Così, un muro di fiamme, all’improvviso, coprì ai Romani la vista di tutte le truppe nemiche. E subito i barbari ripiegarono con grandissima rapidità.

De Bello Gallico, VIII, 14

Compluribus diebus isdem in castris consumptis, cum propius accessisse legiones et Gaium Trebonium legatum cognossent, duces Bellovacorum veriti similem obsessionem Alesiae noctu dimittunt eos quos aut aetate aut viribus inferiores aut inermes habebant, unaque reliqua impedimenta. Quorum perturbatum et confusum dum explicant agmen (magna enim multitudo carrorum etiam expeditos sequi Gallos consuevit), oppressi luce copias armatorum pro suis instruunt castris, ne prius Romani persequi se inciperent quam longius agmen impedimentorum suorum processisset. At Caesar neque resistentes adgrediendos tanto collis ascensu iudicabat, neque non usque eo legiones admovendas ut discedere ex eo loco sine periculo barbari militibus instantibus non possent. Ita, cum palude impedita a castris castra dividi videret, quae trans eundi difficultas celeritatem insequendi tardare posset, adque id iugum quod trans paludem paene ad hostium castra pertineret mediocri valle a castris eorum intercisum animum adverteret, pontibus palude constrata legiones traducit celeriterque in summam planitiem iugi pervenit, quae declivi fastigio duobus ab lateribus muniebatur. Ibi legionibus instructis ad ultimum iugum pervenit aciemque eo loco constituit unde tormento missa tela in llostium cuneos conici possent.

Dopo aver trascorso parecchi giorni sempre nell’accampamento, i capi dei Bellovaci, quando vennero a sapere che il legato C. Trebonio si stava avvicinando con le legioni, nel timore di un assedio come ad Alesia, fanno allontanare di notte le persone inutili troppo anziane o deboli o prive di armi; con loro mandano tutti i bagagli. Mentre dispiegavano la colonna, ancora in scompiglio e in disordine (un gran numero di carri, infatti, segue di solito i Galli anche negli spostamenti brevi), vengono sorpresi dal sorgere del sole. Allora schierano le truppe dinnanzi al loro campo, per impedire ai Romani l’inizio dell’inseguimento prima che la colonna dei bagagli si fosse allontanata abbastanza. Cesare, visto il pendio così erto, non giudicò opportuno attaccare i nemici pronti alla difesa e decise invece di far avanzare le legioni di quel tanto, che impedisse ai barbari di muoversi dalla loro posizione senza rischi, data la minaccia dei nostri. Poi notò che i due accampamenti erano sì divisi da una palude impraticabile – un ostacolo in grado di frenare la rapidità dell’inseguimento – ma che una catena di colli, al di là della palude, raggiungeva quasi il campo nemico e ne era separata solo da una piccola valle. Allora, getta ponti sulla palude, la varca con le legioni e giunge rapidamente su una spianata in cima ai colli, protetta su entrambi i lati da scoscesi pendii. Qui ricompone le legioni e raggiunge l’estremità della spianata, dove forma la linea di battaglia. Da qui, i dardi scagliati dalle macchine da lancio potevano piovere sui nemici disposti a cuneo.

De Bello Gallico, VIII, 13

Non intermittunt interim cotidiana proelia in conspectu utrorumque castrorum, quae ad vada transitus que fiebant paludis. Qua contentione Germani, quos propterea Caesar traduxerat Rhenum ut equitibus interpositi proeliarentur, cum constantius universi paludem transissent paucisque resistentibus interfectis pertinacius reliquam multitudinem essent insecuti, perterriti non solum ei qui aut comminus opprimebantur aut eminus vulnerabantur, sed etiam qui longius subsidiari consuerant, turpiter refugerunt, nec prius finem fugae fecerunt saepe amissis superioribus locis quam se aut in castra suorum reciperent, aut nonnulli pudore coacti longius profugerent. Quorum periculo sic omnes copiae sunt perturbatae ut vix iudicari posset, utrum secundis minimisque rebus insolentiores an adverso mediocri casu timidiores essent.

Frattanto, non conoscono pausa le scaramucce quotidiane al cospetto dei due accampamenti, nei pressi dei guadi e dei passaggi della palude. In una di esse i Germani, che Cesare aveva portato al di qua del Reno perché combattessero frammischiati ai cavalieri, varcarono tutti la palude con molta decisione, uccisero i pochi che tentavano la resistenza e inseguirono piuttosto caparbiamente gli altri, seminando il panico non solo in chi era pressato da vicino o veniva colpito da distante, ma anche tra i rincalzi, che stazionavano più lontano, come al solito. Fu una rotta vergognosa: scalzati, via via, dalle posizioni dominanti, non si fermarono finché non trovarono riparo nel loro accampamento; altri, in preda alla vergogna, proseguirono la fuga anche oltre il campo. Il pericolo corso sconvolse l\’intero corpo nemico, al punto che si rende difficile stabilire se i Galli siano più inclini alla boria per insignificanti vittorie oppure pavidi di fronte a mediocri avversità.

De Bello Gallico, VIII, 12

Quod cum cotidie fieret ac iam consuetudine diligentia minueretur, quod plerumque accidit diu turnitate, Bellovaci delecta manu peditum cognitis stationibus cotidianis equitum nostrorum silvestribus locis insidias disponunt eodemque equites postero die mittunt, qui primum elicerent nostros, deinde circumventos aggrederentur. Cuius mali sors incidit Remis, quibus ille dies fungendi muneris obvenerat. Namque hi, cum repente hostium equites animad vertissent ac numero superiores paucitatem contempsissent, cupidius insecuti peditibus undique sunt circumdati. Quo facto perturbati celerius quam consuetudo fert equestris proeli se receperunt amisso Vertisco, principe civitatis, praefecto equitum; qui cum vix equo propter aetatem posset uti, tamen consuetudine Gallorurn neque aetatis excusatione in suscipienda praefectura usus erat neque dimicari sine se voluerat. Inflantur atque incitantur hostium animi secundo proelio, principe et praefecto Remorum interfecto, nostrique detrimento admonentur diligentius exploratis locis stationes disponere ac mode ratius cedentem insequi hostem.

La cosa accadeva ogni giorno, e ormai le precauzioni diminuivano per via dell\’abitudine, come spesso accade quando si ripetono le stesse azioni. I Bellovaci, una volta conosciuti i punti dove stazionavano quotidianamente i nostri cavalieri, con un gruppo scelto di fanti preparano un agguato in una zona ricca di vegetazione. Lì inviano, il giorno seguente, dei cavalieri, che dovevano attirare i nostri nel bosco, dove poi i fanti appostati li avrebbero circondati e assaliti. La mala sorte capitò ai Remi, a cui quel giorno era toccato il servizio di scorta. Quando all\’improvviso videro i cavalieri nemici, i nostri, sentendosi superiori per numero, disprezzarono le forze avversarie: li inseguirono con troppa foga e vennero circondati dai fanti. Scossi dall\’accaduto, si ritirarono più rapidamente di quanto non comporti, di regola, un combattimento di cavalleria; ma persero il principe del loro popolo e comandante della cavalleria, Vertisco, persona ormai anziana, a stento in grado di cavalcare, che però, com\’è costume dei Galli, non aveva accampato la scusa dell\’età al momento di rivestire il comando, né aveva voluto che si lottasse senza di lui. Il successo nello scontro esalta e accende lo spirito dei nemici, vista anche l\’uccisione del principe e comandante dei Remi, mentre la sconfitta insegna ai nostri a disporre i posti di guardia dopo aver esplorato con più attenzione i luoghi e a inseguire con maggior criterio il nemico in fuga.

De Bello Gallico, VIII, 11

Caesar, cum animadverteret hostem complures dies castris palude et loci natura munitis se tenere neque oppugnari castra eorum sine dimicatione perniciosa nec locum munitionibus claudi nisi a maiore exercitu posse, litteras ad Trebonium mittit, ut quam celerrime posset legionem XIlI, quae cum T. Sextio legato in Biturigibus hiemabat, arcesseret atque ita cum tribus legionibus magnis itineribus ad se veniret; ipse equites in vicem Remorum ac Lingonum reliquarumque civitatum, quorum magnum numerum evocaverat, praesidio pabulationibus mittit, qui subitas hostium incursiones sustinerent.

Cesare, constatato che ormai da parecchi giorni il nemico si teneva nell\’accampamento, difeso dalla palude e dalla conformazione naturale della zona, si era anche reso conto che non poteva né espugnare il loro campo senza un combattimento rovinoso, né circondarlo con opere d\’assedio, a meno dell\’impiego di truppe più ingenti. Allora invia una lettera a Trebonio, ordinandogli di richiamare quanto prima la tredicesima legione (che svernava nelle terre dei Biturigi con il legato T. Sestio) e di raggiungerlo con le tre legioni a marce forzate. Intanto, ai cavalieri dei Remi, dei Lingoni e degli altri popoli, che aveva richiesto in gran numero, dà l\’incombenza di scortare a turno i nostri in cerca di foraggio, per proteggerli da improvvisi attacchi dei nemici.

De Bello Gallico, VIII, 10

Huius munitionis duplex erat consilium. Namque et operum magnitudinem et timorem suum sperabat fiduciam barbaris allaturum, et cum pabulatum frumentatumque longius esset proficiscendum, parvis copiis castra munitione ipsa videbat posse defendi. Interim crebro paucis utrimque procurrentibus inter bina castra palude interiecta contendebatur; quam tamen paludem nonnumquam aut nostra auxilia Gallorum Germanorumque transibant acriusque hostes insequebantur, aut vicissim hostes eadem transgressi nostros longius summovebant. Accidebat autem cotidianis pabulationibus (id quod accidere erat necesse, cum raris disiectisque ex aedificius pabulum conquireretur), ut impeditis locis dispersi pabulatores circumvenirentur; quae res, etsi mediocre detrimentum iumentorum ac servorum nostris adferebat, tamen stultas cogitationes incitabat barbarorum, atque eo magis, quod Commius, quem profectum ad auxilia Germanorum arcessenda docui, cum equitibus venerat; qui, tametsi numero non amplius erant quingenti, tamen Germanorum adventu barbari nitebantur.

Lo scopo di tale fortificazione era duplice. Sperava, appunto, che la mole dei lavori e la sua simulata paura infondessero fiducia ai barbari; inoltre, vedeva che, grazie appunto alle opere di fortificazione, era possibile difendere il campo anche con pochi uomini, quando occorreva allontanarsi troppo in cerca di foraggio e di grano. Frattanto, piccoli gruppi dei due eserciti davano luogo a frequenti scaramucce tra gli accampamenti, che pure erano separati da una palude. Talvolta, comunque, o le nostre truppe ausiliarie, Galli e Germani, attraversavano la palude e incalzavano con maggior vigore i nemici, o erano i barbari, a loro volta, a superarla e a ricacciare i nostri, costringendoli al ripiegamento. Poi, durante le quotidiane spedizioni in cerca di foraggio, accadeva l\’inevitabile, dato che la ricerca avveniva per casolari sparsi e isolati: i nostri soldati, disuniti, venivano circondati in zone difficilmente praticabili. Il che ci procurava solo la perdita di pochi animali e servi, ma alimentava gli stolti pensieri dei barbari, tanto più che Commio, partito per chiedere aiuti ai Germani, come ho già detto, era rientrato con un contingente di cavalieri. Non erano più di cinquecento, tuttavia l\’arrivo dei Germani esaltò i barbari.

De Bello Gallico, VIII, 1

Omni Gallia devicta Caesar cum a superiore aestate nullum bellandi tempus intermisisset militesque hibernorum quiete reficere a tantis laboribus vellet, complures eodem tempore civitates renovare belli consilia nuntiabantur coniurationesque facere. Cuius rei verisimilis causa adferebatur, quod Gallis omnibus cogrutum esset neque ulla multitudine in unum locum coacta resisti posse Romanis, nec, si diversa bella complures eodem tempore intulissent civitates, satis auxili aut spati aut copiarum habiturum exercitum populi Romani ad omnia persequenda; non esse autem alicui civitati sortem incommodi recusandam, si tali mora reliquae possent se vindicare in libertatem.

Piegata tutta la Gallia, Cesare, che dall\’estate precedente non aveva mai cessato di combattere, voleva concedere un po\’ di riposo ai soldati negli accampamenti invernali, dopo tante fatiche. Giungeva, però, notizia che diversi popoli contemporaneamente rinnovavano i piani di guerra e stringevano alleanze. Motivo di tali iniziative, verosimilmente, era che tutti i Galli ben sapevano che nessun esercito concentrato in un solo luogo poteva resistere ai Romani e che, se parecchie genti, nello stesso istante, li avessero attaccati su diversi fronti, l\’esercito del popolo romano non avrebbe avuto appoggi, tempo, truppe sufficienti per fronteggiare tutti. E nessun popolo doveva sottrarsi al destino d\’un rovescio, se, impegnando i Romani, avesse permesso agli altri di riacquistare la libertà.