“I due muli e i ladri”

Duo muli eodem itinere procedebant, ponderosi sarcinis gravati: alter eorum gerebat fiscos cum pecunia, alter saccos tumentes, ulto hordeo. Mulus onere dives celsa cervice procedebat, clarumque tintinnabulum collo iactabat; comes quieto et placido gradu pone veniebat. Subito latrones ex insidiis advolant interque caedem mulum pecuniam gerentem ferro sauciant, nummos diripiunt, neglegunt autem alterum, qui vile hordeum gerit. Postquam latrones discesserunt, mulus pecunia spoliatus et saucius casus suos misere flebat. Tum alter: “Equidem”, inquit, “valde laetus sum quia latrones me contempserunt: nam nihil arrisi, neque ullum vulnus accepi”. Hoc argumento hominum tenuitas tuta est; contra magnae opes Semper alicui periculo obnoxiae sunt.

Due muli percorrevano la stessa strada, gravati da pesanti some: uno di loro portava casse piene di denaro, l’altro sacchi gonfi di una gran quantità d’orzo. Il mulo dal carico ricco camminava a testa alta e agitava con il collo un sonaglio squillante; il suo compagno veniva dietro con passo calmo e tranquillo. All’improvviso dei ladroni saltano fuori da un appostamento e durante la rapina feriscono il mulo che portava il denaro con un’arma da taglio, rubano i soldi ma non si curano dell’altro, che porta l’orzo da poco prezzo. Dopo che i rapinatori si furono allontanati il mulo spogliato del denaro e ferito, piangeva miseramente le sue disgrazie. Allora l’altro disse: “Io invece sono molto lieto perché i ladroni mi hanno trascurato: infatti non ho perso nulla e non ho ricevuto nessuna ferita”. L’ammaestramento da trarre da questo fatto è che essere insignificanti è una sicurezza per gli uomini; al contrario le grandi ricchezze sono sempre pericolose per qualche insidia.

“I Carnuti uccidono Tasgezio”

Erat in Carnutibus summo loco natus Tasgetius, cuius maiores in sua civitate regnum obtinuerant. Huic Caesar pro eius virtute atque in se benevolentia, quod in omnibus bellis
singularem eius operam adhibuerat, maiorum locum restituerat. Tertium iam annum Tasgetium regnantem inimici, multis palam ex civitate auctoribus(per palese istigazione), interfecerunt. Defertur ea res ad Caesarem, quem eius mortis valde miseritum est. Ille veritus, quod ad plures pertinebat(sottintendere quel delitto), ne civitas eorum impulsu deficeret, Lucium PLancum cum legione ex Belgio celeriter in Carnutes proficisci iubet ibique hiemare, quorumque opera cognoverat Tasgetium interfectum, hos comprehensos ad se mittere. Interim omnes legati quaestoresque, quibus legiones traditae erant, certiorem Caesarem fecerunt in hiberna se pervenisse lucumque hibernis esse munitum.

Tra i Carnuti viveva una persona di nobili natali, Tasgezio, i cui antenati avevano regnato sul paese: Cesare gli aveva restituito il rango degli avi, in considerazione del suo valore e della sua fedeltà, dato che in tutte le guerre Cesare si era avvalso del suo contributo incomparabile. Tasgezio era già al suo terzo anno di regno, quando i suoi oppositori lo eliminarono con una congiura, mentre anche molti cittadini avevano appoggiato apertamente il piano. La cosa viene riferita a Cesare, che, temendo una defezione dei Carnuti sotto la spinta degli oppositori – parecchi erano implicati nella vicenda – ordina a L. Planco di partire al più presto dal Belgio alla testa della sua legione, di raggiungere il territorio dei Carnuti e di passarvi l’inverno: chiunque gli risultasse implicato nell’uccisione di Tasgezio, doveva essere arrestato e inviato a Cesare. Nello stesso tempo, tutti gli ufficiali preposti alle legioni informano Cesare che erano giunti ai quartieri d’inverno e che le fortificazioni erano ormai ultimate.

Ab Urbe Condita, XXIX, 20

Haec quamquam partim vera partim mixta eoque similia veris iactabantur, tarnen vicit Q. Metelli sententia qui de ceteris Maximo adsensus de Scipionis causa dissensit: qui enim convenire quem modo civitas iuvenem admodum unum reciperandae Hispaniae delegerit ducem, quem recepta ab hostibus Hispania ad imponendum Punico bello finem creaverit consulem, spe destinaverit Hannibalem ex Italia retracturum, Africam subacturum, eum repente, tamquam Q. Pleminium, indicta causa prope damnatum ex provincia revocari, cum ea quae in se nefarie facta Locrenses quererentur ne praesente quidem Scipione facta dicerent, neque aliud quam patientia aut pudor quod legato pepercisset insimulari posset? Sibi piacere M. Pomponium praetorem, cui Sicilia provincia sorti evenisset, triduo proximo in provinciam proficisci: consules decern legatos quos iis videretur ex senatu legere quos cum praetore mitterent, et duos tribunos plebei atque aedilem; cum eo Consilio praetorem cognoscere; si ea quae Locrenses facta quererentur iussu aut voluntate P. Scipionis facta essent, ut eum de provincia decedere iuberent; si P. Scipio iam in Africam traiecisset, tribuni plebis atque aedilis cum duobus legatis quos maxime idoneos praetor censuisset in Africam proficiscerentur, tribuni atque aedilis qui reducerent inde Scipionem, legati qui exercitui praeessent donec novus imperator ad eum exercitum venisset: si M. Pomponius et decern legati comperissent neque iussu neque voluntate P. Scipionis ea facta esse, ut ad exercitum Scipio maneret bellumque ut proposuisset gereret. Hoc facto senatus consulto, cum tribunis plebis actum est aut compararent inter se aut sorte legerent qui duo cum praetore ac legatis irent: ad collegium pontificum relatum de expiandis quae Locris in tempio Proserpinae tacta ac violata elataque inde essent. Tribuni plebis cum praetore et decern legatis profecti M. Claudius Marcellus et M. Cincius Alimentus; aedilis plebis datus est quem, si aut in Sicilia praetori dicto audiens non esset Scipio aut iam in Africam traiecisset, prendere tribuni iuberent, ac iure sacrosanctae potestatis reducerent. prius Locros ire quam Messanam consilium erat.

Benché queste cose che si spacciavano fossero vere in parte, in parte miste, e per ciò più simili al vero, nondimeno prevalse il parere di Quinto Metello, il quale, assentendo quanto al resto a Quinto Fabio, discordò quanto a Scipione. “Infatti, come accordare insieme, che quello che testé la città elesse assai giovane a recuperare la Spagna, quello che, recuperata la Spagna, creò console per metter fine alla guerra Cartaginese, per opera del quale sperò che Annibale potesse essere scacciato dall’Italia e l’Africa soggiogata, questo stesso, come un altro Quinto Pleminio, quasi condannato prima di ascoltarlo sia improvvisamente richiamato dalla provincia? Mentre che le iniquità, di cui si dolgono i Locresi non le dicono commesse presente Scipione, né di altro si può tacciarlo, che di pazienza o troppo rispetto per aver perdonato al legati. Era egli d’avviso, che il pretore Marco Pomponio, cui era toccata in sorte la Sicilia, nei prossimi tre giorni andasse al suo governo; che i consoli scegliessero nel senato dieci legati, che paresse loro, mandandoli con il pretore e insieme due tribuni della plebe ed un edile; che il pretore con questo consiglio conoscesse della cosa. Se avessero trovato i falli di cui si lamentavano i Locresi avvenuti per volontà o comando di Publio Scipione, gli ordinassero di partire dalla provinicia. Se Publio Scipione fosse già passato in Africa, i tribuni della plebe, e l’edile con due legati che il pretore stimasse più idonei, andassero in Africa; i tribuni e l’edile per portare via da lì Scipione; i legati per attendere all’esercito, in sino a tanto, che vi giungesse il nuovo comandante. Se poi Marco Pomponio e i dieci legati avessero trovato che quelle cose non erano state fatte né per comando, né per volere di Publio Scipione, rimanesse Scipione al comando dell’esercito, governasse la guerra nella forma, che aveva proposto”. Fatto questo decreto, si trattò con i tribuni, perché tra loro convenissero o scegliessero a sorte i due che andassero col pretore e con i legati. Si consultò il collegio dei pontefici intorno all’espiazione da farsi per le cose toccate, violate o portate via dal tempio di Proserpina in Locri. Partirono con il pretore e con i dieci legati i tribù della plebe Marco Claudio Marcello e Marco Cinzio Alimento. Si aggiunse loro un edile della plebe, al quale, se Scipione o in Sicilia o di già passato in Africa ricusasse di obbedire, i tribuni commettessero di arrestarlo, e in virtù del sacrosanto loro potere, lo riportassero. Erano del parere di andare prima a Locri che a Messina.

Epistularum Libri Decem, VIII, 16 (“Umanità verso gli schiavi”)

Confecerunt me infirmitates meorum, mortes etiam, et quidem iuvenum. Solacia duo nequaquam paria tanto dolori, solacia tarnen: unum facilitas manumittendi – videor enim non omnino immaturos perdidisse, quos iam liberos perdidi -, alterum quod permitto servis quoque quasi testamenta facere, eaque ut legitima custodio. Mandant rogantque quod visum; pareo ut iussus. Dividunt donant relinquunt, dumtaxat intra domum; nam servis res publica quaedam et quasi civitas domus est. Sed quamquam his solaciis adquiescam, debilitor et frangor eadem ilia humanitate, quae me ut hoc ipsum permitterem induxit. Non ideo tarnen velim durior fieri. Nec ignoro alios eius modi casus nihil amplius vocare quam damnum, eoque sibi magnos homines et sapientes videri. Qui an magni sapientesque sint, nescio; homines non sunt. Hominis est enim adfici dolore sentire, resistere tarnen et solacia admittere, non solaciis non egere. Verum de his plura fortasse quam debui; sed pauciora quam volui. Est enim quaedam etiam dolendi voluptas, praesertim si in amici sinu defleas, apud quem lacrimis tuis vel laus sit parata vel venia.

Mi rattristarono le malattie della mia gente, anche le morti, e anche di persone giovani. Due sole consolazioni non certo pari a sì gran dolore, ma pur consolazioni: anzitutto la possibilità di operar manomissioni (mi pare infatti di non aver perduto troppo immaturamente coloro che perdetti da liberi), poi il permesso accordato anche agli schiavi di fare delle specie di testamenti e che io rispetto come avessero valor legale. Dispongono e pregano, come a lor pare; obbedisco come a degli ordini. Essi fanno partizioni, donazioni, lasciti, a condizione che tutto avvenga nella cerchia domestica, giacché la casa per gli schiavi è per così dire lo Stato e quasi la loro città. Ma benché io sia confortato da queste consolazioni, mi abbatte e mi snerva la stessa tenerezza che mi ha indotto a permettere tali gesti. Non perciò voglio divenire men sensibile. Né ignoro che altri considerano null’altro che un danno dei casi di tal genere, pur stimando se stessi e del grandi uomini e dei saggi. Saggi non so se lo sono, uomini no di certo. È infatti dell’uomo essere scosso dal dolore, sentirlo, sapervi tuttavia resistere e ricever consolazioni, non già non aver bisogno di consolazione. Ma ho forse detto più di quel che dovevo, ma meno di quello che volevo. Infatti c’è una specie di voluttà anche nel dolore; soprattutto se tu versi le tue lacrime nel seno di un amico, disposto sempre a lodarle o a compatirle.

Noctes Atticae, II, 29 (“L’allodola saggia”)

Avicùla est parva cui nomen est cassita. Habitat nidificatque in segetibus ut appétat messis pullis iam iam plumantibus. Ea cassita in sementes tempestiviores forte congessèrat; propterea, frumentis flavescentibus, pulli etiam tunc involùcres erant. Dum igitur ipsa iret cibum pullis quaesitum, monet eos ut, si quid ibi rei novae fieret dicereturve, animadverterent idque sibi referrent, cum redisset. Postea dominus segètum illarum filium adulescentem vocat et: “Videsne – inquit – haec ematuruisse et manus iam postulare? Idcirco cras, ubi primum diluculabit, fac ad amicos eas et roges veniant et messim nobiscum resécent”. Haec ubi dixit, discessit. Atque ubi redit cassita, pulii tremibundi, trepiduli circumstrepunt orantque matrem ut iam statim propéret inque alium locum sese asportet: “Nam dominus – inquunt – amicos rogavit ut luce oriente veniant et metant”. Mater iubet eos otioso animo esse: “Si enim dominus – inquit – messim ad amicos reicit, cras seges non metetur neque necesse est hodie ut vos auferam.” Die igitur postero mater in pabulum volat. Dominus quos rogaverat opperitur. Sol fervit, et fit nihil; it dies, et amici nulli eunt. Tum ille rursum ad filium: “Amici isti cessatores sunt. Quin potius imus ad cognatos adfinesque nostros et oramus ut adsint cras tempéri ad metendum?” Itìdem hoc pulli pavefacti matri nuntiant. Mater hortatur ut tum quoque sine metu ac sine cura sint, cognatos adfinesque nullos tam esse obsequibiles ait, ut ad laborem capessendum nihil cunctentur et statim dicto oboediant. “Vos modo – inquit – adverfite, si quid denuo diceretur”. Alia luce orta avis in pastum profecta est.. Cognati et adfines operam, quam dare rogati sunt, supersedérunt. Ad postremum igitur dorninus filio: “Valeant- inquit – amici cum propinquis. Afferes primo luci falces duas, unam egòmet mihi et tu tibi alteram et frumentum nosmet ipsi manibus nostris cras metemus”. Id ubi ex pullis mater audivit dixisse dominum: “Tempus – inquit – est cedendi et abeundi; et nunc dubio procul quod futurum esse dixit. In ipso enim res est, non in alio, unde petitur”. Atque ita cassita nidum migravit, seges a domino demessa est.

C’è un piccolo uccello che si chiama allodola. Abita e nidifica nei campi di grano, abbastanza presto, in modo che, quando si raccolgono le messi, i piccoli siano già in grado di volare. Un’allodola per caso aveva nidificato in un campo di grano primaticcio, sicché quando le messi biancheggiarono i piccoli non avevano ancora messo le piume. Mentre la madre ne se andava in cerca di cibo, ammonì i piccini che se accadeva qualcosa di nuovo vi prestassero bene attenzione, e fossero quindi in grado di avvertirla al suo ritorno. Sopraggiunge il padrone delle messi e chiama il figlio giovanetto, dicendogli: “Non ti pare che esse siano mature e attendano ormai la mano dell’uomo? Domani, dunque, al sorgere del sole, va’ a trovare i nostri amici e chiedi loro che vengano a darci una mano e ci aiutino a mietere le messi”. Così parlò e se ne andò. Quando l’allodola rientrò, i piccoli, tremanti e ansiosi, le furono attorno stridendo e pregavano la madre che si affrettasse a trasportarli in un altro luogo: “Il padrone” dicevano “ha mandato a cercare degli amici perché vengano allo spuntar del sole e mietano”. La madre ordinò loro di star di buon animo, dicendo: “Se anche il padrone si è rivolto agli amici, non mieterà le messi e non è necessario che io vi porti via oggi”. Il giorno dopo la madre se ne vola in cerca di cibo. Il padrone attende coloro che aveva chiamato, il sole già scotta e nulla accadde; il giorno avanza e nessun amico arriva. Allora egli dice al figlio: “Questi amici sono una genìa di fannulloni. Perché piuttosto non ce ne andiamo a pregare i nosti parenti e vicini, chiedendo che vengano domani per tempo a mietere?”. I piccoli, spaventati, riferiscono anche questo alla madre. La madre li esorta a non aver paura od affanno alcuno, giacché, afferma, non vi son parenti o vicini così servizievoli da iniziare un lavoro senza ritardo o da obbedire non appena avvertiti. “Se però” – dice – “udite di nuovo qualcosa, avvertitemi”. Appena spunta il nuovo dì, se ne va in cerca di cibo. I parenti e gli amici ben si guardano dal dare la propria opera alla quale eran stati chiamati. Alla fine il padrone dice al figlio: “Gli amici valgono quanto i parenti; allo spuntar del sole porta due falci; io stesso ne prenderò una e tu l’altra e mieteremo domani il frumento con le nostre stesse braccia”. Avendo la madre udito dai piccoli ciò che il padrone aveva annunciato: “E’ tempo” disse “di abbandonare il posto e andarcene; senza dubbio accadrà ciò che ha detto di voler fare. Ora infatti l’azione dipende da chi deve compierla, non da altrui cui è stata richiesta”. E senza tardare l’allodola portò via la nidiata, e le messi furono mietute dal padrone”.

Institutio oratoria, XII, I, 1-2-3

1 – Sit ergo nobis orator quem constituimus is qui a M. Catone finitur vir bonus dicendi peritus, verum, id quod et ille posuit prius et ipsa natura potius ac maius est, utique vir bonus: id non eo tantum quod, si vis illa dicendi malitiam instruxerit, nihil sit publicis privatisque rebus perniciosius eloquentia, nosque ipsi, qui pro virili parte conferre aliquid ad facultatem dicendi conati sumus, pessime mereamur de rebus humanis si latroni comparamus haec arma, non militi.
2 – Quid de nobis loquor? Rerum ipsa natura, in eo quod praecipue indulsisse homini videtur quoque nos a ceteris animalibus separasse, non parens sed noverca fuerit si facultatem dicendi sociam scelerum, adversam innocentiae, hostem veritatis invenit. Mutos enim nasci et egere omni ratione satius fuisset quam providentiae munera in mutuam perniciem convertere.
3 – Longius tendit hoc iudicium meum. Neque enim tantum id dico, eum qui sit orator virum bonum esse oportere, sed ne futurum quidem oratorem nisi virum bonum. Nam certe neque intellegentiam concesseris iis qui proposita honestorum ac turpium via peiorem sequi malent, neque prudentiam, cum in gravissimas frequenter legum, semper vero malae conscientiae poenas a semet ipsis inproviso rerum exitu induantur.

1 – L’oratore che mi sono riproposto di formare con i miei insegnamenti deve essere quindi un uomo perbene esperto nell’arte del parlare, secondo la definizione di Marco Porcio Catone. Ma quello che Catone ha messo al primo posto, e che è l’aspetto più pregevole e più grande per la sua stessa natura, è il suo essere un uomo perbene, e questo per due motivi. Se infatti quest’abilità retorica fornisse a un simile oratore soltanto le armi della frode, l’eloquenza sarebbe ciò che vi è di più dannoso per il bene comune e per il bene dei singoli cittadini; io stesso, che pure ho compiuto sforzi incredibili, per quanto era nelle mie possibilità, nel tentativo di far progredire in qualcosa le possibilità dell’arte oratoria, avrei fatto un pessimo servizio all’umanità fornendo queste armi non a un soldato, ma a un brigante.
2 – Perchè parlo di me? La natura stessa, proprio per aver dimostrato una particolare benevolenza nei confronti degli uomini e per averci voluto distinguere dagli altri animali, sarebbe stata una matrigna, e non una madre, se avesse inventato l’arte oratoria per farla diventare complice dei delitti, avversaria dell’innocenza, nemica della verità. Sarebbe infatti stato meglio nascere muti ed essere totalmente privi dell’intelligenza piuttosto che trasformare i doni della provvidenza nella nostra rovina reciproca.
3 – Ma, secondo me, la questione va ancora più oltre. Non voglio dire infatti soltanto che un oratore deve essere un uomo perbene, ma affermo anzi che, se non è un uomo perbene, non potrà nemmeno diventare un oratore. Nessuno sarebbe certo disposto ad ammettere che siano intelligenti coloro che, una volta che sono state messe davanti a loro la strada che porta verso l’onestà e quella che conduce verso il vizio, preferiscono seguire la peggiore, e nemmeno sarebbe disposto a concedere che siano avveduti e prudenti coloro che, quando le cose hanno avuto un risultato diverso da quello che avevano previsto, a causa delle proprie colpe incappano molto spesso nelle gravissime conseguenze della legge e finiscono sempre per patire i rimorsi della loro cattiva coscienza.

“L’oratore deve essere un uomo onesto”

Sit ergo nobis orator quem constituimus is qui a M. Catone finitur vir bonus dicendi peritus, verum, id quod et ille posuit prius et ipsa natura potius ac maius est, utique vir bonus: id non eo tantum quod, si vis illa dicendi malitiam instruxerit, nihil sit publicis privatisque rebus perniciosius eloquentia, nosque ipsi, qui pro virili parte conferre aliquid ad facultatem dicendi conati sumus, pessime mereamur de rebus humanis si latroni comparamus haec arma, non militi. Quid de nobis loquor? Rerum ipsa natura, in eo quod praecipue indulsisse homini videtur quoque nos a ceteris animalibus separasse, non parens sed noverca fuerit si facultatem dicendi sociam scelerum, adversam innocentiae, hostem veritatis invenit. Mutos enim nasci et egere omni ratione satius fuisset quam providentiae munera in mutuam perniciem convertere.

Dunque, l’oratore che noi abbiamo così formato, e di cui M. Catone ha dato la definizione di uomo onesto esperto nel parlare, questo sia perché quello l’ha detto prima sia perché la natura stessa è più dignitosa e più nobile: se l’abilità nel parlare disponesse della cattiveria dalla natura, niente sarebbe più dannoso dell eloquenza sia alle cose pubbliche che a quelle private, e noi stessi che siamo dalla parte dell uomo che tentammo di giovare a qualcuno con la capacità oratoria ci comportiamo malissimo nei confronti delle cose degli uomini se diamo questi strumenti al ladro e non al soldato. Cosa si dirà di noi? La stessa natura delle cose in quello che sembra essere benevolo agli uomini e in quello che ci distingue dagli animali, non madre ma matrigna sarebbe stata se avesse inventato l’abilità nel parlare alleata della frode avversa all’onestà e nemica della verità. Infatti, sarebbe stato meglio che gli uomini nascessero muti e privi di qualunque razionalità, piuttosto che trasformare in strumenti di reciproca rovina i doni della provvidenza.

Aristides, 1 (“Aristide esiliato perché… troppo giusto!”)

Aristides, Lysimachi filius, Atheniensis, aequalis fere fuit Themistocli. Itaque cum eo de principatu contendit; namque obtrectarunt inter se. In his autem cognitum est, quanto antestaret eloquentia innocentiae. Quamquam enim adeo excellebat Aristides abstinentia, ut unus post hominum memoriam, quem quidem nos audierimus, cognomine Iustus sit appellatus, tamen a Themistocle collabefactus, testula illa exsilio decem annorum multatus est. Qui quidem cum intellegeret reprimi concitatam multitudinem non posse cedensque animadvertisset quendam scribentem, ut patria pelleretur, quaesisse ab eo dicitur, quare id faceret aut quid Aristides commisisset, cur tanta poena dignus duceretur. Cui ille respondit se ignorare Aristiden, sed sibi non placere, quod tam cupide elaborasset, ut praeter ceteros Iustus appellaretur. Hic X annorum legitimam poenam non pertulit. Nam postquam Xerxes in Graeciam descendit, sexto fere anno, quam erat expulsus, populi scito in patriam restitutus est.

Aristide, figlio di Lisimaco, fu quasi coetaneo di Temistocle, così lottò con lui per il primato: infatti furono fra loro rivali. In questi si poté constatare anche quanto più l’eloquenza fosse superiore alla rettitudine. Infatti per quanto Aristide fosse superiore per il disinteressamento così che unico a memoria, per quanto abbiamo udito, fu soprannominato il Giusto, tuttavia, screditato nella reputazione da Temistocle fu multato con l’esilio per dieci anni, con il ben noto sistema dell’ostracismo. E poiché comprendeva che non era possibile calmare la folla, e andandosene, avendo visto un tizio che scriveva, affinché (Aristide) fosse cacciato dalla patria, cercò di sapere da lui perché facesse ciò, o che cosa Aristide avesse commesso, perché ritenuto degno di una pena così grave. E questo gli rispose che non conosceva affatto Aristide, ma che non gli piaceva, perché si era adoperato tanto con tanto zelo da essere soprannominato il Giusto, più di ogni altro. Questo tuttavia non scontò la legittima pena per dieci anni. Infatti dopo che Serse scese in Grecia, quasi sei anni dopo che era stato cacciato, fu richiamato in patria per deliberazione del popolo.

“La rotta di Teutoburgo”

Atrocissimas in Germanis calamitas, qua nulla post Crassi in Parthis cladem gravior Romanis fuit, deflenda est. Exercitus disciplina, vigore et bellorum experentia omnium fortissimus, marcore ducis, perfidia hostium, iniquitate fortunae circumventus, cum ne pugnandi quidem egrediendive occasio data esset, inclusus silvis, paludibus, insidis, ad internecionem trucidatus est. Duci plus animi ad moriendum quam pugnandum fuit. L. Asprenatus, legatus sub avunculo suo Varo militans, nava virilique opera duas legiones, quibus praeerat, immunes tanta calamitate servavit et mature adhiberna discendendo, vacillantes cis Rhenum sitarum gentium animos confirmavit. Etiam L. Caedicii, praefecti castrorum, eorumque qui una circumdati Alisone immensis Germanorum copiis obsidebantur, laudanda virus est. Hi enim, cum omnes diffficultates superavisset, quas inopia rerum intolerabiles faciebat, vis hostium inexsuperabiles (faciebat), nec temerario consilio nec nimia cautione usi, speculate opportunitatem, armis reditum ad suos sibi pepererunt.

In Germania fu respinta una disgrazia molto atroce, che non ci fu nulla di più grave per i Romani dopo la disfatta di Crasso con i Parti. L’esercito, più forte di tutti nella disciplina, nel vigore e nell’esperienza delle guerre, assalito dalla sfortuna, dalla debolezza del comandante, dalla perfidia dei nemici, essendo stata data l’occasione di non combattere neanche oppure di mettersi in marcia, nascosto tra i boschi, le paludi, le insidie, fu massacrato fino allo sterminio. L’animo del comandante fu più per morire che per combattere. L. Asprenato, prestando servizio come ambasciatore sotto suo zio Varrone, salvò con una diligente e coraggiosa azione due legioni, nelle quali aveva comandato, immuni da una tanto grande disgrazia, e con la discesa ai quartieri invernali rassicurò gli animi vacillanti delle genti collocate al di qua dal Reno. Si deve lodare anche la virtù di L. Cedico, sovrintendente dell’accampamento, e di coloro che, contemporaneamente circondati ad Alisone, erano assediati dalle smisurate truppe dei Germani. Questi infatti, avendo superato tutte le difficoltà, che la povertà rendeva insostenibili, la forza dei nemici (rendeva) insuperabili, servendosi nè di una decisione sconsiderata nè di un’eccessiva cautela, procurarono ai loro il ritorno alle armi.

“Da fabbro a imperatore”

Brevissium imperium Marii, viri robustissimi ac strenuissimi ducis, fuit. Tradunt interemptorem, dum eum mortifere vulnerat, exclamavisse: “Hic est gladius quemipse fecisti”. Marii imperatoris contio prima talis fuit: “Scio, commilitones, posse mihi obici artem pristinam. Sed dicat quisque quod vult. Ego tamen malo ferrum exercere quam luxuria corrumpi, ut alii imperatores. Vos fecistis imperatorem me qui numquam quiquam scivi tractare nisi ferrum; faciam igitur ut omnes Germani ceteraeque nationes imperio Romano finitimae, pluribus cladibus acceptis, putent populum Romanum ferratam gentem esse”.

Fu un brevissimo impero quello di Mario, uomo assai forte e strenue comandante. Si narra che l’assassino mentre lo aveva ferito a morte, abbia affermato: “Questa è la spada che lui stesso fece”. La prima arringa del comandante Mario fu la seguente: “Lo so, o compagni d’armi, di proporre l’arte antica. Ma ognuno sostenga ciò che vuole. Tuttavia io preferisco usare la spada che esser corrotto dalla lussuria, come altri comandanti. Voi mi avete eletto comandante che mai ho saputo trattare cosa alcuna se non con la spada, farò dunque in modo che tutti i Germani e le altre nazioni confinanti all’impero romano, ricevute molte sconfitte, ritengano che il popolo romano sia un popolo armato di ferro.

Themistocles, 2

Primus autem gradus fuit capessendae rei publicae bello Corcyraeo; ad quod gerendum praetor a populo factus non solum praesenti bello, sed etiam reliquo tempore ferociorem reddidit civitatem. Nam cum pecunia publica, quae ex metallis redibat, largitione magistratuum quotannis interiret, ille persuasit populo, ut ea pecunia classis centum navium aedificaretur. Qua celeriter effecta primum Corcyraeos fregit, deinde maritimos praedones consectando mare tutum reddidit. In quo cum divitiis ornavit, tum etiam peritissimos belli navalis fecit Athenienses. Id quantae saluti fuerit universae Graeciae, bello cognitum est Persico. Nam cum Xerxes et mari et terra bellum universae inferret Europae cum tantis copiis, quantas neque ante nec postea habuit quisquam – huius enim classis mille et ducentarum navium longarum fuit, quam duo milia onerariarum sequebantur; terrestres autem exercitus DCC peditum, equitum CCCC milia fuerunt -, cuius de adventu cum fama in Graeciam esset perlata et maxime Athenienses peti dicerentur propter pugnam Marathoniam, miserunt Delphos consultum, quidnam facerent de rebus suis. Deliberantibus Pythia respondit, ut moenibus ligneis se munirent. Id responsum quo valeret, cum intellegeret nemo, Themistocles persuasit consilium esse Apollinis, ut in naves se suaque conferrent: eum enim a deo significari murum ligneum. Tali consilio probato addunt ad superiores totidem naves triremes suaque omnia, quae moveri poterant, partim Salamina, partim Troezena deportant; arcem sacerdotibus paucisque maioribus natu ac sacra procuranda tradunt, reliquum oppidum relinquunt.

Il primo passo di impegnarsi per lo stato fu nella guerra di Corcira; per guidarla eletto comandante dal popolo non solo nella guerra presente, ma anche nel tempo restante rese la città più fiera. Infatti mentre il denaro pubblico, che rientrava dalle miniere, per la prodigalità dei magistrati annualmente periva, egli persuase il popolo che con quel denaro si allestisse una flotta di cento navi. Costruita questa velocemente dapprima spezzò i Corciresi, poi inseguendo i pirati marittimi rese il mare sicuro. In questa cosa da una parte adornò di ricchezze, dall’altra pure rese gli Ateniesi espertissimi di guerra navale. Di quanta grande salvezza ciò sia stato per tutta la Grecia, si conobbe con la guerra persiana. Infatti poiché Serse e per mare e per terra dichiarava guerra a tutta l’Europa con così grandi truppe, quante né prima né poi nessuno ebbe ““ la flotta di questi fu di mille e duecento navi da guerra, che migliaia di navi da carico seguivano; gli eserciti poi di terra furono di settecento (migliaia) di fanti, quattrocento migliaia di cavalieri – e del suo arrivo essendo stata portata la fama in tutta la Grecia e si diceva che soprattutto gli Ateniesi venivano assaliti per la battaglia di Maratona, inviarono a Delfi (una delegazione) per consultare, cosa mai decidessero per le loro cose. Ai richiedenti la Pizia rispose che si munissero con mura di legno. Mentre nessuno capiva a cosa si riferisse quel responso, Temistocle convinse che era proposito di Apollo, che si recassero sulle navi: quello infatti era il muro di legno significato dal dio. Approvata tale decisione, aggiungono alle precedenti altrettante navi trireme e tutte le loro cose che potevano essere mosse, in parte le portano a Salamina, in Parte a Trezene; ai sacerdoti ed a pochi anziani consegnano la rocca e le cose sacre da salvare, abbandonano il resto della città.

“Un imperatore colpito da ictus”

Valentinianus imperator ictu sanguinis exstinctus est. Nam, dum Quadorum legatos icrepat beneficiorum immemores, vehementer ira perculsus, tamquam ictus e caelo, vitali via voceque simul obstrictis, humi improviso lapsus est. Erumpente ex ore sanguine, laetali sudore perfusus, concursu ministrorum in conclave deductus est. Ibi, locatus in lecto, exiguas spiritus reliquias trahens, nondum intellegendi minuto vigore, cunctos agnoscere adstantes videbatur. Quoniam, viscerum flagrante compage, laxanda erat vena, nullus inveniri potuit medicus, quia omnes per regionem sparserat curaturos milites pestilentia tentatos. Unus tandem repertus, venas eius iterum saepiusque pungens, ne unam quidem cruoris guttam elicere potuit, quia nimis arefacta erant membra. Dicere aliqua conatus, sicuti stridor dentium et brachiorum motus et singultus, ilia pulsans, indicabant, animam efflavit.

L’imperatore Valentiniano fu ucciso da ictus. Infatti, mentre rimproverava gli ingrati ambasciatori dei Quadi, impetuosamente colpito dall’ira, come un colpo dal cielo, contemporaneamente strette le vie della voce e della vita, cadde a terra improvvisamente. Mentre il sangue sgorgava dalla bocca, bagnato di liquido mortale, fu condotto con l’efficenza dei servi nella stanza. Li, posto sul letto, trascinando con sé i deboli respiri restanti, con ancora una piccola lucidità nel capire, sembrava riconoscere tutti gli astanti. Dopo che, bruciando l’insieme delle viscere, la vena era stata allargata, nessun medico potè venire, perchè aveva sparso per tutte le regioni i soldati da curare toccati dalla peste. Infine trovato uno, avendogli chiuse le vene e pungendolo di nuovo, non potè neppure cavare una goccia di sangue perchè le membra erano troppo asciutte. Mentre tentava di dire qualcosa, come lo stridore dei denti, i moti delle braccia, i singulti e le viscere pulsanti indicavano, esalò l’anima.

“Il trionfo di Traiano”

Magnum est, imperator Auguste, stare in Danubii ripa, si transeas, certum triumphi nec decertare cupere cum recusantibus: quorum alterum fortitudine, alterum moderatione efficitur. Accipiet ergo aliquando Capitolium non mimicos currus nec falsae simulacra victoriae, sed imperatorem veram ac solidam gloriam reportantem, pacem tranquillitatem et tam confessa hostium obsequia. Pulchrius hoc omnibus triumphis est. Neque enim umquam nisi ex contemptu imperii nostri factum est, ut vinceremus. Videor iam cernere non spoliis provinciarum, et extorto sociis auro, sed hostilibus armis captorumque regum catenis triumphum gravem. Videor ingentia ducum nomina, nec indecora nominibus corpora noscitare. Videor intueri immanibus ausis barbarorum onusta fercula, et sua quemque facta vinctismanibus sequentem: mox ipsum te sublimem, instantemque curru domitarum gentium tergo; ante currum autem dypeos, quos ipse perfoderis. Nec tibi opima defuerint, si quis regum venire in manus audeat, nec modo telorum tuorum, sed etiam oculorum minarumque coniectum toto campo, totoque exercitu opposito, perhorrescat. Meruisti próxima moderatione, ut, quandoque te vel inferre vel propulsare bellum coegerit horrescat. Meruisti próxima moderatione, ut, quandoque te vel inferre vel propulsare bellum coegerit horrescat. Meruisti próxima moderatione, ut, quandoque te vel inferre vel propulsare bellum coegerit imperii dignitas, non ideo vicisse videaris ut triumphares, sed triumphare, quia viceris.

Fa stupore, o Cesare Angusto, fa stupore, che vi teniate fermo sulle rive del Danubio sicuro della vittoria, se lo valicate, e che non abbiate alcuna voglia di combattere con chi rifugge dalla battaglia: due cose, l’una delle quali è un effetto del valore, l’altra della moderazione. Il Campidoglio dunque accoglierà finalmente una volta non già carri vuoti di spoglie, non simulacri di bugiarde vittorie, ma bensì la tranquillità con vera e massiccia gloria dell’imperatore, che l’ha procurata, e le soddisfazioni date in tal modo dai nemici. Cosa che è ben più bella di tutti i trionfi. Infatti non accadde mai che vincessimo, se prima fu perso il rispetto della nostra potenza. Mi pare ormai di vederlo, il trionfo, carico non già delle spoglie delle province, né dell’oro rapito ai confederati, ma bensì delle armi ostili e delle catene dei re prigionieri. Mi pare di leggere i maestosi nomi dei condottieri, e di ammirare i loro sembianti ben meritevoli di tali nomi. Mi pare di vedere i carri carichi delle feroci torme dei barbari, e ognuno di questi seguire con le mani legate le proprie imprese: quindi seguire voi, sublime sul vostro cocchio, ed alle spalle delle nazioni soggiogate, con gli scudi davanti al cocchio da voi medesimo perforati. Né le spoglie opime mancheranno alla vostra gloria, se mai alcun re avrà l’ardire di capitare tra le vostre mani, invece di involarsi non solo dai colpi del vostro braccio, ma anche da quelli dei terribili vostri sguardi, quanto è largo il campo, e dietro al folto del proprio esercito. Ma con la moderazione di recente da voi mostrata avete ottenuto che, ogni volta che l’onore dell’imperio domandi che o dichiariate voi per primo la guerra, o la ripudiate a voi mossa, si debba capire, che non avete combattuto per trionfare, ma trionfate per aver vinto.

“Quanto tempo mi rimane?”

Haec ego multo ante prospiciens fugiebam ex Italia tum, cum me vestrorum edictorum fama revocavit; incitavisti vero tu me, Brute, Veliae. Quamquam enim dolebam in eam me urbem ire quam tu fugeres qui eam liberavisses, quod mihi quoque quondam acciderat periculo simili, casu tristiore, perrexi tamen Romamque perveni nulloque praesidio quatefeci Antonium contraque eius arma nefanda praesidia quae oblata sunt Caesaris consilio et auctoritate firmavi. Qui si steterit fide mihique paruerit, satis videmur habituri praesidi; sin autem impiorum consilia plus valuerint quam nostra aut imbecillitas aetatis non potuerit gravitatem rerum sustinere, spes omnis est in te. Quam ob rem advola obsecro, atque eam rem publicam, quam virtute atque animi magnitudine magis quam eventis rerum liberavisti, exitu libera. Omnis omnium concursus ad te futurus est. hortare idem per litteras Cassium. Spes libertatis nusquam nisi in vestrorum castrorum principiis est. Firmos omnino et duces habemus ab occidente et exercitus. hoc adulescentis presidium equidem adhuc firmum esse confido, sed ita multi labefactant ut ne moveatur interdum extimescam. Habes totum rei publicae statum, qui quidem tum erat, cum has litteras dabam. Velim deinceps meliora sint. Sin aliter fuerit, (quod di omen avertant!) rei publicae vicem dolebo quae immortalis esse debebat; mihi quidem quantulum reliqui est?

Io prevedendo molto tempo prima queste cose allora fuggivo dall’Italia, quando la notizia delle vostre ordinanze mi richiamò; tu in verità mi hai spronato, o Bruto, a Velia. Sebbene infatti mi rattristavo andare in quella città che tu fuggiresti giacché l’avessi liberata, poiché anche una volta mi era accaduto un simile pericolo, per un’occasione più triste, tuttavia mi incamminai e giunsi a Roma e senza alcun aiuto ho indebolito la posizione di Antonio e contro le scorte di lui nefande armi quelle che furono opposte per decisione di Cesare ed io ho rafforzato con autorità. Ed egli se fosse rimasto fermo alla parola data e mi avesse obbedito, ci sembrava sufficiente che avrebbe avuto gli aiuti; se invece avesse più tenuto conto i consigli dei malvagi anziché i nostri o non avesse potuto sostenere l’infermità dell’età la gravità delle vicende, tutta la speranza era in te. Perciò ti prego affrettati, libera con successo anche questa repubblica quella che hai liberato con coraggio e grandezza d’animo più che con avvenimenti. Completo sarebbe il concorso di tutti verso di te. La medesima cosa consigliava tramite lettere Cassio. La speranza della liberta e riposta nei capi dei vostri accampamenti. Abbiamo condottieri assolutamente saldi da occidente anche l’esercito. Confido che questo presidio di adolescente in vero fino ad ora sia stabile, ma cosi molti vacillano tanto che tema talvolta di non muoversi. Hai la stabilita dello stato, che anche allora c’era, quando affidavo questa lettera. Vorrei che in seguito ci siano cose migliori. Se sarà diversamente, (che gli dei disperdano quest’augurio!) a vicenda mi dorrò della repubblica che doveva essere eterna; quanto poco dunque mi resta?

“Bisogna sempre mantenere la moderazione”

Cicero in libris, quos de officiis servandis scripsit, ait achibendum esse modum ulciscendi et puniendi etiam adversus eos, a quibus iniuram acceperimus, et etiam in bellis qerendis maxime conservando esse iura qentium. Nam, cum sint duo qenera decertandi, unum per disceptationem, alterum per vim, confuqiendum est ad posterius, solum si uti non licet superiore. Quare bella suscipere oportet solum ut, nos defendendo, in pace vivamus. Post victoriam autem honestum et probum est eos conservare, qui non crudeles, non immanes, in bello qerendo fuerunt. Prisci Romani Tusculanos, Aequos, Volscos in civitatem accipiendos putaverunt; at, Carthaqine funditus eruenda, Poenis omnem renovandi belli opportunitatem sustulerunt. Ceterum ait Cicero semper paci, quae nihil insidiarum habitura sit, consulendum esse et recipiendos esse illos, qui, postquam arma posuerint, ad victoris fidem confugerint, spe veniam et clementiam consequendi.

Cicerone nei libri, che scrisse sul rispetto dei doveri, afferma che si deve applicare un limite alla vendetta e alla punizione anche nel confronti di coloro, dai quali avremo ricevuto offesa, e anche che nel condurre le guerre soprattutto devono essere osservati i diritti dei popoli. Infatti, dal momento che sono due i generi del contendere, uno attraverso la discussione, l’altro attraverso la forza, ci si deve rifugiare in quest’ultimo, solo se non è possibile avvalersi del primo. Perciò è necessario intraprendere guerre solo perchè viviamo in pace difendendoci. Dopo la vittoria infatti è dignitoso e virtuoso salvare coloro che non sono stati crudeli e feroci nel fare guerra. Gli antichi Romani ritennero di dover concedere la cittadinanza (fare cittadini romani) i Tuscolani, gli Equi, i Volsci; ma, col distruggere dalle fondamenta Cartagine, tolsero ai Cartaginesi ogni opportunità di rinnovare la guerra. Per il resto Cicerone afferma che si deve sempre provvedere alla pace, che non sia destinata ad avere nessuna insidia, e si devono accogliere quelli che, dopo che hanno deposto le armi, si siano rimessi alla lealtà del
vincitore, con la speranza di ottenere perdono e clemenza.

“Ottaviano signore unico di Roma”

Post Caesaris necem Octavianus claris operibus vitaeque integritate civium romanorum admirationem exercitabat. Marcus Antonius Alexandriae domicilium constituerat atque molliter vivebat cum Cleopatra, Aegypti regina. Praeterea, Cleopatrae amore atque impulsu, interitum parabat Romano imperio. Senatus igitur, Octaviani hortatu, bellum indixit Antonio Aegyptique reginae. Ideo mense Septembri in sinu maris Actiaci, duumvirorum copiae bellum navale gesserunt. Exercitus classesque pares erant magnaque cum virtute pugnaverunt. Belli exitus adhuc anceps erat, sed subito Cleopatra veloci navigio domum remeavit. Tunc Antonius, imperatoris officii immemor, ad Alexandriam velificavit. Octavianus magna cum celeritate in Aegyptum contendit. Post aemuli mortem, Romam properavit cum ingenti captivorum numero.

Dopo l’assassinio di Cesare Ottaviano suscitava l’ammirazione dei cittadini romani con opere famose e con l’onestà della (sua) vita. Marco Antonio aveva stabilito il domicilio ad Alessandria e viveva fiaccamente con Cleopatra, regina d’Egitto. Da allora, per amore e per incitamento di Cleopatra, preparava la distruzione dell’impero romano. Perciò il senato, per consiglio di Ottaviano, dichiarò guerra ad Antonio e alla regina d’Egitto. Percui nel mese di Settembre nel golfo del mar di Azio, le milizie nemiche combatterono una guerra navale. Gli eserciti e le flotte erano pari e combatterono con grande valore. L’esito della guerra fu lungamente incerto ma all’improvviso Cleopatra con un’imbarcazione veloce ritornò a casa. Allora Antonio, dimentico del suo incarico di comandante, navigò verso Alessandria. Ottaviano con grande velocità si diresse in Egitto. Dopo la morte del nemico, si affrettò verso Roma con un grande numero di prigionieri.

“Ottaviano e Antonio: scontro finale”

Exercitus classesque pares erant militumque manus magna cum virtute pugnaverunt. Belli exitus adhunc anceps erat, sed subito Cleopatra pugnae locum reliquit ac veloci navigio domum remeavit. Tunc Antonius, imperatoris officii immemor, ab Actiaci maris oris Alexandriam velificavit. Post Cleopatrae Antonique fugam, octavianus magna cum celeritate in Aegyotum contendit. Post aemuli mortem, Romam properavit cum ingenti captivorum numero. Romani cives victoris triumphum magnis plausibus honoribusque celebraverunt.

L’esercito e la flotta erano equivalenti e combattevano con grande virtù. Fin qui l’esito della battaglia era incerto, ma subito Cleopatra lasciò il luogo della battaglia e con delle barche veloci remò verso casa. Quindi Antonio, immemore del dovere di comandante, veleggiò dalle bocche del mare di Azio ad Alessandria. Dopo la fuga di Antonio e Cleopatra, Ottaviano con grande velocità si diresse in Egitto. Dopo la morte del nemico, si affrettò verso Roma con un grande numero di prigionieri al seguito. I cittadini di Roma celebrarono il trionfo del vincitore con grandi applausi e onori.

“La battaglia navale tra Ottaviano e Antonio” (“La battaglia di Azio”)

Post crebas contentiones Octavianus et Antonius foedus patraverunt: Octavianus Italiam Hispaniamque obtinuit, Antonio Orientes regionum imperium contigit. Antonius Alexandriae domicilium constituerat et cum Cleopatra, Aegypti regina, molliter vivebat. Praeterea, Cleopatrae amore atque impulsu, Romano imperio interitum parabat. Senatus igitur, Octaviani hortatu, bellum duumvirum copiae bellum navale gesserunt; exercitus classesque pares erant magnaque cum virtute pugnaverunt. Belli exitus diu anceps fuit, sed subito Cleopatra veloci navigio fugam occupavit et domum remeavit. Tunc Antonius quoque, imperatoris officii immemor, Alexandriam velificavit. Desertoris Antonii militibus, victis animoque fractis, Octavianus vitam veniamque promisit.

Dopo aspre contese Ottaviano ed Antonio stipularono un’alleanza: Ottaviano ottenne l’Italia e la Spagna, ad Antonio toccò il comando delle regioni dell’Oriente. Antonio aveva stabilito la sua sede ad Alessandria e viveva dissolutamente con Cleopatra, regina d’Egitto. Da allora, per amore e su istigazione di Cleopatra preparava la fine dell’impero romano. Il Senato dunque, per esortazione di Ottaviano dichiarò guerra ad Antonio e alla regina d’Egitto. Per cui, nel mese di settembre, nel golfo di Azio, le truppe dei duumviri condussero una battaglia navale. Gli eserciti e le flotte erano pari e combatterono con grande valore. L’esito della guerra fu a lungo incerto, ma, all’improvviso Cleopatra si volse in fuga con una nave veloce e se ne tornò in patria. Allora anche Antonio, dimentico dei doveri di un comandante, fece vela verso Alessandria. Ottaviano promise la vita ed il perdono ai soldati del disertore Antonio, vinti e completamente demoralizzati.

“I Galli entrano a Roma”

Galli tam bellicosi erant ut, Brenni ductu, in Padi planitem irruperint et omnia ferro ignique vastaverint. Cum Brennus Romam capere vellet, per Etruriam trasiit agros urbesque incendens et, cum duos Romanorum exercitus profligavisset atque fugavisset, at Urbem accedit atque castra apud Tiberim posuit. Deinde Galli tanto impetu Romam petiverunt ut maximam urbis partem, praeter Capitolii arcem, occupaverint. Tum Romani cum liberis et uxoribusque, urbe relicta, in montes urbi propinquos confugerunt. Patres tantum Romae manserunt et animo sic firmo fuerunt ut hostium adventum in Curia expectaverint, ubi plerique trucidati sunt. Nocte quadam evenit ut, cum Galli iam moenia arcis ascendissent atque Capitolium occupaturi essent, anseres, Iunoni sacri, tanto clangore obstreperent ut e somno excitaverint Manlium, arcis custodem, qui statim commilitones ad arma vocavit. Universi in eius auxilium accurrerunt et tanta vitrute puganverunt ut Galli fugati sin tac Capitolium servatum (sit). Deinde, cum Camillus quoque cum exercitu supervenisset, barbari profligati sunt.

I Galli erano talmente bellicosi che, sotto il comando di Brenno, invasero la pianura del Po e saccheggiarono tutto col ferro e col fuoco. Brenno, volendo conquistare Roma, attraverso l’Etruria oltrepassò, marciando, campi e città e, dopo aver sconfitto e messo in fuga due eserciti dei Romani, si avvicinò a Roma e pose l’accampamento presso il Tevere. In seguito, i Galli attaccarono Roma con un impeto così grande che occuparono una grandissima parte della città, tranne la rocca del Campidoglio. Allora i Romani con i figli e le mogli, abbandonata la città, si rifugiarono sui monti vicini alla città. Restarono a Roma soltanto i patrizi ed ebbero un animo così saldo che attesero l’arrivo dei nemici nel Senato, dove moltissimi furono trucidati. Una notte accadde che, dopo che i Galli erano già saliti sulle mura della Rocca e stavano per occupare il Campidoglio, le oche, sacre a Giunone, schiamazzarono con tanto stridore al punto da destare dal sonno Manlio, custode della rocca, il quale subito chiamò i compagni alle armi. Tutti insieme accorsero in suo aiuto e combatterono con tanto valore che i Galli furono messi in fuga e il Campidoglio fu salvato. Poi, essendo sopraggiunto anche Camillo con un esercito, i barbari furono sconfitti.

Breviarium, VII, 15 (“…Si dà alla fuga e si uccide”)

Per haec Romano orbi execrabilis ab omnibus simul destitutus est et a senatu hostis iudicatus; cum quaereretur ad poenam, quae poena erat talis, ut nudus per publicum ductus furca capiti eius inserta virgis usque ad mortem caederetur atque ita praecipitaretur a saxo, e Palatio fugit et in suburbano liberti sui, quod est inter Salariam et Nomentanam viam ad quartum urbis miliarium est, interfecit. Is aedificavit Romae thermas, quae ante Neronianae dictae nunc Alexandrianae appellantur. Obiit tricesimo et altero aetatis anno, imperii quarto decimo, atque in eo omnis Augusti familia consumpta est.

Perciò esecrato dal mondo Romano fu abbandonato a un tempo da tutti e dal senato dichiarato nemico; ed essendo cercato per trarlo al castigo, il qual castigo era così fatto che, condotto nudo in pubblico con una forca sul capo fosse battuto con le verghe sino a morte e precipitato così dalla rupe, fuggì dal palazzo e si uccise nella villa suburbana di un suo liberto, che è tra la via Salaria e la Nomentana a quattro miglia da Roma. Egli costruì a Roma le terme che, chiamate prima Neroniane, ora si chiamano Alessandriane. Morì nel trentaduesimo anno d’età, quattordicesimo di regno, e con lui si spense tutta la famiglia di Augusto.

“Discorso di Scipione ai suoi prima della battaglia”

Scipio, priusquam exercitum educeretin aciem, talem orationem habuit: “Novo imperatori apud novos rnilites pauca verba facienda sunt. Nunc cumiis est vobis, milites, pugnandum quos terra marique priore bello vicistis, a quibus stipendium per viginti annos exegistis. Cum his equitibus, cum his pedi ti bus pugn aturi estis. At nunc non est vobis dimicandum pro decore tantum, sed pro salute! Non de possessione Siciliae ac Sardiniae, de quibus quondam agebatur, sed pro Italia est vobis pugnandum. Nec est alius a tergo exercitus, qui, nisi nos vincimus, hosti obsistat. Hic est obstandum, milites, velut si ante Romana moenia pugnemus. Unusquisque se non corpus suum, sed coni u gem ac liberos parvos armis protegere putet; nec domesticas solum con siderei cu ras, sed identidem hoc animo reputet: nostras nunc intueri manus senatuni populumque Romanum; qualis nostra vis virtusque fu eri t, talem deinde fortunam illius urbis ac Romani imperii fu tu ram
esse”.

Scipione, prima di schierare l’esercito in campo, tenne il seguente discorso: “Un nuovo comandante deve pronunciare poche parole dinnanzi a nuovi soldati. Ora, o soldati, voi dovete combattere con coloro che vinceste durante la prima guerra per terra e per mare, dai quali esigeste un tributo per vent’anni. Con questi cavalieri, con questi fanti state per combattere! Ma ora voi non dovete lottare soltanto per l’onore bensì perla salvezza! Non dovete combattere per il possesso della Sicilia e della Sardegna, delle quali un tempo si trattava, ma in difesa dell’Italia. E non c’è altro esercito alle spalle, che, se noi non vinciamo, si opponga al nemico. Qui si deve resistere, soldati, come se combattessimo davanti alle mura di Roma. Ciascuno pensi di stare proteggendo con le armi non il suo stesso corpo ma la moglie e i figlioletti, e non consideri solo le preoccupazioni familiari, ma ripensi a questo incessantemente fra sé: ora il senato e il popolo di Roma guardano alle nostre schiere; quali saranno state la nostra forza e virtù, tale è destinata ad essere la sorte di quella città e del potere romano”.

“Alcibiade, esiliato, è richiamato in patria”

Bello Peloponnesio Alcibiadis Consilio atque auctoritate Athenienses bellum Syracusanis indixerunt. Ad quod gerendum ipse dux delectus est. Cum dies ad bellum proficiscendi instabat, inimici eius illud tempus expectandum (esse) decreverunt ad ei nocendum, quo classe egressus esset, ut absentem aggrederentur; itaque fecerunt. Nam postquam eum in Siciliam pervenisse
crediderunt, absentem, quod sacra violasset, reum fecerunt. Qua de re cum ei nuntius a magistratu in Siciliam missus esset, ut domum ad causam dicendam veniret, quamvis esset in magna spe provinciae bene administrandae, magistratui paruit et in triremem, quae ad eum erat deportandum missa, ascendit.

Durante la guerra del Peloponneso gli Ateniesi, seguendo il parere di Alcibiade, dichiararono guerra ai Siracusani; ed a condurla fu scelto come comandante lui stesso; quando incalzava il giorno per partire alla guerra, i suoi nemici decisero di aspettare il momento giusto per ucciderlo, nel momento in cui uscisse con la flotta, per attaccarlo durante la sua assenza, e così fecero. Infatti, quando ritennero che fosse giunto in Sicilia, lo accusarono assente di aver profanato i misteri. Per questo gli fu spedito in Sicilia un messo dal magistrato, con l’ordine di ritornare per difendersi in tribunale ed egli, benché nutriva molte speranze di poter adempiere bene alla sua missione, non volle disubbidire e si imbarcò su una trireme mandata apposta per riportarlo.

“Patrizi e plebei nell’antica repubblica”

In duas partes ego civitatem nostram divisam esse scio, ut maiores nostri tradiderunt, in patres et plebem. Antea in patribus summa auctoritas erat, vis multo maxima in plebe, itaque saepius in civitate secessio fuit semperque nobilitatis opes deminutae sunt et ius populi amplificatum est. Sed plebs libere agitabat, quia nullius potentia super leges erat, neque divitiis aut superbia sed bona fama factisque fortibus nobilis ignobilem superabat, cives humillimi omnium, in agris aut in militia, nullius honestae rei egebant.

So che la nostra città, come tramandarono i nostri antenati, è divisa in due parti: in patriziato e plebe. In passato nei patrizi c’era grandissima autorità, una forza molto più grande nella plebe. Perciò molto spesso in città ci fu una secessione e sempre le ricchezze della nobiltà furono ridotte e il diritto del popolo amplificato. Ma la plebe agiva liberamente, poiché il potere di nessuno era al di sopra delle leggi, e il nobile non superava l’umile per ricchezza o superbia, ma per buona fama e imprese meritorie, i cittadini più umili di tutti, nei campi o nell’esercito, non mancavano di un’esistenza onesta.

“I druidi”

In omni Gallia druides honorati sunt atque multas utilitates habent: a bello abesse consuerunt neque tributa pendunt. Militiae vacationem omniumque rerum immunitatem habent. Tantis praemiis excitati, multi iuvenes sua sponte apud eos in disciplinam conveniunt aut a parentibus propinquisque mittuntur. Discipulos,suos animos ad eorum praecepta applicantes, magnum numerum versuum ediscere constat. Itaque annos nonnulli vicenos in disciplina permanent. Druides enim ea sacra litteris mandare recusant ne in vulgus sua disciplina pervulgata sit. In primis animas non interire docent sed, cum eae ex corpore excesserint, ab aliis ad alios mortales transire.Sacerdotes iuvenes virosque hac doctrina maxime ad virtutem excitari putant, cum mortis metum neglegunt. Multa praeterea de sideribus atque eorum motu, de mundi ac terrarum magnitudine, de rerum natura vi ac potestate disputant et iuventuti tradunt. Hodie fama est Gallos religionibus se admodum dedisse.

In tutta la Gallia i druidi sono onorati e hanno molti vantaggi: si tengono lontano dalla guerra e non pagano le tasse. Sono esenti dal servizio militare e hanno l’immunità da tutte le cose. Eccitati da tanti premi, molti giovani di loro spontanea volontà si radunano presso di loro per l’insegnamento o sono mandati dai propri genitori. I discepoli, rivolgendo i loro animi ai loro insegnamenti, imparano un grande numero di poesie a memoria. Perciò rimangono parecchi anni nella formazione. I druidi infatti si oppongono al fatto che sia inoltrata la loro sacra letteratura affinchè non sia divulgata la loro dottrina nel volgo. Insegnano che le anime non muoiono subito ma, quando esse escono dai corpi, passano da quesi corpi a quelli di altri. I sacerdoti pensano di spronare a questa dottrina i giovani e gli uomini con la virtù soprattutto, dimenticano la paura della morte. Soprattutto parlano di molte cose delle stelle e del loro movimento, circa la grandezza del mondo e della terra, delle cose che riguardano la forza e la potenza della natura e la raccontano ai giovani. Oggi è noto che i Galli si dedicassero sopra ogni modo alla religione.

“La preghiera del sacerdote Crise ad Apollo”

Graeci urbem diripuerant et omnes virgines secum abduxerant; in his Chryseidem, filiam Chrisae, Apollinis sacerdotis. Maestrus igitur pater puellae in castra Graecorum venit, ut filiam redimeret, sed frustra oravit ducem Agamemnonem, qui non solum captivam servavit, sed gravibus minis sacerdotem terruit. Chryses igitur celeriter e castris discessit, sed cum procul fuic sit Apollinem oravit: “Deus, qui geris arcum argenteum et Tenedi incolis imperas, si semper tuum sacellum coronis ornavi et pingues haedos tibi immolavi, Graeci tuis sagittis poenas suis sceleris persolvant”. Statim Apollo preces auduvut sacerdotis, ex Olympo descendit. Sed cum Agamemnom causam irae Apollinis cognovit filiam patri reddidit et etiam hecatombe Apollinis iram placavit. Tum Apollo pestilentiam sedavit et aegros omnes sanavit viros.

I Greci avevano distrutto la città ed avevano portato con loro tutte le fanciulle; tra esse Criseide, figlia di Crise, sacerdote di Apollo. Pertanto, triste, il padre della fanciulla si recò nell’accampamento dei Greci, per riscattare la figlia, ma invano pregò il comandante Agamennone, il quale, non soltanto, custodì la prigioniera, ma spaventò il sacerdote con gravi minacce. Crise, dunque, si allontanò rapidamente dall’accampamento, ma non appena fu un po’ lontano così pregò Apollo: “Dio, che porti l’arco d’argento e domini sugli abitanti di Tenedo, se ho ornato sempre il tuo tempietto e ti ho immolato grasse vittime, i Greci paghino le pene per le loro scelleratezze con le tue frecce!”. Subito Apollo ascoltò le preghiere del sacerdote, scese dall’Olimpo. Ma quando Agamennone conobbe la causa dell’ira di Apollo, restituì la figlia al padre e placò l’ira di Apollo persino con un’ecatombe. Allora Apollo arrestò la pestilenza e risanò tutti gli uomini malati.

“Alcuni dei più grandi filosofi erano schiavi”

Servi neque inepti neque ignari philosophiae fuerunt. Phaedon, amicus Socrati et Platoni perfamiliaris adeo ut Plato eius nomini librum illum divinum de immortalitate animae dicaret, servus fuit forma atque ingenio liberali. Hunc Cebes, Socratis discipulus, hortatu magistri, emit et philosophiae disciplinis erudiit, atque is postea philosophus illustris emersit sermonesque eius de Socrate admodum elegantes leguntur. Ac non pauci servi fuerunt, qui postea philosophi clari exstiterunt. Ex quibus fuit ille Menippus, cuius libros Marcus Varro in Saturis, quas alii Cynicas, ipse appellat Menippeas, aemulatus est. Philosophi non incelebres illa aetate vixerunt, ut Pompylus, Theophrasti Peripatetici servus; Zenonis Stoici servus, qui Persaeus vocatus est, et Epicuri servus, cui Mys nomen fuit. Diogenes quoque Cynicus ex libertate in servitutem redactus est.

(Alcuni) schiavi non furono né inetti né ignari di filosofia. Fedone amico intimo di Socrate e di Platone al punto che Platone dedicò al suo nome quel libro meraviglioso sull’immortalità dell’anima, fu schiavo di aspetto e di ingegno degni di un uomo libero. Cebete, discepolo di Socrate comprò costui su invito del maestro e (lo) istruì nelle discipline della filosofia ed egli in seguito divenne un illustre filosofo e si leggono le sue dissertazioni molto raffinate su Socrate. E non pochi furono gli schiavi che in seguito diventarono illustri filosofi. Tra di loro ci fu quel famoso Menippo, le cui opere imitò Marco Varrone nelle Satire che altri chiamano Ciniche, (ma che) egli stesso (chiama) Menippee. Vissero, a quel tempo, filosofi non privi di fama come Pompilo, schiavo del peripatetico Teofrasto; lo schiavo dello stoico Zenone che si chiamava Perseo e lo schiavo di Epicuro di nome Mys. Anche Diogene Cinico fu ridotto dalla libertà in schiavitù.

“La vita dei marinai”

Olim Syracusis periti nautae vivebant et per multas terras errabant. A fabris scaphae extruebantur et naviculae celeriter undas sulcabant. Nautae et in diurnis et in nocturnis horis navigabant, magno cum animo in altum contendebant. Ad vesperam enim nautae studio astra observant sic cursum diligenter tenebunt. Ex Sicilia multi nautae in Africae oras aut in Greciae emporia procedebant et lucrosam mercaturam faciebant. Aliquando propter ventum in vadum navigium impingebant aut in loco tuto in ancoris consistebant. Piratae maxime nautis inimici erant. In nautarum scaphas impetum saepe faciebant: nautas cibo, aqua, pecunia et armis spoliabant, viros necabant et flammis naviculam penitus delebant. Etiam Syracusarum incolae piratas timebant: saepe a viris familiae divitiaeque armis defendebantur et a matronis pretiosae gemmae in amphoris condebantur.

Un tempo a Siracusa vivevano esperti marinai ed erravano attraverso molte terre. Dai fabbri erano costruiti gli scafi e le piccole navi solcavano velocemente le onde. I marinai navigavano di giorno e di notte e con molto coraggio si spingevano in alto mare. A sera infatti i marinai con impegno osservano le stelle così scrupolosamente che mantengono la rotta. Dalla Sicilia molti marinai si dirigevano verso le imboccature dei porti dell’Africa e verso i mercati della Grecia e facevano lucrosi affari. Talora a causa del vento, le navicelle erano spinte nell’insenatura o in un luogo sicuro e gettavano le ancore. I pirati erano grandissimi nemici dei marinai. Spesso si scagliavano contro gli scafi e rubavano cibo, acqua, denaro ed armi, uccidevano gli uomini e distruggevano interamente la barca con il fuoco. Anche gli abitanti di Siracusa temevano i pirati. Spesso dagli uomini le ricchezze erano difese con le armi e dalle donne le pietre preziose erano nascoste nelle anfore.

“Teseo e Arianna”

Theseus posteaquam Cretam venit, ab Ariadne Minois filia est adamatus adeo, ut fratrem proderet et hospitem servaret; ea enim Theseo monstravit labyrinthi exitum, quo Theseus cum introisset et Minotaurum interfecisset, Ariadnes monitu licium revolvendo foras est egressus, eamque, quod fidem ei dederat, in coniugio secum habiturus avexit. Theseus in insula Dia tempestate retentus cogitans, si Ariadnen in patriam portasset, sibi opprobrium futurum, itaque in insula Dia dormientem reliquit; quam Liber amans inde sibi in coniugium abduxit. Theseus autem cum navigaret, oblitus est vela atra mutare, itaque Aegeus pater eius, credens Theseum a Minotauro esse consumptum, in mare se praecipitavit, ex quo Aegeum pelagus est dictum. Ariadnes autem sororem Phaedram Theseus duxit in coniugium.

Dopo che arrivò a Creta Teseo venne intensamente amato da Arrianna, figlia di Minosse, a tal punto che quella tradì il fratello e salvò l’ospite; ella indicò infatti l’uscita del labirinto, dopo che Teseo vi era entrato e aveva ucciso il Minotauro, su consiglio di Arianna, riavvolgendo il filo, ne uscì fuori, e dato che le aveva dato la sua parola, la portò via per sposarla. Teseo, trattenuto nell’isola di Dia da una tempesta, pensando che, se avesse portato Arianna in patria, sarebbe stato per lui un disonore, la lasciò così nell’isola di Dia mentre era addormentata; ma Libero (= Bacco), amandola, la portò via e se la sposò. Ma Teseo, mentre navigava, si dimenticò di cambiare la vela nera, e così suo padre Egeo, credendo che egli fosse stato ucciso dal Minotauro, si gettò in mare, ragione per cui quel mare venne chiamato Egeo. Poi Teseo sposò Fedra, sorella di Arianna.

“Il cavallo di Troia”

Cum Achivi per decern annos Troiam capere non valuissent, Epeus, monitu Minervae, equum mirae magnitudinis ligneum fecit. Intus sunt collecti Menelaus, Ulixes, Diomedes, Thessander, Sthenelus, Acamas, Thoas, Machaon, Neoptolemus, et in equo scripserunt: “Danaorum donum Minervae”; deinde castra traduxerunt Tenedum. Id Troiani cum viderunt, hostium profectioni crediderunt. Troianorum rex Priamus, ut equus in arcem Minervae duceretur, imperavit, feriatique ut omnes essent edixit. Cum vates Cassandra clamaret indicaretque Graecos milites in equo, fides ei data non est. Si equi venter apertus esset, Troiani hostium dolum patefecissent, sed, cum Troiani ex contrario equum in arcem statuissent et noctu, lusu atque vino lassi, obdormissent, Achivi ex equo eruperunt, portarum custodes occiderunt, sociosque, cum signum dedissent, receperunt et Troiam occupaverunt.

Poiché per dieci anni gli Achei non erano riusciti a prendere Troia, Epeo, su consiglio di Minerva, costruì un cavallo di legno di mirabile grandezza. All’interno si raccolsero Menelao, Ulisse, Diomede, Tessandro, Stenelo, Acamante, Toante, Macaone, Neottolemo e sul cavallo scrissero: “Dono dei Danai a Minerva”; poi trasferirono gli accampamenti a Tenedo. Avendo visto ciò, i Troiani credettero alla partenza dei nemici. Il re dei troiani, Priamo, ordinò che il cavallo fosse portato sulla rocca di Minerva, e stabilì che tutti fossero liberi da impegni. Per quanto la profetessa Cassandra gridasse e indicasse che i soldati Greci erano nel cavallo, a lei non fu data fiducia. Se il ventre del cavallo fosse stato aperto, i Troiani avrebbero scoperto l’inganno dei nemici, ma viceversa, avendo i Troiani collocato il cavallo sulla rocca e, di notte, essendosi addormentati, spossati dal gioco e dal vino, gli Achei balzarono fuori dal cavallo, uccisero le sentinelle alle porte, fecero entrare i compagni, ai quali avevano fatto un segnale, ed occuparono Troia.

“La congiura di Catilina”

M.Tullio Cicerone C.Antonio consulibus facta est Romae coniuratio. Praeerat L. Sergius Catilina, iuvenis nobilis generis, sed perditis moribus, qui constituerat consules aliosque magistratus iterficere, urbem incendio delere, rerum potiri. Adlexerat blanditiis iuvenes imperitos et cupidos divitiarum et voluptatum, praeterea omnium qui rerum novarum cupiditate flagrabant, promittens magna lucra magnsque quaestus. M.Cicero, gravitatem periculi considerans, motum sine mora repressit. Coniurati qui in urbe manserant comprehensi et interfecti sunt. Sed Catilina, qui iam Roma effugerat, exercitu collecto, cum copiis M.Antonio conflixit. Apud Pistorium profligatus est et morte strenue pugnans appetivi.

Sotto il consolato di M. Tullio Cicerone e C. Antonio a Roma fu fatta una congiura. Ne era a capo L. Sergio Catilina giovane di nobile stirpe, ma di dissoluti costumi, il quale aveva deciso di uccidere i consoli e gli altri magistrati, di distruggere la città con un incendio e impadronirsi del potere. Aveva attirato a sè con lusinghe giovani inesperti e desiderosi di ricchezze soprattutto quelli che ardevano dal desiderio di cose nuove promettendo grandi guadagni e grandi vantaggi. M. Cicerone rendendosi conto della gravità del pericolo represse senza indugio il movimento politico. I congiurati che erano rimasti in città furono catturati ed uccisi. Ma Catilina, che già si era allontanato da Roma, dopo avere riunito l’esercito si scontrò con le milizie di Antonio. Fu sconfitto presso Pistoia e combattendo strenuamente andò verso la morte.