“La congiura di Catilina”

M.Tullio Cicerone C.Antonio consulibus facta est Romae coniuratio. Praeerat L. Sergius Catilina, iuvenis nobilis generis, sed perditis moribus, qui constituerat consules aliosque magistratus iterficere, urbem incendio delere, rerum potiri. Adlexerat blanditiis iuvenes imperitos et cupidos divitiarum et voluptatum, praeterea omnium qui rerum novarum cupiditate flagrabant, promittens magna lucra magnsque quaestus. M.Cicero, gravitatem periculi considerans, motum sine mora repressit. Coniurati qui in urbe manserant comprehensi et interfecti sunt. Sed Catilina, qui iam Roma effugerat, exercitu collecto, cum copiis M.Antonio conflixit. Apud Pistorium profligatus est et morte strenue pugnans appetivi.

Sotto il consolato di M. Tullio Cicerone e C. Antonio a Roma fu fatta una congiura. Ne era a capo L. Sergio Catilina giovane di nobile stirpe, ma di dissoluti costumi, il quale aveva deciso di uccidere i consoli e gli altri magistrati, di distruggere la città con un incendio e impadronirsi del potere. Aveva attirato a sè con lusinghe giovani inesperti e desiderosi di ricchezze soprattutto quelli che ardevano dal desiderio di cose nuove promettendo grandi guadagni e grandi vantaggi. M. Cicerone rendendosi conto della gravità del pericolo represse senza indugio il movimento politico. I congiurati che erano rimasti in città furono catturati ed uccisi. Ma Catilina, che già si era allontanato da Roma, dopo avere riunito l’esercito si scontrò con le milizie di Antonio. Fu sconfitto presso Pistoia e combattendo strenuamente andò verso la morte.

“Alcuni esempi della forza d’animo degli Spartani”

Lacefdamonius quidam, ab ephoris damnatus, cum ad mortem duceretur, vultu hilari atque laeto erat. Civi ei dicenti: “Contemnisne leges Lycurgi?”, respondit: “Ego vero illi mazimam gratiam habeo, qui me ea poena me multaverit, quam sine ulla impensa possem dissolvere”. Eodem animo Lacedaemoniii in Thermopylis occiderunt. Quid ille eorum dux Leonidas dixit? “Pergite, milites, amino forti; hodie apud inferos fortasse cenabimus”. Fuit haes gens fortis, dum Lycurgi leges vigebant. Cum ante pugnam hostis quidam in colloquio gloriose dixiset: “Solem prae iaculorum et sagittarum multitudine non videvitis”, Lacedaemonius miles: “In umbra igitur” – inquit – “pugnabimus”. Non solum Lacedaemoniorum viros commemorare possum, sed etiam feminas. Tradunt enim Lacaenam quandam, cum filium in proelio interfectum esse audivisset, “Idcirco” – inquit – “eum genueram, ut pro patria mortem occumbere non dubitaret”.

Uno spartano, condannato dagli Efori, essendo condotto a morte, era con volto ilare e lieto. Al cittadino che gli diceva: disprezzi forse le leggi di Licurgo, risponde: “Io invero sono riconoscente a quello perchè mi ha punito con questa pena che potrei dissolvere senza alcuna spesa”. Con lo stesso animo i Lacedemoni uccisero nelle Termopili. Cosa disse il loro comandante Leonida? “Volgete, soldati, con animo forte, oggi ceneremo presso gli inferi”. Fu questa gente forte finchè vigevano le leggi di Licurgo. Avendo detto gloriosamente prima della battaglia un nemico in colloquio: “Non avete visto il sole per la moltitudine di dardi e giavellotti. Un soldato spartano: “Combatteremo, dunque, nell’ombra”. Non solo posso commemorare gli uomini Spartani, ma anche le donne. Dicono infatti che una spartana, avendo sentito che il figlio era stato ucciso in combattimento, disse: “Per questo motivo lo ho generato perchè non esitasse a soccombere alla morte per la patria”.

“I Romani alle Forche Caudine”

Spurius Postumius consul, a quo bellum adversus Samnites gerebatur, a Pontio duce hostium in insidias inductus est. Nam simulati trasfugae ad hoc officium missi erant, qui Romani dicerent Luceriam, Apuliae urbem, a Samnitibus obsideri. Consul, ne Lucerini, boni ac fideles socii, desererentur, exercitum movit; sed, cum in angustias se insinuavissent, Quae Caudinae dicebantur, sensit repente exercitum suum ab hostibus deprehensum et clausum esse, atque bomnem spem invadendi adeptam esse. Milites, undique superiora loca a Samnitibus obsessa bomnesque angustiarum exitus obstructos cernentes, diu immobiles silent; deinde erumpunt in querelas adversus duces, quorum temeritate in eum locum adducti erant. Postero die,Romani legatos miserunt ut pacem peterent. Pax concessa est ea lege ut omnes, consules consules primi, deinde singuli milites sub iugum traducerentur. Romanis, cum a saltu evasissent, libertas morte tristior fuit:pudor fugere colloquia et coetus hominum cogebat.

Il console Spurio Postumio, dal quale era condotta la guerra contro i Sanniti, fu spinto in un agguato da Ponzio comandante dei nemici. Infatti furono inviati come falsi disertori per questo compito, che i Romani dicessero che Lucera, città della Puglia, era presidiata dai Sanniti. Il console Spurio affinchè gli abitanti di Lucera, buoni e fedeli alleati, non fossero abbandonati, spostò l’esercito; ma essendosi introdotto in dei luoghi angusti, che erano detti Forche Caudine, intuì immediatamente che il suo esercito era stato sorpreso e catturato e che ogni speranza di scampare all’assedio era morta. I soldati vedendo chiaramente che le alture facevano da ostacolo dappertutto e che tutte le vie di uscita del luogo angusto erano bloccate dai sanniti, rimasero in silenzio a lungo, poi scoppiarono in rimproveri contro i comandanti, dalla cui imprudenza furono portati in quei luoghi. Il giorno dopo, i Romani mandarono gli ambasciatori per chiedere la pace. La pace fu concessa a questo patto, che tutti, per primi i consoli, poi i singoli soldati, fossero fatti passare sotto il giogo. Uscendo dal luogo boscoso, la libertà per i Romani fu più triste della morte: la vergogna spingeva ad evitare i colloqui e le riunioni tra gli uomini.

“L’invasione dei Galli coinvolge anche Roma”

Celtae, quos Romani appellabant Gallos, cum in Italiam per Alpes transcendissent, suo impetu Ligures et Etruscos everterunt et magnam partem eorum finium occupaverunt. Galli Insubres Mediolanum condiderunt, Cenomani, ubi nunc Brixia ac Verona urbes sunt, loca tenuerunt, Boii Lingonesque, cum iam inter Padum atque Alpes omnia loca obtinerentur, Pado ratibus traiecto, non modo Etruscorum sed etiam Umbrorum agros occupaverunt. Denique Galli Senones, recentissimi advenarum, ad Aesim flumen pervenerunt. Satis constat hanc gentem Clusium, opulentum Etruscorum oppidum, petivisse et inde Romam venisse. Clusini, multitudine barbarorum exterriti, cum et formas hominum invisitatas et novum armorum genus cernerent audirentque saepe ab iis magnos hostium exercitus profligatos esse, legatos Romam miserunt, qui auxilium a senatu peterent. Statim a Romanis legati missi sunt, qui cum Gallis agerent ne, a quibus nullam iniuriam acceperant, socios populi Romani atque amicos oppugnarent.

I Celti, che i Romani chiamavano Galli, quando discesero in Italia, con il loro impeto annientarono i Liguri e gli Etruschi, ed occuparono gran parte dei loro confini. I Galli Insubri fondarono Milano, i Cenomani, dove ora si trovano le città di Brescia e Verona, diminuirono le regioni, i Boi e i Lingoni, quando già avevano occupato tutti i territori tra il Po e le Alpi, passato il Po con le zattere, occuparono i campi non solo degli Etruschi, ma anche degli Umbri. E poi, i Galli Senoni, gli ultimi arrivati, giunsero presso il fiume Esino. E’ cosa ben nota che questo popolo si fosse diretto a Chiusi, ricca città degli Etruschi, e che di lì fosse giunto a Roma. Gli abitanti di Chiusi, atterriti dal gran numero di barbari, poiché non li avevano mai visti e poichè avevano notato il nuovo genere di armi, ed avevano sentito che spesso da loro erano stati sbaragliati grandi eserciti di nemici, inviarono ambasciatori a Roma che richiedessero un aiuto da parte del senato. Furono subito inviati gli ambasciatori da parte dei Romani, che trattarono con i Galli affinché non attaccassero gli alleati e gli amici del popolo Romano, che non avevano subito alcuna violenza.

“Cesare e gli Elvezi”

Caesar copias in proximum collem subduxit, equitatum contra hostes misit, exercitum in colle instruxit. Helvetii, ut viderunt, impetum in equitatum fecerunt et ad castra nostra appropinquaverunt. Milites Romani ex colle pila mittebant, ut hostium phalangem perfringèrent; postea, cum hostes proximus viderunt, gladios destrinxerunt et impetum fecerunt. Diu atque acrìter Helvetii per magnam noctis partem pugnaverunt, sed nostrum impetum sustinere non potuerunt, ita ut Romani impedimenta et castra barbarorum occupaverint. Helvetiorum superstites qui fugerunt per montium saltus, in fines Lingonum pervenerunt ut Gallorum auxilium peterent. Romani propter vulnera militum et propter sepolturam occisorum fugam hostium impedire non potuerunt.

Cesare spostò le truppe sul vicino colle, mandò la cavalleria contro i nemici, schierò l’esercito sul colle. Gli Elvezi, quando videro, fecero impeto contro la cavalleria e si avvicinarono al nostro accampamento. I soldati Romani lanciavano giavellotti dal colle per infrangere la falange dei nemici; poi, quando videro i nemici vicini, sguainarono le spade e attaccarono. Gli Elvezi combatterono duramente e a lungo per gran parte della notte, ma non riuscirono a sostenere il nostro impeto, cosicché i Romani si impadronirono delle salmerie e dell’accampamento dei barbari. I superstiti degli Elvezi che fuggirono attraverso i valichi dei monti, giunsero nei territori dei Lingoni per chiedere l’aiuto dei Galli. I Romani per le ferite dei soldati e la sepoltura degli uccisi, non poterono impedire la fuga dei nemici.

“Epicuro”

Videbat Epicurus bonis adversa semper accidere, qualia paupertatem, labores, exilia, carorum amissionem; malos, contra, beatos esse; videbat scelera homines impune committere, videbat sine ordine ac discrimine annorum saevire mortem et alios ad senectutem pervenire, alios infantes ex vita cedere, alios iam robustos expirare, alios in primo adolescentiae flore immaturis funeribus deficere; in bellis fortes perire. Omnia haec Epicurus cogitans, existimavit nullam esse providentiam.

Epicuro vedeva sempre succedere qualcosa di negativo ai buoni, quale la povertà, le fatiche, la perdita dei cari; al contrario vedeva che i malvagi erano beati, vedeva che gli uomini commettevano impunemente delitti, vedeva che senza ordine e distinzione di età si abbandonavano alla morte e altri giungere alla vecchiaia, alcuni giovani morire, alcuni forti spirare, altri mancare dal fiore della giovinezza immaturamente, uomini forti morire nelle guerre. Epicuro pensando tutte queste cose ritenne che non vi fosse alcuna provvidenza.

“Un favore ricambiato”

Olim in silva fortis leo dormiebat. Parvus mus forte leonis nasum offendit atque beluam e somno excitavit. Statim fera pede incutum apprehendit. Sed mus, humilis clamavit: “Leo, animalium nobilis rex, libera me! Tibi sempiternam gratiam habebo!”. Tum leo facilem et inermem praedam liberavit. Post paucos menses, leo in crudelium venatorum laqueos incidit: silvam terribilibus lamentis suis implebat. Parvus mus beluam audivit, celer ed leonem accurrit atque statim acribus dentibus laqueorum difficiles nodos rosit. Sic bestiola gratiam rettulit.

Una volta un leone coraggioso dormiva nella foresta. Un piccolo topo per caso urtò il naso del leone e svegliò la belva dal sonno. Subito la fiera afferrò con la zampa l’incauto. Ma il topo, umile, gridò: “Leone, re degli animali nobili, liberami! Avrò per te eterna gratitudine!”. Allora il leone favorevole e inerme liberò la preda. Dopo pochi mesi, il leone cadde nella trappola del crudele cacciatore: riempiva la foresta dei suoi terribili lamenti. Il piccolo topo udì la belva, accorse velocemente dal leone e subito con i denti aguzzi rosicchiò i difficili nodi della rete. Così la bestiola restituì la grazia.

“Il regno di romolo”

Postquam civitatem condidit quam ex suo nomine Romane appellavit. Romulus multos annos reganvit. Multitudinem finitimorum in civitatem recepit, ex quibus centum cives senes legit, qui propter aetatem senatores nominati sunt. Senatorum consilio omnia negotia agebantur. Sed quia Romani feminas non habebant, rex invitavit ad spectaculum ludorum gentes quae vicinae urbi Romae erant. Tunc grave bellum commotum est, in quo Caenineses Crustumini Fidenates Veintes qui socii Sabinorum erant victi sunt. Tandem Sabini pacem cum Romanis facerunt, qui virgines raptas in matrimonium duxerunt. Romulus qui multos annos regnaverat post foedam tempestatem non comparuit et inter deos honoratus est. Post romulum Numa Pompilius regnavit cui non bellum sed iustitia et religio laudem paraverunt.

Dopo che ebbe fondato la città, che chiamò Romana dal suo nome, Romolo regnò per molti anni. Accolse nella città la moltitudine dei popoli confinanti, tra i quali scelse cento uomini anziani che furono nominati senatori a causa dell’età. Tutti i doveri venivano effettuati per mezzo della decisione dei senatori. Ma, poiché i Romani non avevano mogli, il sovrano invitò ad uno spettacolo di giochi le popolazioni che erano vicine alla città di Roma. Allora fu scatenata gravemente una guerra, durante la quale i Ceninensi, i Crustumini, i Fidenati ed i Veienti, che erano alleati dei Sabini, furono sconfitti. Tuttavia i Sabini fecero la pace con i Romani, che condussero le vergini rapite al matrimonio. Romolo, che aveva regnato per molti anni, dopo l’infausta tempesta non ricomparve e fu onorato tra gli dei. Dopo Romolo regnò Numa Pompilio, cui non la guerra ma la giustizia ed il timore degli dei procurarono la lode.

“Un drammatico episodio della guerra civile”

Postquam impulsos sensit Antonius, denso agmine obturbabat, laxati ordines abrumpuntur, nec restitui quivere impedientibus vehiculis tormentisque. Per limitem viae sparguntur festinatione consectandi victores. Eo notabilior caedes fuit, quia filius patrem interfecit. Rem nominaque auctore Vipstano Messala tradam. Iulius Mansuetus ex Hispania, Rapaci legioni additus, impubem filium domi liquerat. Is mox adultus, inter septimanos a Galba conscriptus, oblatum forte patrem et vulnere stratum dum semianimem scrutatur, agnitus agnoscensque et exanguem amplexus, voce flebili precabatur placatos patris manis, neve se ut parricidam aversarentur: publicum id facinus; et unum militem quotam civilium armorum partem? Simul attollere corpus, aperire humum, supremo erga parentem officio fungi. Advertere proximi, deinde plures: hinc per omnem aciem miraculum et questus et saevissimi belli execratio. Nec eo segnius propinquos adfinis fratres trucidant spoliant: factum esse scelus loquuntur faciuntque.

Quando Antonio li sentì vicini a cedere, esercita una pressione a ranghi serrati e ne dissesta le linee. Queste si disgregano e aprono varchi non più colmabili, per l’intralcio dei carri e delle macchine da guerra. I vincitori si riversano lungo il tracciato stradale, in un precipitoso inseguimento. Significativo rilievo diede alla strage l’uccisione di un padre per mano del figlio. Ricorderò i fatti e i nomi come li riferisce Vipstano Messalla. Giulio Mansueto, originario della Spagna, appartenente alla legione Rapace, aveva lasciato a casa il figlio ancora bambino. Costui si fece grande, fu arruolato da Galba nella Settima legione; volle il caso che si trovasse di fronte il padre: lo colpisce, lo abbatte e, mentre lo spoglia, il morente è da lui riconosciuto e lo riconosce. Allora se lo stringe spirante fra le braccia e, in singhiozzi, supplicava i mani paterni che si lasciassero placare e non lo rifiutassero come parricida. Quel delitto è di tutti: che parte poteva avere un solo soldato nella guerra civile? Il figlio solleva il corpo, scava la fossa, rende al padre le estreme onoranze. Videro questo i più vicini, poi lo seppero tanti altri, e per tutto l’esercito si diffonde stupore, pena, esecrazione di una guerra come nessun’altra feroce. Senza sosta intanto trucidano, spogliano parenti, consanguinei, fratelli; dicono che è un delitto e intanto lo compiono.

Historiae, III, 25

Vagus inde an consilio ducis subditus rumor, advenisse Mucianum, exercitus in vicem salutasse. Gradum inferunt quasi recentibus auxiliis aucti, rariore iam Vitellianorum acie, ut quos nullo rectore suus quemque impetus vel pavor contraheret diduceretve. Postquam impulsos sensit Antonius, denso agmine obturbabat, laxati ordines abrumpuntur, nec restitui quivere impedientibus vehiculis tormentisque. Per limitem viae sparguntur festinatione consectandi victores. Eo notabilior caedes fuit, quia filius patrem interfecit. Rem nominaque auctore Vipstano Messala tradam. Iulius Mansuetus ex Hispania, Rapaci legioni additus, impubem filium domi liquerat. Is mox adultus, inter septimanos a Galba conscriptus, oblatum forte patrem et vulnere stratum dum semianimem scrutatur, agnitus agnoscensque et exanguem amplexus, voce flebili precabatur placatos patris manis, neve se ut parricidam aversarentur: publicum id facinus; et unum militem quotam civilium armorum partem? Simul attollere corpus, aperire humum, supremo erga parentem officio fungi. Advertere proximi, deinde plures: hinc per omnem aciem miraculum et questus et saevissimi belli execratio. Nec eo segnius propinquos adfinis fratres trucidant spoliant: factum esse scelus loquuntur faciuntque.

Si diffonde la voce, ma forse era un’ingegnosa trovata di Antonio, dell’arrivo di Muciano e che quello fosse il saluto scambiato fra i due eserciti. Avanzano i Flaviani, come moltiplicati da rinforzi appena giunti, mentre le linee dei Vitelliani perdono di compattezza, perchè, lasciati senza una guida, serravano le file o le diradavano sotto l’unica spinta della combattività o della paura. Quando Antonio li sentì vicini a cedere, esercita una pressione a ranghi serrati e ne dissesta le linee. Queste si disgregano e aprono varchi non più colmabili, per l’intralcio dei carri e delle macchine da guerra. I vincitori si riversano lungo il tracciato stradale, in un precipitoso inseguimento. Significativo rilievo diede alla strage l’uccisione di un padre per mano del figlio. Ricorderò i fatti e i nomi come li riferisce Vipstano Messalla. Giulio Mansueto, originario della Spagna, appartenente alla legione Rapace, aveva lasciato a casa il figlio ancora bambino. Costui si fece grande, fu arruolato da Galba nella Settima legione; volle il caso che si trovasse di fronte il padre: lo colpisce, lo abbatte e, mentre lo spoglia, il morente è da lui riconosciuto e lo riconosce. Allora se lo stringe spirante fra le braccia e, in singhiozzi, supplicava i mani paterni che si lasciassero placare e non lo rifiutassero come parricida. Quel delitto è di tutti: che parte poteva avere un solo soldato nella guerra civile? Il figlio solleva il corpo, scava la fossa, rende al padre le estreme onoranze. Videro questo i più vicini, poi lo seppero tanti altri, e per tutto l’esercito si diffonde stupore, pena, esecrazione di una guerra come nessun’altra feroce. Senza sosta intanto trucidano, spogliano parenti, consanguinei, fratelli; dicono che è un delitto e intanto lo compiono.

“Un cattivo consiglio è la cosa più dannosa per chi lo dà”

Statua Romae in comitio posita Horatii Coclitis fortissimi viri de coelo tacta est. Ob id fulgur piaculis luendum aruspices ex Etruria acciti inimico atque hostili in populum Romanum animo instituerant eam rem contrariis religionibus procurare. Atque illam statuam suaserunt in inferiorem locum perperam transponi, quem sol oppositu circum undique aliarum aedium nunquam illustraret. Quod cum ita fieri persuasissent, delati ad populum proditique sunt; et cum de perfidia confessi essent, necati sunt; constititque eam statuam proinde, ut verae rationes post compertae monebant, in locum editum subducendam, atque ita in area Volcani sublimiori loco statuendam. Ex qua re bene et prospere reipub. cessit. Tunc igitur quod in Etruscos aruspices male consulentes animadversum, vindicatumque fuerat versus hic [senarius] scite factus, cantatusque esse a pueris urbe tota fertur: “Malum consilium consultori pessimum est.

La statua di Grazio Coclite, uomo coraggiosissimo, posta nel Comizio venne colpita dal fulmine. Per poter espiare con sacrifici la contaminazione della folgore, furon chiamati degli aruspici d’Etruria; i quali, per animo avverso e ostile al popolo romano, proposero di espiare l’avvenimento con falsi riti e consigliarono da malvagi di trasportare la statua in luogo più basso, ove il sole mai non arrivasse, sporgendo tutt’attorno alti fabbricati. Riuscirono a indurre i Romani a far ciò, ma vennero poi scoperti e denunciati al popolo; avendo confessata la propria perfidia, furono uccisi; apparve allora evidente, e le prove si ebbero poi, che si doveva porre la statua in un luogo scoperto, ed essa venne posta in quella elevazione ove sorge il tempio di Vulcano. Quando ciò fu compiuto, gli avvenimenti divennero felici e favorevoli per il popolo romano. Allora, in ricordo dell’esser stato il cattivo consiglio degli aruspici etruschi scoperto e punito, si dice che sia stato composto e cantato dai ragazzi di tutta la città questo verso: “Mal consiglio nuoce a chi lo da”.

“Ambizione di Pausania”

Pausanias Lacedaemonius magnus homo, sed varius in omni genere vitae fuit: nam ut virtutibus eluxit, sic vitiis est obrutus. Huius illustrissimum est proelium apud Plataeas. Namque illo duce Mardonius, satrapes regius, natione Medus, regis gener, in primis omnium Persarum et manu fortis et consilii plenus, cum CC milibus peditum, quos viritim legerat, et XX equitum haud ita magna manu Graeciae fugatus est, eoque ipse dux cecidit proelio. Qua victoria elatus plurima miscere coepit et maiora concupiscere. Sed primum in eo est reprehensus, quod [cum] ex praeda tripodem aureum Delphis posuisset epigrammate scripto, in quo haec erat sententia: suo ductu barbaros apud Plataeas esse deletos, eiusque victoriae ergo Apollini id donum dedisse. Hos versus Lacedaemonii exsculpserunt neque aliud scripserunt quam nomina earum civitatum, quarum auxilio Persae erant victi.

Pausania, Spartano, fu un uomo grande, ma volubile in ogni circostanza della vita: infatti, come brillò per virtù, così fu travolto dai vizi. La sua impresa più famosa è la battaglia di Platea. Sotto la sua guida, Mardonio, satrapo del re, di nazionalità Meda, genero del re, valoroso in guerra e molto prudente, più di tutti i Persiani, da un piccolo esercito della Grecia fu messo in fuga con duecentomila fanti, che Pausania aveva scelto uno ad uno, e ventimila cavalieri; in tale battaglia cadde lo stesso comandante. Insuperbito da questa vittoria cominciò a sconvolgere ogni cosa e a desiderare ardentemente successi più grandi. Ma anzitutto fu rimproverato per il fatto che aveva posto a Delfi un tripode d’oro del bottino di guerra con un’iscrizione nella quale c’erano queste parole: “Sotto la sua guida i barbari erano stati sconfitti a Platea e per tale vittoria aveva fatto il dono ad Apollo”. Gli Spartani cancellarono con lo scalpello queste parole e non scrissero altro che i nomi di quelle città con l’aiuto delle quali i Persiani erano stati sconfitti.

“Bisogna resistere alla vecchiaia”

Resistendum, Laeli et Scipio, senectuti est eiusque vitia diligentia compensanda sunt. Pugnandum, tamquam contra morbum sic contra senectutem. Habenda ratio valetudinis: utendum exercitatonibus modicis; tantum cibi et potionis adhibendum, ut reficiantur vires, non opprimantur. Nec vero corpori solum subveniendum est, sed menti atque animo multo magis: nam haec quoque, nisi tamquam lumini oleum instilles, exstinguuntur senecute. Et corpora quidem exercitationum defatigatione ingravescunt; animi autem se exercendo levantur.

Bisogna resistere, Lelio e Scipione, alla vecchiaia e compensare i suoi difetti con cura. Bisogna combattere contro la vecchiaia così come contro una malattia. Bisogna aver riguardo della salute: bisogna fare esercizi fisici moderati; bisogna usare quel tanto di cibo e di bevande affinchè le forze siano rinvigorite senza essere appesantite. E in verità non bisogna provvedere solo al corpo, ma molto di più alla mente e all’animo: infatti anche questi, se tu non instilli olio come ad un lume, si estinguono con la vecchiaia. E i corpi sì, si appesantiscono con l’affaticamento degli esercizi, gli animi invece, esercitandosi, si risollevano.

“I colori nel circo”

Romae Romulus primus suis civibus quadrigas ostendebat et veteres Romani aurigas vestiebant idololatriae coloribus. Nam in aurigarum tunicis initio duo soli colores erant, albus et russeus. Albus hiemi ob nives candidas, russeus aestati ob solis ruborem votus erat. Sed postea russeum alii Marti, alii album Zephyro consecrabant, prasinum terrae matri vel verno, venetum caelo et mari vel autumno. Sed omne genus idololatriae Deus damnat et ideo etiam colores naturalibus elementis consecratos.

A Roma Romolo per primo mostrava ai suoi cittadini le quadrighe e gli antichi Romani vestivano gli aurighi di idolatria con colori. Infatti nelle tuniche degli aurighi all’inizio vi erano solo due colori, il bianco e il rosso. Il bianco era consacrato in inverno per le nevi candide, il rosso in estate per il rosso del sole. Ma dopo alcuni consacravano il rosso a Marte, alcuni il bianco a Zefiro, il verde alla terra, alla madre e alla primavera, l’azzurro al cielo, al mare e all’autunno. Ma ogni genere di idolatria Dio condanna e così anche i colori vengono consacrati ai naturali elementi.

“Il supplizio di Tantalo”

Tantalus, Lydorum rex, diis deabusque carus erat ideoque Iuppiter saepe eum in Olympum invitabat et ad deorum mensam admittebat. Sed Tantalus in convivio Iovis deorumque sermones audiebat et postridie eorum verba hominibus referebat; olim etiam nectaris ambrosiaeque furtum facerat. Tum Iuppiter, ob tanta facinora iratus, Tantalum ex Olympo pellere atque in Inferis saeva poena eum punire statuit: “Tu, Tantale, in palude Stygia in aeternum stabis, sed fame sitique excruciaberis: nam si os ad aquam appropinquabis, aqua statim recedet; multi rami cum iucundis pomis ante oculos tuos pendebunt, sed, si brachia ad ea levabis,ventus arborum ramos ad caelum tollet. Praeterea magnum saxum super caput tuum semper impendebit”. Itaque miser Tantalus hoc saevum supplicium in perpetuum fert.

Tantalo re dei Lidi era caro agli dei e alle dee e pertanto Giove spesso lo invitava nell’Olimpo e lo accoglieva alla mensa degli dei. Ma Tantalo ascoltava nel convivio tutti i discorsi di Giove e degli dei e il giorno dopo riferiva le loro parole agli uomini; un giorno aveva fatto anche un furto di nettare e ambrosia. Allora Giove, adirato per tanto grandi misfatti, stabilì di scacciare Tantalo dall’Olimpo e punirlo con una terribile pena. “Tu Tantalo starai in eterno nella palude Stigia, ma sarai tormentato dalla fame e dalla sete: infatti se avvicinerai la bocca all’acqua, l’acqua subito si ritrarrà; molti rami con frutti penderanno deliziosamente davanti ai tuoi occhi ma se alzerai le braccia verso di loro, il vento solleverà i rami dell’albero verso il cielo. Inoltre un enorme sasso incomberà sempre sulla tua testa”. Pertanto il povero Tantalo sopporterà in eterno questo crudele supplizio.

Eneide, I, vv. 1-11

Arma virumque cano, Troiae qui primus ab oris Italiam fato profugus Laviniaque venit litora, multum ille et terris iactatus et alto vi superum, saevae memorem Iunonis ob iram, multa quoque et bello passus, dum conderet urbem inferretque deos Latio; genus unde Latinum Albanique patres atque altae moenia Romae. Musa, mihi causas memora, quo numine laeso quidve dolens regina deum tot volvere casus insignem pietate virum, tot adire labores impulerit. tantaene animis caelestibus irae?

Canto le armi e l’eroe, che per primo dalle coste di Troia profugo per fato toccò l’Italia e le spiagge Lavinie, lui molto sbattuto e per terre e per mare dalla forza degli dei, per l’ira memore di Giunone crudele, e tribolato molto anche dalla guerra, finchè fondasse la città e portasse gli dei per il Lazio; donde venne la razza latina e i padri Albani e le mura dell’alta Roma. Musa ricordami le cause, per quale divinità lesa o che lamentando, la regina degli dei abbia spinto l’eroe famoso per pietà a dipanare tanti eventi, ad affrontar tanti dolori. Forse così grandi sono le ire per i cuori celesti?

“Il poeta Tibullo”

Tibullus, clarus poeta Romanus, totum annum in agris suis vitam tranquillam agere amabat; negotia, Forum militiamque vitabat. Aestate frigidae agrorum aurae poetam recreabant, autumno pratorum silvarumque silentia et amoenorum rivorum voces eum delectabant. Tibullus in carminibus suis vitae rusticae gaudia canebat et agricolis dicebat: “Agrorum silvarumque deas deosque pie colite: ii dona vestra accipient, agros vestros armentaque protegent, morbos fugabunt, familias vestras adiuvabunt; laeti in vicis vestris sine curis vivetis”.

Tibullo, famoso poeta Romano, per tutto l’anno amava trascorrere una tranquilla vita nei suoi campi; evitava gli affari, il foro e la vita militare. In estate i freschi venti dei campi ristoravano il poeta, in autunno il silenzio dei prati e dei bosci e gli scroscii dei ruscelli ameni lo dilettavano. Tibullo cantava nei suoi carmi le gioie della vita rustica e diceva agli agricoltori: “Venerate piamente le dee e gli dei dei campi e dei boschi: essi riceveranno i vostri doni, proteggeranno i vostri campi, scacceranno le malattie, aiuteranno le vostre famiglie; vivete felici nei vostri villaggi senza preoccupazioni”.

“Il podere ideale”

Cum praedium parare cogitabis, sic in animo habe: noli cupide emere. Bonum caelum habeat praedium tuum, ne calamitosum sit, idemque solum bonum habeat, sua ipsa virtute valeat. sub radice montis sit, in meridiem spectet, loco aprico atque salubri, id est haud palustri; operariorum copia tibi sit bonumque aquarium, oppidum validum prope sit, mare atiam aut amnis, qua naves ambulant, via bona celerisque. Vivant in his agris qui non saepe dominum mutant, ut tibi quoque servi fideles sint. Aedifica bene, vel praedium eme cuius domini antea firma solidaque aedificia paraverunt: nam de domino bono colono bonoque aedificatore melius emitur. Cum ad villam venies, numera dolia, vasa atque torcula: multa esse portebit. Si de cultibus scire vis, sic tibi dicam quod primum est: vinea sit prima cultura, si vis vinum multum esse; secundo loco hortus irriguus; tertio salictum; quarto oletum; quinto pratum; sexto campus frumentarius; septimo Silva caedua; octavo arbustum; nono glandaria Silva.

Quando penserai di allestire un podere tieni così a mente: non acquistare avidamente. Il tuo podere goda di un buon clima, non sia mal esposto, e il medesimo abbia un buon suolo, sia di pregio per il suo stesso valore. Sia alle falde di un monte, orientato a sud in un luogo soleggiato e salubre, cioè non palustre; abbi una squadra di operai e un buon acquaio, vicino ci sia una città solida, il mare o un fiume, che percorrano imbarcazioni, una strada ben tenuta e scorrevole. Vivano in queste terre, coloro che non cambiano spesso padrone, perché tu abbia anche servi fedeli. Costruisci bene o compra un podere i cui proprietari prima allestirono edifici di sicura solidità: infatti da un padrone buon colono e da un buon costruttore si compera meglio, quando arriverai in fattoria numera i doli, i vasi e torchi: ne porterai molti. Se vuoi sapere delle coltivazioni ti dirò ciò che per primo deve esserci: la vigna sia la prima coltivazione, se vuoi che vi sia molto vino; in seconda istanza un orto irriguo; per terzo un saliceto; per quarto un oliveto; come quinto un prato; sesto un campo di grano; settimo un bosco ceduo; ottavo una piantagione di alberi; come nono un bosco di querce.

“Una visita di istruzione”

Palatium, ut scitis, discipuli, est collis ubi Romulus Urbem condidit. Mirifica templa, splendida aedificia montem ornant. Illie multi clari viri domicilia habuerunt. Si Roma recte caput mundi appellamus, Platinum montem iure umbilicum Urbis dicimus. Antiquis temporibus Palatinus mons sedes Evandri regis fuit. Multis post annis Romulus hic urbem Romam condidit et muro circumdedit. Apud Capitolium Ara Maxima Herculis et Templum Victoriae deae erant. Apud semitas quae ex colle ad Forum ducebant, antiqui Romae incolae colebant Lupercal, speluncam ubi lupa lacte geminos nutrivit, et Tugurium Faustoli, ubi Romulus cum fratre Remo adolevit. In Palatino ubi nunc templum lovis Propugnatoris est, Romulus etiam casam suam eadificavit. Cras collem lustrabimus et intellegetis quomodo in saeculos Maiores nostri Palatinum exornaverint.

Il Palatino, come sapete, o fanciulli, è il colle dove Romolo fondò Roma. Magnifici templi, splendidi edifici ornano il monte. Qui molti uomini illustri ebbero domicilio. Se chiamiamo giustamente Roma, capitale del mondo, diciamo giustamente il Palatino ombelico di Roma. Anticamente il monte Palatino fu la sede del re Evandro. Molti anni dopo Romolo fondò qui Roma e la circondò con un muro. Presso il campidoglio vi erano l’altare massimo di Ercole e il tempio della vittoria. Presso sentieri che conducevano dal colle al foro, gli antichi abitanti di Roma onoravano il lupercale, spelonca dove la lupa nutrì i gemelli con il latte, e il tugurio di Faustolo, dove Romolo crebbe con il fratello Remo. Sul Palatino ora vi è il tempio di Giove propugnatore, Romolo edificò anche la sua casa. Domani illustreremo il colle e capirete in che modo avranno ornato il Palatino i nostri antenati.

Historia Romana, Liber Prior, 18

Transit admiratio ab condicione temporum et ad urbium. Una urbs Attica pluribus omnis eloquentiae quam universa Graecia operibusque floruit, adeo ut corpora gentis illius separata sint in alias civitates, ingenia vero solis Atheniensium muris clausa existimes. Neque hoc ego magis miratus sim quam neminem Argivum Thebanum Lacedaemonium oratorem aut dum vixit auctoritate aut post mortem memoria dignum existimatum. Quae urbes et in alia talium studiorum fuere steriles, nisi Thebas unum os Pindari inluminaret: nam Alcmana Lacones falso sibi vindicant.

Dal condizionamento esercitato dalle varie epoche la nostra meraviglia si sposta a quello delle città. Una sola città dell’Attica fiorì nell’eloquenza per più anni e grazie a un maggior numero di opere che non tutta quanta la Grecia, tanto da credere che i corpi di quella popolazione siano stati distribuiti fra le altre città, gli ingegni invece siano rimasti entro le mura della sola Atene. E di questo non saprei meravigliarmi più che del fatto che nessun oratore di Argo, di Tebe, di Sparta sia stato giudicato meritevole di considerazione in vita o di ricordo dopo la morte. Queste città, quanto a opere di tal genere, furono tutte sterili, se non desse lustro a Tebe la voce di Pindaro; senza ragione infatti gli Spartani rivendicano come loro concittadino Alcmane.

Historia Romana, Liber Prior, 17

Neque hoc in Graecis quam in Romanis evenit magis. Nam nisi aspera ac rudia repetas et inventi laudanda nomine, in Accio circaque eum Romana tragoedia est; dulcesque Latini leporis facetiae per Caecilium Terentiumque et Afranium subpari aetate nituerunt. Historicos etiam, ut Livium quoque priorum aetati adstruas, praeter Catonem et quosdam veteres et obscuros minus octoginta annis circumdatum aevum tulit, ut nec poetarum in antiquius citeriusve processit ubertas. At oratio ac vis forensis perfectumque prosae eloquentiae decus, ut idem separetur Cato [pace P. Crassi Scipionisque et Laelii et Gracchorum et Fannii et Servii Galbae dixerim] ita universa sub principe operis sui erupit Tullio, ut delectari ante eum paucissimis, mirari vero neminem possis nisi aut ab illo visum aut qui illum viderit. Hoc idem evenisse grammaticis, plastis, pictoribus, scalptoribus quisquis temporum institerit notis, reperiet, eminentiam cuiusque operis artissimis temporum claustris circumdatam. Huius ergo recedentis in quodque saeculum ingeniorum similitudinis congregantisque se et in studium par et in emolumentum causas cum saepe requiro, numquam reperio, quas esse veras confidam, sed fortasse veri similes, inter quas has maxime. Alitur aemulatione ingenium, et nunc invidia, nunc admiratio imitationem accendit, naturaque quod summo studio petitum est, ascendit in summum difficilisque in perfecto mora est, naturaliterque quod procedere non potest, recedit. Et ut primo ad consequendos quos priores ducimus accendimur, ita ubi aut praeteriri aut aequari eos posse desperavimus, studium cum spe senescit, et quod adsequi non potest, sequi desinit et velut occupatam relinquens materiam quaerit novam, praeteritoque eo, in quo eminere non possumus, aliquid, in quo nitamur, conquirimus, sequiturque ut frequens ac mobilis transitus maximum perfecti operis impedimentum sit.

Questo si verificò in Grecia no più che a Roima. Infatti se no si vuol risalire a quelle manifestazioni rozze e grossolane e meritevoli di lode solo perché si tratta di novità, la tragedia romana è tutta in Accio e nei suoi seguaci; le garbate facezie dell’arguzia latina brillarono quasi nello stesso tempo per merito di Cecilio, Terenzio e Afranio. Quanto agli storici, inserendo anche Livio nell’epoca degli autori che lo hanno preceduto, li produsse tutti, se si eccettuano Catone e alcuni altri scrittori antichi e oscuri, uno spazio di tempo compreso in meno di ottanta anni, così come non risale più addietro né scende più in basso la ricca fioritura dei poeti. D’altra parte l’eloquenza, l’arte forense e la perfezione e lo splendore della prosa oratoria, eccettuato ancora Catone (sia detto con buona pace di P. Crasso, di Scipione, di Lelio, dei Gracchi, di Fannio e di Servio Galba), vennero a fioritura tutte quante al tempo di Tullio, loro più alto rappresentante, sicché potresti dilettarti di ben pochi oratori che lo abbiano preceduto, mentre nessuno potresti ammirare che o non sia stato da Cicerone visto o che non abbia egli stesso visto Cicerone. Chiunque osservi attentamente i segni distintivi delle varie epoche troverà che la medesima cosa è accaduta per i grammatici, i ceramisti, i pittori, gli scultori e cioè l’eccellenza nei singoli generi è racchiusa in ristretti limiti di tempo. Per quanto io continuamente ricerchi le cause per le quali ingegni simili si raggruppano in epoche singole e si trovano uniti nella medesima attività e nella medesima brillante riuscita, nessuna mai ne trovo di verosimili, tra le quali principalmente queste. L’emulazione nutre gli ingegni e ora l’invidia, ora l’ammirazione spronano all’imitazione, e quello che si è cercato col più grande amore sale per natura al punto più alto; è però difficile restare nella perfezione e per natura regredisce ciò che non può progredire. E come all’inizio ci accingiamo con ardore a raggiungere coloro che giudichiamo primi, così quando disperiamo che questi possano essere o superati o uguagliati, lo slancio e insieme la speranza vengono meno e smettono di perseguire ciò che non possono raggiungere; abbandonando per così dire una materia proprietà di altri, andiamo in cerca di una nuova; abbandonato il campo in cui non possiamo eccellere, ne cerchiamo un altro sul quale concentrare i nostri sforzi: ne consegue che questo frequente e rapido cambiamento è il più grande ostacolo alla perfezione.

Historia Romana, Liber Prior, 16 (“Quanti ingegni in poco tempo!”)

Cum haec particula operis velut formam propositi excesserit, quamquam intellego mihi in hac tam praecipiti festinatione, quae me rotae pronive gurgitis ac verticis modo nusquam patitur consistere, paene magis necessaria praetereunda quam supervacanea amplectenda, nequeo tamen temperare mihi, quin rem saepe agitatam animo meo neque ad liquidum ratione perductam signem stilo. Quis enim abunde mirari potest, quod eminentissima cuiusque professionis ingenia in eandem formam et in idem artati temporis congruere spatium, et quemadmodum clausa capso aliove saepto diversi generis animalia nihilo minus separata alienis in unum quaeque corpus congregantur, ita cuiusque clari operis capacia ingenia in similitudine et temporum et profectuum semet ipsa ab aliis separaverunt. Una neque multorum annorum spatio divisa aetas per divini spiritus viros, Aeschylum, Sophoclen Euripiden, inlustravit tragoediam; una priscam illam et veterem sub Cratino Aristophaneque et Eupolide comoediam; ac novam comicam Menander aequalesque eius aetatis magis quam operis Philemo ac Diphilus et invenere intra paucissimos annos neque imitandam reliquere. Philosophorum quoque ingenia Socratico ore defluentia omnium, quos paulo ante enumeravimus, quanto post Platonis Aristotelisque mortem floruere spatio? Quid ante Isocratem, quid post eius auditores eorumque discipulos clarum in oratoribus fuit? Adeo quidem artatum angustiis temporum, ut nemo memoria dignus alter ab altero videri nequiverint.

Sebbene questa piccola parte della mia opera sia uscita, per così dire, dal piano propostomi e io comprenda come, in questo procedere così vertiginoso che a mo’ di ruota o di rapido gorgo o di vortice non consente che mi soffermi in alcun punto, debba tralasciare l’essenziale quasi più che abbracciare il superfluo, tuttavia non posso fare a meno di esporre per iscritto un problema che ho spesso dentro di me affrontato, senza mai averlo messo in chiaro razionalmente. Chi potrebbe infatti meravigliarsi a sufficienza che gli ingegni più eccelsi nelle singole arti si trovino insieme nello stesso grado di perfezione e in un medesimo ristretto spazio di tempo e che, come animali di specie diverse, pur chiusi in gabbia o in un altro recinto, tuttavia separandosi dagli altri di altre specie, si riuniscono ciascuno in un gruppo a sé stante, così gli ingegni capaci di creare ciascuno opere nel loro genere sublimi si siano separati dagli altri per confluire in un medesimo periodo di tempo e per raggiungere un medesimo livello? Una sola epoca delimitata dallo spazio di non molti anni ha dato lustro alla tragedia grazie a uomini dall’ispirazione divina, quali Eschilo, Sofocle, Euripide, una sola epoca ha dato lustro a quella commedia antica e primitiva del tempo di Cratino, Aristofane ed Eupoli; e la commedia nuova la crearono nello spazio di pochissimi anni, e la lasciarono inimitabile, Menandro, Filemone e Difilo, pari a Menandro quest’ultimi più per il tempo in cui vissero che per le opere che composero. Anche le eccelse menti di tutti i filosofoi usciti dalla scuola di Socrate, che abbiamo elencato poco sopra, quanto tempo dopo la morte di Platone e di Aristotele fiorirono? Prima di Isocrate e dopo i suoi discepoli e i loro scolari, chi fu famoso nell’eloquenza? E furono compresi in uno spazio di tempo così ristretto che quanti di essi meritarono di essere ricordati, poterono vedersi l’un l’altro.

“De Tullii villa”

Tullius et Terentia cum magna familia in villa non longe a Velitris vivunt. Tulii villa magna et pulchra est. Servi herbidum pratum circa aedificium curant, spineas et erbas secant, frigidus rivus fluit inter floridas ripas. Piri frondosae, cerasi et mali virent et uminda mala et rubra cerasa producent. Rosae violae et lilia sunt in areolis et hedera aedificii mura tegit. Statuae et fontes (fontane) ornant semitas. Saepe Tullius in viridario cum amicis ambulat et de philosophia disputat vel in platanorum umbra epistulas filio Marco scribit. Post aedificium sunt domus villici, stabula, granaria et pistrinum.

Tullio e Terenzia vivono con la famiglia numerosa in una casa di campagna non lontano da Velletri. La casa di campagna di Tullio è grande e bella. I servi curano il prato erboso attorno all’edificio, tagliano le spine e le erbacce. Tra le fiorenti rive scorre un freddo ruscello. Verdeggiano folti peri, cigliegi e meli e prontamente producono pere succose, mele gustose e rosse cigligie. Nelle aiuole ci sono rose, viole e lillà e l’edera copre le mura dell’ edificio. Ornano le entrate statue e fontane. Spesso Tullio passeggia con gli amici nel giardino e discorre di filosofia o scrive, all’ombra dei platani, lettere al figlio Marco. Dietro all’edificio ci sono la casa del fattore, le stalle, i granai e il mulino.

“Boni contro improbi”

Sic enim existimare debetis, Quirites, post hominum memoriam rem nullam maiorem, magis periculosam, magis ab omnibus vobis providendam neque a tribuno plebis susceptam neque a consule defensam neque ad populum Romanum esse delatam. Agitur enim nihil aliud in hac causa, Quirites, nisi ut nullum sit posthac in re publica publicum consilium, nulla bonorum consensio contra improborum furorem et audaciam, nullum extremis rei publicae temporibus perfugium et praesidium salutis. Quae cum ita sint, primum, quod in tanta dimicatione capitis, famae fortunarumque omnium fieri necesse est, ab Iove Optimo Maximo ceterisque dis deabusque immortalibus, quorum ope et auxilio multo magis haec res publica quam ratione hominum et consilio gubernatur, pacem ac veniam peto precorque ab eis ut hodiernum diem et ad huius salutem conservandam et ad rem publicam constituendam inluxisse patiantur. Deinde vos, Quirites, quorum potestas proxime ad deorum immortalium numen accedit, oro atque obsecro, quoniam uno tempore vita C. Rabiri, hominis miserrimi atque innocentissimi, salus rei publicae vestris manibus suffragiisque permittitur, adhibeatis in hominis fortunis misericordiam, in rei publicae salute sapientiam quam soletis.

Così infatti, o Romani, dovete valutare che a memoria d’uomo (non c’è) nessuna cosa più importante, più rischiosa, e che maggiormente da tutti voi deve essere considerata con prudenza, né che è stata intrapresa da un tribuno della plebe, né che è stata tutelata da un console, né che è stata presentata al popolo romano. In effetti in questo processo non si discute di null’altro, o Romani, se non del fatto che in futuro nella repubblica non ci sia nessuna assemblea pubblica, nessuna alleanza dei (cittadini) onesti contro la furia e l’insolenza dei malvagi, nessun rifugio e nessuna garanzia di benessere nelle congiunture più gravi della repubblica. Dal momento che le cose stanno così, poiché in una così grave contesa capite bene che ne va della gloria e delle sorti di tutti, è necessario per prima cosa che io invochi la benevolenza e il favore da Giove Ottimo Massimo e da tutti gli altri dei e dee immortali, dalla cui autorità e protezione questa repubblica è governata assai più che dal raziocinio e dalla saggezza degli uomini, e imploro essi affinché facciano sì che il giorno odierno sia venuto alla luce sia per preservare il benessere della repubblica sia per fondare una (nuova) repubblica. In seconda battuta scongiuro e supplico voi, o Romani, il cui potere si avvicina molto alla potenza degli dei immortali, poiché la vita di C. Rabirio, uomo infelicissimo e assolutamente innocente, e il benessere della repubblica sono rimessi contemporaneamente nelle vostre mani e nei vostri suffragi, di dimostrare riguardo alla sorte dell’uomo la misericordia, riguardo al benessere della repubblica la saggezza di cui siete soliti far mostra.

“Arianna abbandonata da Teseo”

Theseus, Agei filius, Athenis ad insulam Cretam venit et ab Ariadna, venusta Minois filia, adamatur. In insula labyrintho Minotaurus vivit. Monstrum adulescentulos puellasque vorat. Theseus Minotaurum occidit et Ariadna labyrinthi effugium Theseo monstrat. Deinde puella cum Theseo patriam Cretam relinquit sed postea Naxi a viro in sommo relinquitur. Maesta puella pelagus spectat et flet: Thesei navigium non videt. Deindeper insulae oram currit sed alta harena puellae pedes tardat. Ariadna in desertam oram cadit et umida harena ec purpura peplum foedat. Ariadna virum clamat: ” Theseus!” vir non respondet: Ariadna in insula sola est. Puella, pavida, insulam ecplorat: ubicumque pelagus scopulique sunt. Nivea luna in caelo splendet, splendidae stellae caelum illuminant. Procul ab insula candidae, liberae gaviae ad caelum advolant. Interea Theseus procul ab insula celeriter navigat: nam Athenas remeare statuit. Tum Ariadna vela videt et magna cum tristitia flet: totam insulam cingit pelagus. At postea Bacchus, vini deus, Ariadnae lamentaaudit er puellae auxilio venire statuit. Puellae formam laudat et puellam in coniugium ducit. Ita Ariadna cum deis deabusque vivit.

Teseo, figlio di Egeo, viene da Atene nell’ isola, ed è amato da Arianna, la bella figlia di Minosse. Nell’isola vi è un labirinto: nel labirinto vive il Minotauro. Il mostro divora giovani e fanciulle. Teseo uccide il Minotauro ed Arianna mostra a Teseo l’uscita del labirinto. Poi la fanciulla con Teseo lascia la patria, Creta, ma successivamente viene abbandonata dall’uomo a Nasso. La fanciulla, sconsolata, osserva il mare e non vede l’imbarcazione di Teseo. Poi corre per la spiaggia dell’isola, ma la sabbia alta rallenta i piedi della giovane. Arianna cade sulla spiaggia deserta e l’umida sabbia sporca la veste di porpora. Arianna chiama l’uomo: “Teseo!” – l’uomo non risponde. Arianna è sola sull’isola. La fanciulla, impaurita, esplora l’isola: il mare e gli scogli sono ovunque. La candida luna splende in cielo, stelle luminose illuminano il cielo. Lontano dall’isola, candidi, liberi gabbiani volano verso il cielo. Nel frattempo Teseo naviga velocemente lontano dall’isola: infatti ha deciso di tornare ad Atene. Allora Arianna vede le vele e piange con grande tristezza: il mare circonda tutta l’isola. Ma in seguito Bacco, dio del vino, ode i lamenti di Arianna e decide di venire in aiuto alla fanciulla. Loda la bellezza della giovane e la sposa. Così Arianna vive con gli dei e le dee.

“Un’arguta battuta”

Narrant Aristippum philosophum obviam ivisse Dionysio, Syracusarum tyranno, in via cum satellitibus procedenti et magna voce exclamavisse: “Te oro, Dionysie, ut fratrem meum e vinc.ulis dimittas”. Frater Aristippi enim cum paucis civitatis princibus contra tyrannum conspiraverat et, coniuratione patefacta, in carcerem coniectus erat. Sed Dionysius eius preces non audivit neque iter intermisit. Tum philosophus ad pedes tyranni se proiecit et osc.ulo vestem contigit sperans se eius animum penitus (avv.) commoturum esse. Etenim Dionysius, tanto obsequio commotus, fratrem Aristippi e carcere produci iussit. Sed cives quidam, cum rem vidissent, tam servile obsequium exprobrantes, id viro libero ac sapienti indignum esse dixerunt. Tum Aristippus, leniter subridens iis respondit: “Cur me obiurgatis? Non mea est culpa, sed DIonysii: nam ei aures in pedibus sunt!”.

Narrano che il filosofo Aristippo sia andato incontro a Dionisio, tiranno di Siracusa, che procedeva per la strada con le guardie del corpo ed avesse esclamato a gran voce: “Ti prego, o Dionisio, di lasciare uscire mio fratello dal carcere”. Il fratello di Aristippo, infatti, aveva cospirato contro il tiranno con pochi capi della città e, una volta scoperta la congiura, era stato mandato in prigione. Ma Dionisio non ascoltò le sue preghiere né interruppe il cammino. Allora il filosofo si lanciò ai piedi del tiranno e toccò l’abito con le labbra sperando che avrebbe profondamente commosso il suo animo. Difatti Dionisio, mosso da tanto ossequio, ordinò che il fratello di Aristippo fosse scarcerato. Ma alcuni cittadini, avendo visto la cosa, rimproverandogli un ossequio così servile, dissero che esso non era degno di un uomo libero e sapiente. Allora Aristippo rispose loro sorridendo: “Perché mi rimproverate? Non è mia la colpa, ma di Dionisio: infatti egli ha le orecchie nei piedi!”.

“Un oracolo ambiguo”

Exiguus numerus troianorum urbem ardentem reliquerat et in collese finitimus confugerat. Ubi aeneas cum patre sene et parvo filio paucisque comitibus convenit atque brevem sed acrem orationem habuit ut omnium animos confirmaret: “Troiani, patria nostra a grecis capta incensasque est, tamen ne desperaveritis de salute vestra: diis adiuvantibus, novam troiam in aliis terris condemus”. Troiani cum aeneae verba laeti accepissent, classem comparaverunt ut terras ignotas peterent. Primum cum naves ascendissent, ad thraciam cursum direxerunt. Ibi aeneas comitibus imperavit ut novae urbis moenia aedificarent. Sed accidit ut immane portentum troianorum duci tantum terrorem afferrent ut sine mora statuerit terram inhospitalem delinquere et ad insulam delum navigare, consulturus oraculum dei apollinis. Cum in insulam pervenisset et ad apollinis templum ascendisset deum sic rogavit: “Ubi considere debent troiani? Quo imperas ut pergamus?”. Deus dubium responsum edidit: “Troiani, antiquam matrem quaerite”. Aeneas oraculum non intellexit, sed pater Anchises exclamavit: “Ego oraculum intellego. Antiqua mater Troianorum est insulam Creta; nam ex Creta Teucer, gentis Troianae progenitor, in Asiam pervenit. Deus Apollo igitur nos monet ut in insula Creta considamus. Ad Cretam igitur festinemus!”.

Un esiguo numero di Troiani aveva lasciato la citta che bruciava e si era rifugiata nei colli confinanti. Qui Enea giunse con il padre vecchio e con il piccolo figlio e con pochi compagni e tenne un discorso breve ma duro per rafforzare gli animi di tutti: “O Troiani, la nostra patria è stata presa e incendiata dai Greci, tuttavia non disperatevi della vostra salvezza: con l’aiuto degli dei, fonderemo una nuova troia in altre terre”. I Troiani avendo appreso lieti le parole di Enea, prepararono la flotta per cercare terre sconosciute. Per primo avendo issato le navi, diressero il corso verso la Tracia. Qui Enea comandò ai suoi compagni che edificassero nuove mura della città. Ma accadde che uno strano prodigio portasse tanto terrore tra i Troiani che senza indugio stabilì di mancare una terra inospitale e di navigare verso l’isola di Delo, per consultare l’oracolo di Delfi. Essendo giunti nell’isola e entrati nel tempio di Apollo così interrogò il dio: “Dove devono accamparsi i Troiani? Come consigli di procedere?”. Il dio diede un incerto responso: “O Troiani, cercate una madre antica”. Enea non capì l’oracolo, ma il padre Anchise esclamò: “Io capisco l’oracolo, l’antica madre dei Troiani è l’isola di Creta, infatti da Creta in Asia deriva Teucro, progenitore della stirpe troiana. Il dio Apollo dunque ci ammonisce di accamparci presso l’isola di Creta. Dunque affrettiamoci verso Creta!”.

“I Druidi sono anche giudici”

In omni Gallia eorum hominum, qui aliquo sunt numero atque honore, genera sunt duo. Nam plebes paene servorum habetur loco, quae nihil audet per se, nullo adhibetur consilio. Plerique, cum aut aere alieno aut magnitudine tributorum aut iniuria potentiorum premuntur, sese in servitutem dicant nobilibus: in hos eadem omnia sunt iura, quae dominis in servos. Sed de his duobus generibus alterum est druidum, alterum equitum. Illi rebus divinis intersunt, sacrificia publica ac privata procurant, religiones interpretantur: ad hos magnus adulescentium numerus disciplinae causa concurrit, magnoque hi sunt apud eos honore. Nam fere de omnibus controversiis publicis privatisque constituunt, et, si quod est admissum facinus, si caedes facta, si de hereditate, de finibus controversia est, idem decernunt, praemia poenasque constituunt; si qui aut privatus aut populus eorum decreto non stetit, sacrificiis interdicunt. Haec poena apud eos est gravissima.

In tutta la Gallia ci sono due classi di persone tenute in un certo conto e riguardo. La gente del popolo, infatti, è considerata quasi alla stregua dei servi, non prende iniziative e non viene ammessa alle assemblee. I più, oberati dai debiti, dai tributi gravosi o dai soprusi dei potenti, si mettono al servizio dei nobili, che su di essi godono degli stessi diritti che hanno i padroni sugli schiavi. Delle due classi, dunque, la prima comprende i druidi, l’altra i cavalieri. I druidi si occupano delle cerimonie religiose, provvedono ai sacrifici pubblici e privati, regolano le pratiche del culto. Moltissimi giovani accorrono a istruirsi dai druidi, che tra i Galli godono di grande onore. Infatti, risolvono quasi tutte le controversie pubbliche e private e, se è stato commesso un reato, se c’è stato un omicidio, oppure se sorgono problemi d’eredità o di confine, sono sempre loro a giudicare, fissando risarcimenti e pene. Se qualcuno – si tratti di un privato cittadino o di un popolo – non si attiene alle loro decisioni, gli interdicono i sacrifici. È la pena più grave tra i Galli.

De Bello Gallico, VI, 13

In omni Gallia eorum hominum, qui aliquo sunt numero atque honore, genera sunt duo. Nam plebes paene servorum habetur loco, quae nihil audet per se, nullo adhibetur consilio. Plerique, cum aut aere alieno aut magnitudine tributorum aut iniuria potentiorum premuntur, sese in servitutem dicant nobilibus: in hos eadem omnia sunt iura, quae dominis in servos. Sed de his duobus generibus alterum est druidum, alterum equitum. Illi rebus divinis intersunt, sacrificia publica ac privata procurant, religiones interpretantur: ad hos magnus adulescentium numerus disciplinae causa concurrit, magnoque hi sunt apud eos honore. Nam fere de omnibus controversiis publicis privatisque constituunt, et, si quod est admissum facinus, si caedes facta, si de hereditate, de finibus controversia est, idem decernunt, praemia poenasque constituunt; si qui aut privatus aut populus eorum decreto non stetit, sacrificiis interdicunt. Haec poena apud eos est gravissima. Quibus ita est interdictum, hi numero impiorum ac sceleratorum habentur, his omnes decedunt, aditum sermonemque defugiunt, ne quid ex contagione incommodi accipiant, neque his petentibus ius redditur neque honos ullus communicatur. His autem omnibus druidibus praeest unus, qui summam inter eos habet auctoritatem. Hoc mortuo aut si qui ex reliquis excellit dignitate succedit, aut, si sunt plures pares, suffragio druidum, nonnumquam etiam armis de principatu contendunt. Hi certo anni tempore in finibus Carnutum, quae regio totius Galliae media habetur, considunt in loco consecrato. Huc omnes undique, qui controversias habent, conveniunt eorumque decretis iudiciisque parent. Disciplina in Britannia reperta atque inde in Galliam translata esse existimatur, et nunc, qui diligentius eam rem cognoscere volunt, plerumque illo discendi causa proficiscuntur

In tutta la Gallia ci sono due classi di persone tenute in un certo conto e riguardo. La gente del popolo, infatti, è considerata quasi alla stregua dei servi, non prende iniziative e non viene ammessa alle assemblee. I più, oberati dai debiti, dai tributi gravosi o dai soprusi dei potenti, si mettono al servizio dei nobili, che su di essi godono degli stessi diritti che hanno i padroni sugli schiavi. Delle due classi, dunque, la prima comprende i druidi, l’altra i cavalieri. I druidi si occupano delle cerimonie religiose, provvedono ai sacrifici pubblici e privati, regolano le pratiche del culto. Moltissimi giovani accorrono a istruirsi dai druidi, che tra i Galli godono di grande onore. Infatti, risolvono quasi tutte le controversie pubbliche e private e, se è stato commesso un reato, se c’è stato un omicidio, oppure se sorgono problemi d’eredità o di confine, sono sempre loro a giudicare, fissando risarcimenti e pene. Se qualcuno – si tratti di un privato cittadino o di un popolo – non si attiene alle loro decisioni, gli interdicono i sacrifici. È la pena più grave tra i Galli. Chi ne è stato colpito, viene considerato un empio, un criminale: tutti si scostano alla sua vista, lo evitano e non gli rivolgono la parola, per non contrarre qualche sciagura dal suo contatto; non è ammesso a chiedere giustizia, né può essere partecipe di qualche carica. Tutti i druidi hanno un unico capo, che gode della massima autorità. Alla sua morte, ne prende il posto chi preceda gli altri druidi in prestigio, oppure, se sono in parecchi ad avere uguali meriti, la scelta è lasciata ai voti dei druidi, ma talvolta si contendono la carica addirittura con le armi. In un determinato periodo dell’anno si radunano in un luogo consacrato, nella regione dei Carnuti, ritenuta al centro di tutta la Gallia. Chi ha delle controversie, da ogni regione qui si reca e si attiene alla decisione e al verdetto dei druidi. Si crede che la loro dottrina sia nata in Britannia e che, da lì, sia passata in Gallia: ancor oggi, chi intende approfondirla, in genere si reca sull’isola per istruirsi.

De Bello Gallico, VI, 11

Quoniam ad hunc locum perventum est, non alienum esse videtur de Galliae Germaniaeque moribus et quo differant hae nationes inter sese proponere. In Gallia non solum in omnibus civitatibus atque in omnibus pagis partibusque, sed paene etiam in singulis domibus factiones sunt, earumque factionum principes sunt qui summam auctoritatem eorum iudicio habere existimantur, quorum ad arbitrium iudiciumque summa omnium rerum consiliorumque redeat. Itaque eius rei causa antiquitus institutum videtur, ne quis ex plebe contra potentio rem auxili egeret: suos enim quisque opprimi et circumveniri non patitur, neque, aliter si faciat, ullam inter suos habet auctoritatem. Haec eadem ratio est in summa totius Galliae: namque omnes civitates in partes divisae sunt duas.

Poiché si è giunti a questo punto della narrazione non sembra che sia inopportuno parlare dei costumi della Gallia e della Germania e in che cosa differiscono queste popolazioni fra loro. In Gallia esistono fazioni non solo in tutte le città, villaggi e cantoni, ma anche quasi in ogni casa, e di queste fazioni sono i capi coloro che a loro giudizio si stima che abbiano la massima autorità, al cui giudizio e arbitrio è affidato il sommo potere decisionale. E sembra che ciò sia stato stabilito anticamente a questo scopo, affinché nessuno fra la plebe fosse privo di difese contro i più potenti: infatti nessuno sopporta che i suoi vengano oppressi e sopraffatti e non avrebbe nessuna autorità fra i suoi se agisse diversamente. Questo regime è lo stesso in tutta quanta la Gallia: ed infatti tutte le città sono divise in due partiti.