“La favola di Gige”

Gyges, cum terra discessisset magnis quibusdam imbribus, descendit in illum hiatum aeneumque equum, ut ferunt fabulae, animadvertit, cuius in lateribus fores essent; quibus aperit, corpus hominis mortui vidit magnitudine inusitata anulumque aureum in digito. Quem ut detraxit, ipse induit; (erat autem regius pastor) tum in concilium se pastorum recepit. Ibi, cum palam eius anuli ad palmam converterat, a nullo videbatur, ipse autem omnia videbat; idem rursus videbatur, cum in locum anulum inverterat. Itaque hac opportunitate anuli usus, regem dominum interemit, sustuli quos obstare arbitrabatur, nec in his eum facinoribus quisquam potuit videre. Sic repente anuli beneficio rex exortus est Lydiae.

Gige, essendo caduto in terra un violento nubifragio, scese in quella voragine e scorse, come dicono le leggende, un cavallo di bronzo, con un anello d’oro al dito; glielo tolse e se lo mise, poi si recò all’adunanza dei pastori (era, infatti, pastore del re); lì, ogni volta che volgeva il castone dell’anello verso la palma della mano, diveniva invisibile a tutti, mentre egli era in grado di veder tutto; ritornava nuovamente visibile quando rimetteva l’anello al suo posto. E così, servendosi dei poteri concessigli dall’anello, fece violenza alla regina e col suo aiuto uccise il re suo padrone, tolse di mezzo chi, a parer suo, gli si opponeva, e nessuno potè scorgerlo mentre compiva questi delitti; così, tutto ad un tratto, grazie all’anello divenne re della Lidia.

De Officiis, I, 15 (“Le quattro virtù cardinali”)

Formam quidem ipsam, Marce fili, et tamquam faciem honesti vides, “quae si oculis cerneretur, mirabiles amores ut ait Plato, excitaret sapientiae”. Sed omne, quod est honestum, id quattuor partium oritur ex aliqua. Aut enim in perspicientia veri sollertiaque versatur aut in hominum societate tuenda tribuendoque suum cuique et rerum contractarum fide aut in animi excelsi atque invicti magnitudine ac robore aut in omnium, quae fiunt quaeque dicuntur ordine et modo, in quo inest modestia et temperantia. Quae quattuor quamquam inter se colligata atque implicata sunt, tamen ex singulis certa officiorum genera nascuntur, velut ex ea parte, quae prima discripta est, in qua sapientiam et prudentiam ponimus, inest indagatio atque inventio veri, eiusque virtutis hoc munus est proprium.

Eccoti, o Marco, figliuol mio, la forma ideale e, direi quasi, la sembianza pura dell’onesto, “quella che, se la si scorgesse coi nostri occhi, accenderebbe in noi”, come dice Platone, “un meraviglioso amore per la sapienza”. Ma ogni atto onesto scaturisce da una di queste quattro fonti: o consiste nell’accurata e attenta indagine del vero; o nella conservazione della società umana, dando a ciascuno il suo e rispettando lealmente i patti; o nella grandezza e saldezza d’uno spirito sublime e invitto; o, infine, nell’ordine e nella misura di tutti i nostri atti e di tutti i nostri detti; e in ciò consiste appunto la moderazione e la temperanza. E benché queste quattro virtù siano in stretta connessione tra loro, tuttavia da ciascuna di esse nasce un particolare tipo di dovere, come, per esempio, quella virtù che ho distinta per prima e in cui poniamo la sapienza e la saggezza, la quale comporta, come suo proprio e speciale compito, la ricerca e la scoperta della verità.

De natura deorum, II, 10 (“L’errore di Tiberio Sempronio Gracco”)

At vero apud maiores tanta religionis vis fuit, ut quidam imperatores etiam se ipsos dis inmortalibus capite velato verbis certis pro re publica devoverent. Multa ex Sibyllinis vaticinationibus, multa ex haruspicum responsis commemorare possum quibus ea confirmentur, quae dubia nemini debent esse. Atqui et nostrorum augurum et Etruscorum haruspicum disciplinam P. Scipione C. Figulo consulibus res ipsa probavit. quos cum Ti. Gracchus consul iterum crearet, primus rogator, ut eos rettulit, ibidem est repente mortuus. Gracchus cum comitia nihilo minus peregisset remque illam in religionem populo venisse sentiret, ad senatum rettulit. Senatus quos ad soleret, referendum censuit. Haruspices introducti responderunt non fuisse iustum comitiorum rogatorem.

Ma al tempo dei nostri progenitori fu tanto il peso dei fattore religioso che alcuni comandanti di eserciti, a capo coperto e con formule determinate offrirono se stessi in olocausto agli dèi immortali per il bene della patria. Dai vaticini delle sibille e dai responsi degli aruspici si possono trarre molte veritiere testimonianze che nessuno ha il diritto di porre in dubbio. Ma è l’evidenza dei fatti che ha comprovato la validità della scienza dei nostri auguri e degli aruspici etruschi quando erano consoli Publio Scipione e Gaio Figulo. Tiberio Gracco, che rivestiva per la seconda volta l’ufficio di console, stava presiedendo l’elezione dei suoi successori; ed ecco che l’ufficiale incaricato di raccogliere i voti della prima centuria non appena ebbe riferito i nomi degli eletti morì sul luogo stesso. Gracco condusse ugualmente a termine i comizi, ma avendo notato che l’evento aveva turbato il sentimento religioso dell’assemblea, ne riferì al Senato. Il Senato allora decretò che il caso venisse deferito a chi di consueto e gli aruspici introdotti per l’occasione dichiararono che il presidente dei comizi non esercitava la carica di pieno diritto.

“Un re romano di origine greca”

Quidam Demaratus Corinthius, et auctoritate et fortunis facile civitatis suae princeps, cum Corinthiorum tyrannum Cypselum ferre non potuisset, magna cum pecunia fugisse seque contulisse Tarquinios in urbem Etruriae florentissimam dicitur. Cum libenter in civitatem receptus esset propter humanitatem atque doctrinam, Anco regi tam familiaris factus est ut conciliorum omnium particeps et socius regni putaretur. Eratin eo praeterea summa comitas, summaque in omnes cives benignitas. Mortuo Anco Marcio, cunctis populi suffragis rex est creatus Lucius Tarquinius: sic enim suum nomen ex Graeco nomine mutaverat, ut omni in genere populi Romani consuetudinem imitatus esse videretur.

Si narra che il corinzio Demarato, l’uomo senza dubbio più eminente della sua città per onori, autorità e fortune, non potendo tollerare la tirannia di Cipselo, fuggisse da Corinto con molte ricchezze e riparasse a Tarquinia, fiorentissima città dell’Etruria. Ottenuta facilmente la cittadinanza romana, per la sua gentilezza di costumi e per la sua cultura divenne così intimo del re Anco, da essere creduto partecipe di ogni suo disegno e suo socio nel regno. Era infatti uomo di singolare affabilità e di grande generosità verso tutti i cittadini. Quando Anco Marcio morì, Lucio Tarquinio fu creato re per unanime votazione del popolo: così (egli) aveva infatti mutato il suo nome dall’originale greco, per mostrare di avere assimilato in tutto le usanze del popolo romano.

“Il tebano Epaminonda, esempio di integrità morale e di valore militare”

Difficile est dictu utrum Epaminondas melior vir an dux fuerit. Nam et imperium non sibi sed patriae semper quaesivit et pecuniae adeo parcus fuit ut pauper decesserit atque publico sumptu elatus sit. Litterarum ac philosophiae scientia tanta ei fuit, ut omnes quaererent unde etiam tam insignem rei militaris peritiam sibi paravisset. Neque ab hoc vitae proposito mortis ratio dissensit. Nam Epaminondas, cum Lacedaemonios apud Mantineam vicisset simulque ipse gravi vulnere exanimari se videret, in castra semianimis relatus, vocem spiritumque collegit atque e circumstantibus quaesivit salvusne esset clipeus. Quod cum salvum esset sui responderunt, rogavit essentne fusi hostes. Cum id quoque, ut cupiebat, audivisset, evelli iussit eam, qua transfixus erat, hastam. Ita in multo sanguine sed in laetitia et in victoria, patriae gratia agens, exspiravit.

E’ difficile a dire se Epaminonda fu migliore come uomo che come comandante. Infatti non chiedeva il potere per se stesso ma per la patria e fu così parco di denaro che allontanò la povertà e con spesa pubblica. A quello fu tanta la conoscenza delle lettere e della filosofia, che tutti gli chiedevano dove avesse appreso una simile perizia nell’arte militare. E non dissentiva da questo proposito di vita la sua idea della morte. Infatti Epaminonda, avendo vinto i Lacedemoni presso Mantinea ed essendosi accorto di morire per una grave ferita, riportato nell’accampamento inanime, unì la voce e lo spirito e chiese a chi lo circondava se lo scudo fosse salvo. Poichè gli risposero che era stato salvato, chiese se i nemici lo avessero rotto. Avendo sentito ciò, come desiderava, ordinò che quell’asta che lo aveva trafitto gli fosse tolta. Così nel molto sangue ma nella gioia e nella vittoria, rendendo grazia alla patria, morì.

De Finibus, I, 46-47

46 – Quodsi vitam omnem perturbari videmus errore et inscientia, sapientiamque esse solam, quae nos a libidinum impetu et a formidinum terrore vindicet et ipsius fortunae modice ferre doceat iniurias et omnis monstret vias, quae ad quietem et ad tranquillitatem ferant, quid est cur dubitemus dicere et sapientiam propter voluptates expetendam et insipientiam propter molestias esse fugiendam?
47 – Eademque ratione ne temperantiam quidem propter se expetendam esse dicemus, sed quia pacem animis afferat et eos quasi concordia quadam placet ac leniat. temperantia est enim, quae in rebus aut expetendis aut fugiendis ut rationem sequamur monet. nec enim satis est iudicare quid faciendum non faciendumve sit, sed stare etiam oportet in eo, quod sit iudicatum. Plerique autem, quod tenere atque servare id, quod ipsi statuerunt, non possunt, victi et debilitati obiecta specie voluptatis.

46 – Se ci rendiamo conto che l’intera esistenza è turbata dall’errore e dall’ignoranza, e che la sapienza è la sola che ci liberi dall’assillo delle passioni e dal terrore delle paure e ci insegni a sopportare, con rassegnazione, le offese dello stesso destino e (ci) mostri tutte le strade che conducono alla pace ed alla tranquillità, che motivo c’è d’esitare a dire che si deve desiderare la sapienza per i piaceri e fuggire l’ignoranza per i dispiaceri?
47 – Secondo lo stesso principio, diremo che neanche la temperanza è desiderabile per se (stessa), ma perché infonde pace all’anima e lo tranquillizza con una sorta, come dire, di concordia. La temperanza, infatti, è (quella virtù) che (ci) ammonisce a seguire la ragione, nelle cose da desiderare o da fuggire. Del resto, non è sufficiente stabilire che cosa si debba fare o non fare: è anche opportuno rimaner fermi in ciò che si è stabilito. I più però non possono attenersi saldamente a ciò che essi stessi hanno stabilito, indeboliti e vinti dal frapporsi dell’apparenza del piacere.

“Le paure di un tiranno crudele”

Dionysus, Syracusanorum tyrannus propter iniustam dominatus cupiditatem in carcerem quodam modo ipse se incluserat. Quin etiam, ne tonsori collum committeret, tondere filias suas docuit. Ita sordido ancillarique artificio regiae virgines ut tonstriculae tondebant barbam et capillum patris. Et tamen ab iis ipsis, cum iam essent adultae, ferrum removit instituitque ut candentibus iuglandium putaminibus barbam sibi et capillum adurerent. Cumque duas uxores haberet, Aristomachen civem suam, Doridem autem Locrensem, sic noctu ad eas ventitabat, ut omnia specularetur et perscrutaretur ante. Et cum fossam latam cubiculari lecto circumdedisset, eiusque fossae transitum ponticulo ligneo coniunxisset, eum ipsum, cum forem cubiculi clauserat, detorquebat.

Dioniso, tiranno di Siracusa per la sua ingiusta sete di potere, in qualche modo si era rinchiuso in prigione da sé. Anzi, per non affidare il collo ad un barbiere, insegnò alle proprie figlie a radere. Così, con un mestiere sordido e servile, delle vergini di sangue reale, come delle apprendiste parrucchiere, tagliavano la barba e i capelli del padre. E tuttavia, quando ormai erano adulte, allontanò il ferro da queste stesse, e stabilì che (gli) bruciassero la barba ed i capelli con gusci di noce ardenti. Ed avendo due mogli, Aristomaca sua concittadina, Doride invece di Locri, di notte soleva recarsi da loro solo dopo aver osservato e perquisito tutto. E poiché aveva fatto circondare il letto della sua stanza con un largo fossato, e (ne) consentiva il passaggio con un ponticello di legno, dopo aver chiuso la porta della camera da letto spostava quello stesso.

Ad Familiares, XIV, 3 (“Dolenti parole di Cicerone”)

Accepi ab Aristocrito tres epistulas, quas ego lacrimis prope delevi; conficior enim maerore, mea Terentia, nec meae me miseriae magis excruciant quam tuae vestraeque, ego autem hoc miserior sum quam tu, quae es miserrima, quod ipsa calamitas communis est utriusque nostrum, sed culpa mea propria est. Meum fuit officium vel legatione vitare periculum vel diligentia et copiis resistere vel cadere fortiter: hoc miserius, turpius, indignius nobis nihil fuit. Quare cum dolore conficior, tum etiam pudore: pudet enim me uxori meae optimae, suavissimis liberis virtutem et diligentiam non praestitisse; nam mihi ante oculos dies noctesque versatur squalor vester et maeror et infirmitas valetudinis tuae, spes autem salutis pertenuis ostenditur. Inimici sunt multi, invidi paene omnes: eiicere nos magnum fuit, excludere facile est; sed tamen, quamdiu vos eritis in spe, non deficiam, ne omnia mea culpa cecidisse videantur. Ut tuto sim, quod laboras, id mihi nunc facillimum est, quem etiam inimici volunt vivere in his tantis miseriis; ego tamen faciam, quae praecipis. Amicis, quibus voluisti, egi gratias et eas litteras Dexippo dedi meque de eorum officio scripsi a te certiorem esse factum. Pisonem nostrum mirifico esse studio in nos et officio et ego perspicio et omnes praedicant: di faxint, ut tali genero mihi praesenti tecum simul et cum liberis nostris frui liceat! Nunc spes reliqua est in novis tribunis pl. et in primis quidem diebus; nam, si inveterarit, actum est. Ea re ad te statim Aristocritum misi, ut ad me continuo initia rerum et rationem totius negotii posses scribere, etsi Dexippo quoque ita imperavi, statim ut recurreret, et ad fratrem misi, ut crebro tabellarios mitteret; nam ego eo nomine sum Dyrrhachii hoc tempore, ut quam celerrime, quid agatur, audiam, et sum tuto; civitas enim haec semper a me defensa est. Cum inimici nostri venire dicentur, tum in Epirum ibo. Quod scribis te, si velim, ad me venturam, ego vero, cum sciam magnam partem istius oneris abs te sustineri, te istic esse volo. Si perficitis, quod agitis, me ad vos venire oportet; sin autem””sed nihil opus est reliqua scribere. Ex primis aut summum secundis litteris tuis constituere poterimus, quid nobis faciendum sit: tu modo ad me velim omnia diligentissime perscribas, etsi magis iam rem quam litteras debeo exspectare. Cura, ut valeas et ita tibi persuadeas, mihi te carius nihil esse nec umquam fuisse. Vale, mea Terentia; quam ego videre videor: itaque debilitor lacrimis. Vale.

Da Aristocrito ho avuto tre lettere e le ho quasi cancellate con le mie lacrime: Terenzia mia, una cupa disperazione mi distrugge e le mie sciagure non danno tanto tormento quanto le tue e le vostre. Ma io mi sento più disgraziato di te, che pure sei al colmo d’ogni male, perché se la sventura di per sé è comune a tutti e due, la colpa è tutta e solo mia. Sarebbe stato compito mio o evitare il pericolo accettando la missione offertami, o resistere predisponendo con ogni cura le difese necessarie, o cadere da forte. Niente è stato più sciagurato, vergognoso, indegno del mio comportamento. Ecco perciò che oltre al dolore mi consuma la cattiva coscienza: mi vergogno di non avere provveduto con energia e sollecitudine ai diritti della migliore delle mogli e a quelli di due figli amorosissimi. Ho davanti agli occhi giorno e notte lo spettacolo della vostra desolazione e della vostra angoscia e la precarietà della tua salute, mentre la speranza di risollevarci si rivela tanto esigua. Molti ci sono ostili, quasi tutti pieni di rancore: cacciarmi via è stata una grossa impresa; tenermi lontano è facile! Ma pure, finché voi avrete un filo di speranza, terrò duro, perché non sembri che tutto sia affondato per colpa mia. Per la mia sopravvivenza, della quale continui a preoccuparti, a questo punto non trovo alcuna difficoltà: i nemici stessi desiderano vedermi vivere in questo panorama di miserie senza fine! Ma seguirò lo stesso i tuoi suggerimenti. Ho ringraziato gli amici che volevi tu e ho affidato le lettere a Dexippo e ho scritto che tu mi avevi informato delle loro premure. Vedo da me stesso e tutti mi raccontano quante care prove di affetto per me stia dando il nostro Pisone. Mi conceda il cielo di godere un giorno di persona insieme con te e con i nostri figlioli delle premure di un simile genero! Ora la speranza residua è nei nuovi tribuni della plebe e nei primissimi giorni della loro attività: se si tirasse per le lunghe, sarebbe la fine. Così ti ho subito rinviato Aristocrito, per darti la possibilità di riferirmi immediatamente sulle prime iniziative e sul taglio che si vuole dare all’intera faccenda; per quanto abbia dato disposizioni anche a Dexippo di rimettersi in moto senza indugio e abbia scritto a mio fratello di intensificare i corrieri. È anche inìatti a questo titolo che in questo momento mi trovo a Durazzo, per essere a giorno il più rapidamente possibile delle ultime novità, e qui sono al sicuro: ho sempre tutelato gli interessi di questa comunità. Quando dovessero giungermi voci di un prossimo arrivo dei nemici nostri, allora passerò in Epiro. Quanto alla tua proposta di venire da me, se voglio, io per me – sapendo che gran parte di quest’onere ricade su di te – preferirei che rimanessi dove sei. Se portate a termine la vostra azione, sono io che dovrò venire da voi; in caso contrario… Ma non c’è bisogno di proseguire oltre. Dalla prima, o al più dalla seconda lettera tua, si potrà decidere il da farsi. Per ora, gradirei che mi ragguagliassi su tutto, senza tralasciare alcun particolare: anche se, in verità, sono fatti più che lettere che oramai devo aspettarmi. Cerca di star bene e credi che niente mi è né mai mi è stato più caro di te. Addio, mia cara Terenzia: mi pare come se ti vedessi ed ecco che mi sento venir meno dalla commozione. Addio.

De Officiis, I, 90-91 (“Bisogna conservare la moderazione in ogni circostanza della vita”)

In rebus prosperis superbia magnopere arrogantiaque nobis fugiendae sunt. Nam ut in rebus adversis immoderate queri, sic in rebus secundis nimium laetari levitatis atque stultitiae indiciun est: in omnibus vitae rebus modus, servandus est. Igìtur recte dicunt qui nos monent ut quanto superiores simus, tanto submissius nos geramus. Panaetius, clarus philosophus, narrat Scipionem Africanum solitum esse dicere: “Ut equi indomiti domitoribus tradendi sunt, ut iis sine periculo uti possìmus sic homines secundis rebus ecfrenati sibique praefidentes monendi sunt, ut de rerum humanarum imbecillitate varietateque fòrtunae cogitent”. Etiam in secundissimis rebus maxime utendum est consilio amicorum adsenatores autem omninno fugiendi sunt neque a nobis eorum verbìs, quae saepe nos decipiunt, aures praebendae sunt.

Nelle circostanze fortunate, dobbiamo evitare, in sommo grado la superbia e l’arroganza. Come nell’avversa fortuna il sopportare senza regola, così quando la fortuna ci sorride è indizio di gran leggerezza e di stoltezza il rallegrarsi oltre misura: in ogni circostanza della vita dobbiamo conservare la moderazione; tal che sono nel giusto coloro i quali ci consigliano di comportarci tanto più umilmente quanto più siamo posti in alto. Panezio, filosofo famoso, racconta che Scipione l’Africano soleva dire: “Come i puledri recalcitranti devono essere addomesticati dai domatori, tal che possiamo servircene senza pericolo alcuno, così gli uomini – imbaldanziti ed estremamente fiduciosi delle proprie possibilità nelle circostanze fortunate – devono essere ragguagliati circa l’instabilità delle cose umane e la mutabilità della fortuna. Anzi, quanto più ci arride la fortuna, tanto più bisogna servirsi del consiglio degli amici, al contrario bisogna evitare gli adulatori e non dobbiamo prestare ascolto alle parole di coloro i quali intendono ingannarci.

De Divinatione, I, 46

Atque ego exempla ominum nota proferam. L. Paulus consul iterum, cum ei bellum ut cum rege Perse gereret obtigisset, ut ea ipsa die domum ad vesperum rediit, filiolam suam Tertiam, quae tum erat admodum parva, osculans animadvertit tristiculam. “Quid est,” inquit, “mea Tertia? quid tristis es?” “Mi pater,” inquit, “Persa periit.” Tum ille artius puellam complexus: ‘Accipio,” inquit, “mea filia, omen. Erat autem mortuus catellus eo nomine, L. Flaccum, flaminem Martialem, ego audivi, cum diceret Caeciliam Metelli, cum vellet sororis suae filiam in matrimonium conlocare, exisse in quoddam sacellum ominis capiendi causa, quod fieri more veterum solebat. Cum virgo staret et Caecilia in sella sederet, neque diu ulla vox exstitisset, puellam defatigatam petisse a matertera, ut sibi concederet paulisper ut in eius sella requiesceret; illam autem dixisse: “Vero, mea puella, tibi concedo meas sedes.” Quod omen res consecuta est; ipsa enim brevi mortua est, virgo autem nupsit, cui Caecilia nupta fuerat. Haec posse contemni vel etiam rideri praeclare intellego, sed id ipsum est deos non putare, quae ab iis significantur contemnere.

Ed io ti rammenterò ben noti esempi di òmina. Lucio Paolo console per la seconda volta essendogli toccato l’incarico di condurre la guerra contro il re Perse quando in quello stesso giorno sull’imbrunire ritornò a casa nel dare un bacio alla sua bambina Terzia ancora molto piccola a quel tempo si accorse che era un pò triste. “Che è successo Terzia?” le chiese; “Perché sei triste?”. E lei: “Babbo” disse “E’ morto Persa”. Egli allora abbracciandola forte disse: “Accetto il presagio figlia mia”. Era morto un cagnolino che si chiamava così. Ho udito raccontare io stesso da Lucio Flacco, flàmine marziale, che Cecilia moglie di Metello volendo far sposare la figlia di sua sorella si recò in un tempietto per ricevere un presagio secondo l’uso degli antichi. La nipote stava in piedi Cecilia era seduta; per molto tempo non si sentì nessuna voce; allora la ragazza stanca chiese alla zia che le permettesse di riposarsi un poco sulla sua sedia. E Cecilia: “Certo bambina mia ti lascio il mio posto”. E il detto si avverò: Cecilia morì poco dopo e la ragazza sposò colui che era stato il marito di Cecilia. Lo capisco fin troppo bene: queste cose si possono disprezzare o si può anche riderne; ma disprezzare i segni inviati dagli dèi e negare la loro esistenza è tutt’uno.

“Cicerone riceve la notizia della morte di un amico”

Eo die a Marcello digressus eram: ego in Boeotiam ibam, ille in Italiam navigaturus erat. Postero die, Postumius ad me venit et mihi nuntiavit M. Marcellum, collegam nostrum, post cenae tempus a P. Magio Chilone pugione percussum esse et duo vulnera accepisse, unum in stomacho, alterum in capite. Medicus tamen sperabat eum victurum esse. Cum illuxit, ad Marcellum contendi. Non longe a Piraeo puer obviam mihi venit cum codicillis in quibus scriptum erat paulo ante lucem Marcellum e vita excessisse. Ego tamen ad tabernaculum eius perrexi. Inveni duos libertos et paucos servos. Coactus sum in eadem illa lectica, qua ego ipse vectus eram, urbem eum referre, ibique funus satis amplum ei faciendum curavi.

Ero partito quel giorno da Marcello: io andavo in Beozia, quegli stava per navigare verso l’Italia. Il giorno dopo Postumio venne da me e mi annunciò che M. Marcello, mio collega dopo la cena era stato colpito col pugnale da P. Magio Chilone e aveva ricevuto due ferite, una nel petto, l’altra in testa. Il medico tuttavia sperava che egli sarebbe vissuto. Quando si fece giorno, mi diressi da Marcello. Non lontano dal Pireo mi venne incontro un servo con un biglietto in cui era scritto che poco prima dell’alba Marcello era morto . Io tuttavia mi diressi alla sua tenda. (Vi) trovai due liberti e pochi servi. Fui costretto a riportarlo in città sulla medesima lettiga in cui io stesso avevo viaggiato e lì gli feci fare un funerale solenne.

Ad Familiares, XIII, 77 (“Cicerone denuncia un furto di libri dalla sua biblioteca”)

A te peto in maiorem modum pro nostra amicitia et pro tuo perpetuo in me studio ut in hac re etiam elabores: Dionysius, servus meus, qui meam bibliothecen multorum nummorum tractavit, cum multos libros surripuisset nec se impune laturum putaret, aufugit. Is est in provincia tua. Eum et M. Bolanus, familiaris meus, et multi alii Naronae viderunt, sed cum se a me manu missum esse diceret crediderunt. Hunc tu si mihi restituendum curaveris, non possum dicere quam mihi gratum futurum sit. Res ipsa parva, sed animi mei dolor magnus est. Ubi sit et quid fieri possit Bolanus te docebit. Ego si hominem per te reciperavero, summo me a te beneficio adfectum arbitrabor.

Ti chiedo con insistenza, in nome della nostra amicizia e del tuo continuo amore verso di me, che ti dia da fare anche in questa faccenda: Dionisio, un mio servo, che ha curato la mia biblioteca di grande valore, dopo aver sottratto molti libri, pensando che non (li) avrebbe portati via impunemente, è fuggito. Egli si trova nella tua provincia. Marco Bolano, un mio amico, e molti altri lo hanno visto a Narona, ma poiché diceva che era stato liberato da me, (gli) hanno creduto. Se tu mi farai riavere costui, non posso dirti che piacere mi farà. Il fatto di per sé (è) di poca importanza, ma il dolore del mio cuore è grande. Bolano ti farà sapere dove sia e che cosa si possa fare. Io, se riuscirò grazie a te a rientrare in possesso di (quell’)uomo, riterrò di aver ricevuto da te un grandissimo beneficio.

Laelius De Amicitia, 1

Q. Mucius augur multa narrare de C. Laelio socero suo memoriter et iucunde solebat nec dubitare illum in omni sermone appellare sapientem; ego autem a patre ita eram deductus ad Scaevolam sumpta virili toga, ut, quoad possem et liceret, a senis latere numquam discederem; itaque multa ab eo prudenter disputata, multa etiam breviter et commode dicta memoriae mandabam fierique studebam eius prudentia doctior. Quo mortuo me ad pontificem Scaevolam contuli, quem unum nostrae civitatis et ingenio et iustitia praestantissimum audeo dicere. Sed de hoc alias; nunc redeo ad augurem.

Quinto Mucio, l’augure, soleva raccontare piacevolmente affidandosi alla memoria, molte cose intorno a Gaio Lelio, suo suocero, e non esitava a chiamarlo, in ogni discorso, “sapiente”; io, poi, presa la toga virile, ero stato condotto dal padre mio a Scevola con l’intenzione che, finché potessi e mi fosse consentito , non mi allontanassi mai dal fianco del vecchio, e così molte cose da lui con sapienza discusse, molte dette con brevità e garbo, le mandavo a memoria e mi studiavo di farmi con la sua esperienza più dotto. Morto lui, mi sono recato da Scevola pontefice, che oso dire superiore per ingegno e rettitudine a tutti i nostri concittadini. Ma di lui un’altra volta: adesso ritorno all’augure.

De Senectute, 79-80

79 – Apud Xenophontem autem moriens Cyrus maior haec dicit: ‘Nolite arbitrari, O mihi carissimi filii, me, cum a vobis discessero, nusquam aut nullum fore. Nec enim, dum eram vobiscum, animum meum videbatis, sed eum esse in hoc corpore ex eis rebus quas gerebam intellegebatis. Eundem igitur esse creditote, etiamsi nullum videbitis.
80 – Nec vero clarorum virorum post mortem honores permanerent, si nihil eorum ipsorum animi efficerent, quo diutius memoriam sui teneremus. Mihi quidem numquam persuaderi potuit animos, dum in corporibus essent mortalibus, vivere, cum excessissent ex eis, emori, nec vero tum animum esse insipientem, cum ex insipienti corpore evasisset, sed cum omni admixtione corporis liberatus purus et integer esse coepisset, tum esse sapientem. Atque etiam cum hominis natura morte dissolvitur, ceterarum rerum perspicuum est quo quaeque discedat; abeunt enim illuc omnia, unde orta sunt, animus autem solus nec cum adest nec cum discedit, apparet. Iam vero videtis nihil esse morti tam simile quam somnum.

79 – In Senofonte, Ciro il vecchio pronuncia queste parole in punto di morte: “Non pensiate, o figli carissimi, che, quando me ne sarò andato da voi, non sarò da nessuna parte o non esisterò più. Mentre ero con voi, infatti, non vedevate la mia anima, ma, sulla base delle mie azioni, pensavate che si trovasse in questo mio corpo. Dovete credere allora che sarà sempre la stessa, anche se non la vedrete più.
80 – Gli uomini illustri non continuerebbero a ricevere onori dopo la morte se non fossero le loro anime a rinnovare in noi il loro ricordo. Quanto a me, non sono mai riuscito a convincermi che le anime, finché si trovano nei corpi mortali, vivano, ma, una volta uscite, muoiano, né che l’anima perda il senno quando si stacca dal corpo che senno non ha, ma sono convinto che quando l’anima, liberatasi da ogni contatto fisico, incomincia a essere pura e incorrotta, allora acquisisca il senno. Inoltre, una volta che l’organismo umano si disfa con la morte, si vede bene dove si disperdono gli altri elementi: vanno tutti a finire là da dove sono sorti; soltanto l’anima non appare né quando c’è, né quando se n’è andata.

De natura deorum, II, 39

Ac principio terra universa cernatur, locata in media sede mundi, solida et globosa et undique ipsa in sese nutibus suis conglobata, vestita floribus, herbis, arboribus, frugibus, quorum omnium incredibilis multitudo insatiabili varietate distinguitur. Adde huc fontium gelidas perennitates, liquores perlucidos amnium, riparum vestitus viridissimos, speluncarum concavas altitudines, saxorum asperitates, inpendentium montium altitudines inmensitatesque camporum; adde etiam reconditas auri argentique venas infinitamque vim marmoris. 99. Quae vero et quam varia genera bestiarum vel cicurum vel ferarum! qui volucrium lapsus atque cantus! qui pecudum pastus! quae vita silvestrium! Quid iam de hominum genere dicam? qui quasi cultores terrae constituti non patiuntur eam nec inmanitate beluarum efferari nec stirpium asperitate vastari, quorumque operibus agri, insulae litoraque collucent distincta tectis et urbibus. Quae si, ut animis, sic oculis videre possemus, nemo cunctam intuens terram de divina ratione dubitaret.

E in primo luogo si guardi la terra nel suo insieme, collocata al centro del mondo, compatta, sferica, e interamente riunita in una sola massa dalla sua stessa gravitazione, vestita di fiori, erbe, alberi, frutti, tutti esseri viventi la cui incredibile moltitudine è differenziata da un’inesauribile varietà. Aggiungi le fonti gelide e perenni, l’acqua trasparente dei fiumi, le rive rivestite di un manto verdissimo, le profonde cavità delle caverne, l’asprezza delle rocce, l’altezza dei monti scoscesi, l’immensità delle pianure; aggiungi inoltre i giacimenti nascosti di oro e di argento e il marmo in quantità infinita. Quali e quanto varie sono le specie di animali sia domestici che selvatici, quali il volo e il canto degli uccelli, quali i pascoli del bestiame, quale la vita delle selve! Che dire poi del genere umano, che, posto per cosi dire come coltivatore della terra, non lascia che essa sia inselvatichita dalla bestialità delle fiere e sia isterilita da una crescita selvaggia delle erbe, e le cui opere ornano e fanno risplendere di case e di città le terre, le isole, i litorali? Se potessimo vedere tutto questo con gli occhi cosi come lo vediamo con la mente, nessuno, alla vista della terra intera, dubiterebbe dell’esistenza dell’intelligenza divina.

Pro Sulla, XXVI

Ego, tantis a me beneficiis in re publica positis, si nullum aliud mihi praemium ab senatu populoque Romano nisi honestum otium postularem, quis non concederet? Quid? Si hoc non postulo, heac dominandi cupido exstimanda est? Res enim gestae mea num me nimisextulerunt vel superbos spiritus attulerunt? Quibus de rebus tam claris, tam immortalibus, hoc possum dicere, me qui ex summis periculis eripuerim urbem hanc et vitam omnium civium satis adeptum fore, si ex hoc tanto in omnis mortalis beneficio nullum in me periculum redundarit. Etenim in qua civitate res tantas gesserim memini, in qua urbe verser intellego. Plenum forum est eorum hominum quos ego a vestris cervicibus depulia meis non removi. Horum ego faces eripere de manibus et gladios extorquere potui, sicuti feci, voluntates vero consceleratas ac nefarias nec sanare potui nec tollere. Quare non sum nescius quanto periculo vivam in tanta multitudine improborum, cum mihi uni cum omnibus improbis aeternum videam bellum esse susceptum.

Se – dopo tanti benefici resi da me allo Stato – io per me avessi chiesto al senato ed al popolo di Roma nessun’altra ricompensa se non un onorevole otium, chi avrebbe osato non concedermelo? E allora? Il fatto che io non avanzi tale richiesta dev’essere ritenuto prova di un’eccessiva brama di potere? Forse che, allora, le mie imprese m’hanno insuperbito oltre il lecito? In realtà, a riguardo delle mie imprese, effettivamente meritorie d’immortale lustro, questo posso dire: mi riterrei già abbastanza ricompensato se (ora) non mi trovassi esposto ad alcun pericolo, per l’essermi prodigato così tanto in favore della comunità, ovvero per l’aver tratto in salvo questa città, e la vita di tutti i (suoi) cittadini, dalla rovina. In realtà, ben ricordo in che Stato io abbia compiuto cotante imprese, e ben mi rendo conto in che città io ora (nonostante ciò) mi trovi a vivere. Il foro pullula di quei (loschi) individui da cui vi ho personalmente liberati, senza che io stesso me ne sbarazzassi (del tutto). Ho agito secondo il possibile, disarmandoli, con la forza, delle (loro) fiaccole incendiare e delle (loro) spade; ma non sono certo riuscito a temprare, né tantomeno ad estirpare, i loro propositi scellerati ed omicidi. Per la qual cosa, mi rendo perfettamente conto in quanto grande pericolo io a tutt’oggi versi, in mezzo ad una tal folla di scellerati: anzi, mi sembra d’aver ingaggiato, io solo, un scontro personale e destinato a non finire mai contro tutti i malvagi (che si trovano in Roma).

“Damone e Finzia”

Cum Syracusarum tyrannus erat Dionysius, qui admodum crudelis erat ac cives cotidie variis modis excruciabat, Phintias Pythagoreus, suis civibus proficere volens, statuit eum necare. Sed, dum Phintias pugione tyrannum percussurus est, Dionysii custodes eum comprehenderunt et ad tyrannum perduxerunt, qui eum capitis damnavit. Phintias sententiam aequo animo accepit sed a tyranno tres dies petivit, ut posset matrem postremum revisere, et amicum Damonem sponsorem dedit. Dionysius, Damone in vincula coniecto, Phintiam liberavit. Phintias matrem revisit sed eius reditus admodum difficilis fuit, quia, prae pluvia vehementi, altum ac turbineum flumen transire non poterat. Die constituta iam milites Damonem pro Phintia necaturi erant, cum repente amicus pervenit. Dionysius, tanto fidei documento motus, Phintiae veniam concessit ambosque amicos incolumes dimisit.

Quando era tiranno di Siracusa Dionigi, il quale era molto crudele e affliggeva i cittadini ogni giorno in vari modi, il pitagorico Finzia, volendo giovare ai suoi concittadini, decise di ucciderlo. Ma mentre Finzia stava per colpire il tiranno col pugnale, le guardie di Dionigi lo presero e (lo) condussero dal tiranno, che lo condannò a morte. Finzia accolse la sentenza con animo sereno, ma chiese al tiranno tre giorni per poter rivedere la madre per l’ultima volta e diede come garante l’amico Damone. Dionigi, gettato in carcere Damone, liberò Finzia. Finzia rivide la madre e il suo ritorno fu molto difficile, perché a causa di una forte pioggia non poteva attraversare un fiume profondo e vorticoso. Nel giorno stabilito già i soldati stavano per uccidere Damone al posto di Finzia, quando all’improvviso l’amico arrivò. Dionigi, colpito da una testimonianza così grande di fedeltà alla parola data, concesse il perdono a Finzia e lasciò andare entrambi gli amici sani e salvi.

De Re Publica, II, 37 – 38

37 – Tum Laelius: ‘nunc fit illud Catonis certius, nec temporis unius nec hominis esse constitutionem rei publicae; perspicuum est enim, quanta in singulos reges rerum bonarum et utilium fiat accessio. sed sequitur is qui mihi videtur ex omnibus in re publica vidisse plurimum.’ ‘ita est’ inquit Scipio. ‘nam post eum Servius Tullius primus iniussu populi regnavisse traditur, quem ferunt ex serva Tarquiniensi natum, cum esset ex quodam regis cliente conceptus. qui cum famulorum numero educatus ad epulas regis adsisteret, non latuit scintilla ingenii quae iam tum elucebat in puero; sic erat in omni vel officio vel sermone sollers. itaque Tarquinius, qui admodum parvos tum haberet liberos, sic Servium diligebat, ut is eius vulgo haberetur filius, atque eum summo studio omnibus iis artibus quas ipse didicerat ad exquisitissimam consuetudinem Graecorum erudiit.
38 – sed cum Tarquinius insidiis Anci filiorum interisset, Serviusque ut ante dixi regnare coepisset, non iussu sed voluntate atque concessu civium, quod cum Tarquinius ex vulnere aeger fuisse et vivere falso diceretur, ille regio ornatu ius dixisset obaeratosque pecunia sua liberavisset, multaque comitate usus iussu Tarquinii se ius dicere probavisset, non commisit se patribus, sed Tarquinio sepulto populum de se ipse consuluit, iussusque regnare legem de imperio suo curiatam tulit. et primum Etruscorum iniurias bello est ultus; ex quo cum ma (*****)

37 – E allora Lelio: “questo conferma sempre più le parole di Catone secondo cui la nostra costituzione non sarebbe l’opera né di una sola età né di un solo uomo. Si vede bene, infatti, come ogni singolo re aggiungesse alla costituzione molti buoni ed utili istituti. Ma viene ora colui che mi pare abbia meglio d’ogni altro veduto chiaro nelle necessità dello Stato”. “Proprio così! disse Scipione, poiché a Tarquinio Prisco si vuole che, primo senza ordine del popolo, succedesse Servio Tullio, che si dice nato da una schiava tarquiniese e da un cliente del re. Educato con la servitù della casa reale al servizio della mensa, benché ragazzo, il cui vivido ingegno non tardò a farsi conoscere, tanto era intelligente in ogni servizio e in ogni parola. Tarquinio dunque, che aveva allora figliuoli in tenerissima età, aveva una tal predilezione per Servio che tutti lo credevano suo figlio. E Tarquinio faceva dare al ragazzo la perfetta e squisita educazione greca ch’egli stesso aveva avuta.
38 – Ma quando Tarquinio morì per tradimento dei figli di Anco, e Servio cominciò a regnare come già ho detto, non per espressa legge ma per volontà e consenso dei cittadini perché s’era sparsa la voce che Tarquinio soffrisse per le sue ferite ma non fosse ancor morto, Servio, in abiti regali, amministrava la giustizia e liberava gli oppressi dai debiti col proprio denaro. Mostrandosi straordinariamente affabile, diceva di amministrare a nome di Tarquinio e non volle mai affidarsi ai Padri. Ma, sepolto Tarquinio, volle finalmente che il popolo decidesse e ricevette anch’esso il potere da una legge curiata e suo primo pensiero fu vendicare con una guerra i danni fatti a Roma dagli Etruschi e poi (MANCA)

De Natura Deorum, I, 60 – 61 – 62

60 – Nec ego nunc ipse aliquid adferam melius. Ut enim modo dixi, omnibus fere in rebus, sed maxime in physicis, quid non sit, citius, quam quid sit, dixerim. Roges me, quid aut quale sit deus: auctore utar Simonide, de quo cum quaesivisset hoc idem tyrannus Hiero, deliberandi sibi unum diem postulavit; cum idem ex eo postridie quaereret, biduum petivit; cum saepius duplicaret numerum dierum admiransque Hiero requireret, cur ita faceret, “Quia, quanto diutius considero,” inquit “tanto mihi spes videtur obscurior”. Sed Simoniden arbitror (non enim poeta solum suavis, verum etiam ceteroqui doctus sapiensque traditur), quia multa venirent in mentem acuta atque subtilia, dubitantem, quid eorum esset verissimum, desperasse omnem veritatem.
61 – Epicurus vero tuus (nam cum illo malo disserere quam tecum) quid dicit, quod non modo philosophia dignum esset, sed mediocri prudentia? Quaeritur primum in ea quaestione, quae est de natura deorum, sintne dei necne sint. “Difficile est negare.” Credo, si in contione quaeratur, sed in huius modi sermone et in consessu [familiari] facillimum. Itaque ego ipse pontifex, qui caerimonias religionesque publicas sanctissime tuendas arbitror, is hoc, quod primum est, esse deos persuaderi mihi non opinione solum, sed etiam ad veritatem plane velim. Multa enim occurrunt, quae conturbent, ut interdum nulli esse videantur.
62 – Sed vide, quam tecum agam liberaliter: quae communia sunt vobis cum ceteris philosophis non attingam, ut hoc ipsum; placet enim omnibus fere mihique ipsi in primis deos esse. Itaque non pugno; rationem tamen eam, quae a te adfertur, non satis firmam puto. Quod enim omnium gentium generumque hominibus ita videretur, id satis magnum argumentum esse dixisti, cur esse deos confiteremur. Quod cum leve per se, tum etiam falsum est. Primum enim unde tibi notae sunt opiniones nationum? Equidem arbitror multas esse gentes sic inmanitate efferatas, ut apud eas nulla suspicio deorum sit.

60 – Non che io abbia in questo momento da proporre qualcosa di meglio. Come ho già detto in ogni questione, e soprattutto nel campo della filosofia naturale, mi riesce più facile demolire che costruire un sistema. . Qualora tu, comunque, volessi sapere da me in che cosa propriamente consista e quale sia la natura della divinità, potrei rifarmi all’autorità di Simonide. Di lui si narra che, avendogli il tiranno lerone rivolta questa stessa domanda, chiedesse un giorno per riflettere. Ma il giorno successivo, di fronte alla stessa richiesta, ne chiese due; ed in seguito, perché continuava a chiedere proroghe sempre più ampie, meravigliato lerone volle conoscere la ragione di un simile comportamento. Al che Simonide: ” quanto più a lungo ci rifletto sopra ” – rispose – ” tanto più la questione mì si fa oscura “. Probabilmente Simonide – che, come tutti sanno, non fu solo un delicato poeta, ma anche un uomo di profonda e varia cultura – finì col dubitare di ogni verità proprio perché svariate ed acute soluzioni si succedevano nel suo spirito senza che riuscisse a stabilire quale fosse la più vera.
61 – Ma il tuo Epicuro (con lui preferisco discutere piuttosto che con te) quale affermazione ha fatto che avesse non dico dignità filosofica ma almeno un minimo di comune buonsenso? Nella nostra questione relativa agli dèi il primo interrogativo che si presenta è quello relativo alla loro esistenza. ” E’ difficile negarla ” mi dirai, ed io te ne do atto, a patto però che questa domanda sia rivolta in una pubblica assemblea. In una conversazione privata come questa e fra persone come noi non c’è invece nulla di più facile. lo stesso che rivesto la carica di pontefice e ritengo che le cerimonie e le pratiche religiose in uso Presso il popolo vadano osservate col massimo scrupolo, vorrei tanto potermi convincere di questa prima verità, che cioè gli dèi esistono, non soltanto con la fede ma anche con prove razionali. Purtroppo accadono molti fenomeni sconcertanti che sembrano escluderne l’esistenza.
62 – Con te voglio però essere longanime: lascerò da parte tutte le convinzioni che voi avete in comune con le altre scuole, come quella testé esaminata. Siamo tutti d’accordo, ed io per primo, che gli dèi esistono e perciò non faccio obiezioni. Quella che non mi convince è la spiegazione da te addotta al riguardo. Tu hai detto che il consenso di tutti i popoli e di tutte le nazioni è un valido argomento per indurci ad ammettere l’esistenza degli dèi. Orbene, questa affermazione è ad un tempo superficiale e falsa. In primo luogo che sai tu di ciò che pensano gli altri popoli? Per quanto mi concerne ritengo che esistano popoli talmente immersi nella barbarie da non sospettare minimamente l’esistenza degli dèi.

De legibus, III, 5

Magistratibus igitur opus est sine quorum prudentia ac diligentia esse civitas non potest quorumque discriptione omnis rei publicae moderatio continetur. Neque solum iis praescribendus est imperandi sed etiam civibus obtemperandi modus. Nam et qui bene imperat paruerit aliquando necesse est et qui modeste paret videtur qui aliquando imperet dignus esse. Itaque oportet et eum qui paret sperare se aliquo tempore imperaturum et illum qui imperat cogitare brevi tempore sibi esse parendum. Nec vero solum ut obtemperent oboediantque magistratibus sed etiam ut eos colant diligantque praescribimus ut Charondas in suis facit legibus noster vero Plato Titanum e genere statuit eos qui ut illi caelestibus sic hi adversentur magistratibus. Quae cum ita sint ad ipsas iam leges veniamus si placet. Atticus: Mihi vero et istud et ordo iste rerum placet.

C’è dunque necessità di magistrati, perché senza la loro saggezza e diligenza non potrebbe sussistere uno Stato, e sulla loro distribuzione si fonda tutta la gestione dello Stato. E occorrerà stabilire non soltanto per essi un limite al loro potere, ma anche per i cittadini un limite all’obbedienza. Infatti chi ben comanda, dovrà un giorno o l’altro obbedire, e chi obbedisce con giudizio, può sembrare degno di assumere un giorno il potere. E’ necessario pertanto che chi obbedisce abbia la speranza di poter un giorno comandare, e colui che comanda rifletta che tra breve dovrà obbedire. Ma non solo prescriviamo che i cittadini siano sottomessi e obbediscano ai magistrati, ma anche che li onorino e li amino, come fece Caronda nella sua costituzione; d’altra parte il nostro Platone affermò che appartengono alla stirpe dei Titani coloro i quali resistano ai magistrati, così come già quelli resistettero agli dèi celesti. Stando così le cose, veniamo ora, se volete, alle leggi vere e proprie. Attico: – Sono perfettamente d’accordo su questo criterio e sulla successione degli argomenti.

“L’origine del linguaggio e delle città”

Plerique rerum scriptores eos homines, qui ex terra primitus nati sunt, cum per silvas et campos erraticam degerent vitam, nec ullo inter se sermonis aut iuris vinculo cohaererent, sed frondes et herbam pro cubilibus, speluncas et antra pro domibus haberent, bestiis et fortioribus animalibus praedae fuisse commemorant. Tum ii , qui aut laniati effugerant aut laniari proximos viderant, admoniti periculi sui ad alios hominesdecurrerunt, praesidium imploraverunt et primo nutibus voluntatem suam significaverunt, deinde sermonis initia temptaverunt, ac singulis quibusque rebus nomina imprimendo paulatim loquendi perfecerunt rationem. Cum autem multitudinem ipsam viderent contra bestias esse tutandam, optimum factu egerunt: oppida enim coeperunt munire, vel ut quietem noctis tutam sibi facerent, vel ut incursiones atque impetus bestiarum non pugnando, sed obiectis aggeribus arcerent.

La maggior parte degli storici, ricordano che quegli uomini i quali nacquero in origine dalla terra, quando trascorrevano una vita vagante (nomade) tra i boschi e i campi, e non erano uniti tra loro da alcun legame di comunicazione, ma avevano rami e piante come giacigli, grotte e cavità al posto delle case, sono stati (come) prede per bestie e animali più vigorosi. Allora quelli (coloro) i quali o sbranati erano fuggiti o avevano visto i loro congiunti essere sbranati, avvertiti del loro pericolo, corsero verso altri uomini, e implorarono protezione e prima con cenni manifestarono la propria volontà, dopo tentarono i (primi) inizi di un discorso, e perfezionarono la facoltà di parlare un pò alla volta dando nomi a ciascuna cosa. Poiché vedevano che la stessa moltitudine doveva essere protetta dalle bestie, fecero la cosa migliore da farsi, infatti, cominciarono a fortificare le città, per rendere sicura per sé stessi la quiete della notte, e per tenere lontano le incursioni e gli assalti delle bestie, non combattendo ma gettando i terrapieni.

“Lo svago di alcuni uomini severi”

Saepe ex socero meo audivi, cum is diceret socerum suum Laelium semper fere cum Scipione solitum rusticari eosque incredibiliter repuerascere esse solitos, cum rus ex urbe tamquam e vinculis evolavissent. Non audeo dicere de talibus viris, sed tamen ita solet narrare Scaevola, conchas eos et umbilicos ad Caietam et ad Laurentum legere consuesse et ad omnem animi remissionem ludumque descendere. Sic enim res se habet ut, quem ad modum volucres videmus effingere et construere nidos, easdem autem, cum aliquid effecerint, levandi laboris sui causa passim ac libere solutas opere volitare, sic nostri animi negotiis forensibus atque urbano opere defessi gestiant ac volitare cupiant vacui cura ac labore.

Spesso l’ho sentito dire da mio suocero, poiché egli diceva che suo suocero Lelio quasi sempre era solito alloggiare in campagna con Scipione e che essi erano soliti tornare incredibilmente bambini, essendo scappati via dalla città in campagna, quasi come dalla prigione. Non oso parlare di tali uomini, ma tuttavia Scevola è solito narrare così, che essi erano soliti raccogliere conchiglie e piante presso Gaeta e Laurento e abbandonarsi ad ogni divertimento e passatempo. La situazione sta infatti in questi termini, che, come vediamo gli uccelli che modellano e costruiscono nidi, ma poi essi stessi, dopo aver completato qualcosa, al fine di alleggerire la propria fatica, svolazzano di qua e di là liberamente, liberi dal lavoro; allo stesso modo, i nostri animi, liberi dagli impegni politici e dal lavoro cittadino, gioiscono e desiderano vagare liberi da preoccupazione e fatica.

De Officiis, I, 63

Praeclarum igitur illud Platonis: “Non,” inquit, “solum scientia, quae est remota ab iustitia calliditas potius quam sapientia est appellanda, verum etiam animus paratus ad periculum, si sua cupiditate, non utilitate communi impellitur, audaciae potius nomen habeat, quam fortitudinis.” Itaque viros fortes et magnanimos eosdem bonos et simplices, veritatis amicos minimeque fallaces esse volumus; quae sunt ex media laude iustitiae.

Bellissima, dunque, quella frase di Platone: « Non solo quel sapere, che è disgiunto da giustizia, va chiamato furfanteria piuttosto che sapienza, ma anche il coraggio che affronta i pericoli, se è mosso, non dal bene comune, ma da un suo personale interesse, abbia il nome di audacia piuttosto che di fortezza». Noi vogliamo pertanto che gli uomini forti e coraggiosi siano, nel medesimo tempo, buoni e schietti, amanti della verità e alieni da ogni impostura: qualità queste che scaturiscono dall’intima essenza della giustizia.

De Officiis, I, 62

Sed ea animi elatio, quae cernitur in periculis et laboribus, si iustitia vacat pugnatque non pro salute communi, sed pro suis commodis, in vitio est; non modo enim id virtutis non est, sed est potius immanitatis omnem humanitatem repellentis. Itaque probe definitur a Stoicis fortitudo, cum eam virtutem esse dicunt propugnantem pro aequitate. Quocirca nemo, qui fortitudinis gloriam consecutus est insidiis et malitia, laudem est adeptus: nihil enim honestum esse potest, quod iustitia vacat.

Ma quella grandezza d’animo che si manifesta nei pericoli e nelle difficoltà, se manca di giustizia e combatte, non per il pubblico bene, ma per i suoi particolari interessi, è in colpa: perché l’egoismo non solo è estraneo alla virtù, ma piuttosto è proprio della brutalità, che esclude e respinge ogni gentilezza umana. Pertanto gli Stoici ben definiscono la fortezza, quando affermano che essa è quella virtù che combatte in difesa della giustizia. Nessuno, perciò, che abbia conseguito fama di fortezza con inganni e con malizia, ha mai ottenuto una vera gloria: non c’è onestà se non c’è giustizia.

De finibus, V

Tantus est igitur innatus in nobis cognitionis amor et scientiae, ut nemo dubitare possit quin ad eas res hominum natura nullo emolumento invitata rapiatur. Videmusne ut pueri ne verberibus quidem a contemplandis rebus perquirendisque deterreantur? ut pulsi recurrant? ut aliquid scire se gaudeant? ut id aliis narrare gestiant? ut pompa, ludis atque eius modi spectaculis teneantur ob eamque rem vel famem et sitim perferant? quid vero? qui ingenuis studiis atque artibus delectantur, nonne videmus eos nec valitudinis nec rei familiaris habere rationem omniaque perpeti ipsa cognitione et scientia captos et cum maximis curis et laboribus compensare eam, quam ex discendo capiant, voluptatem? [Ut] mihi quidem Homerus huius modi quiddam vidisse videatur in iis, quae de Sirenum cantibus finxerit. neque enim vocum suavitate videntur aut novitate quadam et varietate cantandi revocare eos solitae, qui praetervehebantur, sed quia multa se scire profitebantur, ut homines ad earum saxa discendi cupiditate adhaerescerent.

Orbene, in noi è radicato un desiderio di conoscere e di sperimentare tanto grande, che nessuno potrebbe nutrire dubbi che la natura umana è, disinteressatamente, conquistata a tali conoscenze. Non vediamo forse come i fanciulli, neanche coi rimbrotti, rinunciano a scoprire e ad investigare le cose? Come, allontanati, vi ritornino? Come provino piacere ad imparare qualcosa? Come smanino di riferirlo ad altri? Come assistano rapiti a manifestazioni, giochi e spettacoli di tal fatta, al punto da dimenticare d’aver fame e sete? E dunque? Coloro che si profondono negli studi filosofici e scientifici, non vediamo che non badano né alla salute né alle occorrenze domestiche e s’adattano a tutto, rapiti dal sapere e dalla scienza in sé, e pagano con grandissimi affanni e fatiche quel piacere che traggono dalla conoscenza? Ora, ho l’impressione che Omero abbia voluto intendere un qualcosa di simile con la sua metafora sul canto delle Sirene. Queste, infatti, come sembra chiaro, erano solite attirare i navigatori, ma non tanto con la bellezza della loro voce o con l’inusitata melodia del canto, quanto piuttosto con la promessa di svelare grandi segreti; e i navigatori, spinti dal desiderio di conoscere, andavano a schiantarsi sui loro scogli.

De Officiis, II, 76-77-78

76 – Laudat Africanum Panaetius quod fuerit abstinens. Quidni laudet? Sed in illo alia maiora; laus abstinentiae non hominis est solum sed etiam temporum illorum. Omni Macedonum gaza quae fuit maxima potitus [est] Paulus; tantum in aerarium pecuniae invexit ut unius imperatoris praeda finem attulerit tributorum. At hic nihil domum suam intulit praeter memoriam nominis sempiternam. Imitatus patrem Africanus nihilo locupletior Carthagine eversa. Quid? qui eius collega fuit in censura L. Mummius num quid copiosior cum copiosissimam urbem funditus sustulisset? Italiam ornare quam domum suam maluit; quamquam Italia ornata domus ipsa mihi videtur ornatior.
77 – Nullum igitur vitium taetrius est ut eo unde digressa est referat se oratio quam avaritia praesertim in principibus et rem publicam gubernantibus. Habere enim quaestui rem publicam non modo turpe est sed sceleratum etiam et nefarium. Itaque quod Apollo Pythius oraclum edidit Spartam nulla re alia nisi avaritia esse perituram id videtur non solum Lacedaemoniis sed etiam omnibus opulentis populis praedixisse. Nulla autem re conciliare facilius benivolentiam multitudinis possunt ii qui rei publicae praesunt quam abstinentia et continentia.
78 – Qui vero se populares volunt ob eamque causam aut agrariam rem temptant ut possessores pellantur suis sedibus aut pecunias creditas debitoribus condonandas putant labefactant fundamenta rei publicae concordiam primum quae esse non potest cum aliis adimuntur aliis condonantur pecuniae deinde aequitatem quae tollitur omnis si habere suum cuique non licet. Id enim est proprium ut supra dixi civitatis atque urbis ut sit libera et non sollicita suae rei cuiusque custodia.

76 – Panezio loda l’Africano per il fatto che fu disinteressato. Ma perché mai? In lui ci furono altre doti maggiori. La lode di integrità non è solo propria di quell’uomo ma anche di quei tempi. Paolo s’impadronì di tutto il tesoro dei Macedoni che era enorme e versò nell’erario tanto denaro che il bottino di un solo generale permise di mettere fine alle tasse; ma egli non portò niente a casa sua tranne il ricordo eterno del nome. L’Africano imitò il padre e abbattuta Cartagine non fu per niente piu ricco. E che? Colui che fu suo collega nella pretura Lucio Mummio forse che diventò più ricco dopo aver distrutto sin dalle fondamenta una città ricchissima? Preferì abbellire l’Italia piuttosto che la sua casa; benché abbellita l’Italia la sua stessa casa mi sembra più ornata.
77 – Nessun vizio dunque è più vergognoso (per riportare il discorso là donde si è allontanato) dell’avidità soprattutto nei capi e negli amministratori di uno Stato. Considerare difatti lo Stato come fonte di guadagno non solo è vergognoso ma anche scellerato ed empio. Perciò quell’oracolo proferito da Apollo Pizio e cioè che Sparta non sarebbe perita per nessun’altra causa se non per l’avidità mi sembra che sia stato predetto non solo per gli Spartani ma anche per ogni popolo ricco. Coloro che sono a capo di uno Stato non possono con alcun altro mezzo procacciarsi più facilmente la benevolenza della moltitudine che con l’integrità morale e la moderazione.
78 – Qui vero se populares volunt ob eamque causam aut agrariam rem temptant ut possessores pellantur suis sedibus aut pecunias creditas debitoribus condonandas putant labefactant fundamenta rei publicae concordiam primum quae esse non potest cum aliis adimuntur aliis condonantur pecuniae deinde aequitatem quae tollitur omnis si habere suum cuique non licet. Id enim est proprium ut supra dixi civitatis atque urbis ut sit libera et non sollicita suae rei cuiusque custodia.

Pro Caelio, 33-34

33 – Sed tamen ex ipsa quaeram prius utrum me secum severe et graviter et prisce agere malit an remisse et leniter et urbane. Si illo austero more ac modo, aliquis mihi ab inferis excitandus est ex barbatis illis non hac barbula, qua ista delectatur, sed illa horrida, quam in statuis antiquis atque imaginibus videmus, qui obiurget mulierem et pro me loquatur, ne mihi ista forte suscenseat. Exsistat igitur ex hac ipsa familia aliquis ac potissimum Caecus ille; mini mum enim dolorem capiet, qui istam non videbit.
34 – Qui profecto, si exstiterit, sic aget ac sic loquetur: “Mulier, quid tibi cum Caelio, quid cum homine adulescentulo, quid cum alieno? Cur aut tam familiaris huic fuisti, ut aurum commodares, aut tam inimica, ut venenum timeres? Non patrem tuum videras, non patruum, non avum, non proavum, non abavum, non atavum audieras consules fuisse; non denique modo te Q. Metelli matrimonium tenuisse sciebas, clarissimi ac fortissimi viri patriaeque amantissimi, qui simul ac pedem limine extulerat, omnes prope cives virtute, gloria, dignitate superabat? Cum ex amplissimo genere in familiam clarissimam nupsisses, cur tibi Caelius tam coniunctus fuit? cognatus, adfinis, viri tui familiaris? Nihil eorum. Quid igitur fuit nisi quaedam temeritas ac libido? Nonne te, si nostrae imagines viriles non commovebant, ne progenies quidem mea, Q. illa Claudia, aemulam domesticae laudis in gloria muliebri esse admonebat, non virgo illa Vestalis Claudia, quae patrem complexa triumphantem ab inimico tribuno plebei de curru detrahi passa non est? Cur te fraterna vitia potius quam bona paterna et avita et usque a nobis cum in viris tum etiam in feminis repetita moverunt? Ideone ego pacem Pyrrhi diremi, ut tu amorum turpissimorum cotidie foedera ferires, ideo aquam adduxi, ut ea tu inceste uterere, ideo viam munivi, ut eam tu alienis viris comitata celebrares?”

33 – Io dunque chiederò anzitutto a lei stessa, se preferisce che io la tratti con la severità, la gravità, la durezza antica, o invece scherzosamente con dolcezza e urbanità. Se in quel primo burbero modo, io dovrò richiamare dal mondo di là qualche veneranda barba – non quelle barbette profumate di cui essa suole compiacersi, ma di quelle barbacce incolte che noi vediamo nelle statue e nei busti antichi, – che la strapazzi, e parli in vece mia affinché essa non se la prenda con me. Venga dunque qualcuno della sua stessa famiglia: per esempio, e primo fra tutti, quell’Appio Claudio Cieco, che del non poterla vedere non proverà alcun dolore.
34 – Se egli dunque risusciterà, si comporterà e parlerà così: “O donna, che hai tu in comune con Celio, con questo giovanotto, con questo estraneo? Come mai tu gli sei stata, o così intima da prestargli i tuoi ori, o così nemica da temerne il veleno? Non hai visto tuo padre, non hai sentito dire che tuo zio, tuo nonno, tuo bisnonno, l’avo tuo, il padre di lui, sono stati consoli? Non sapevi almeno di essere stata moglie di Quinto Metello uomo eccellente e intrepido e molto amante della patria, che, non appena fuori di casa sua, era ritenuto superiore ad ogni altro cittadino per virtù, fama e decoro? Tu, di così nobile famiglia, e in così nobile famiglia entrata col matrimonio, come hai potuto confonderti con un Celio? Era tuo parente, tuo affine, era amico di tuo marito? Nulla di tutto ciò. Che altro ti spinse, allora, se non una sfacciata libidine? Sebbene non ti trattenessero le immagini degli uomini della nostra famiglia, come non ti suggerì quella di una mia discendente, Quinta Claudia, di farti emula di domestica lode nell’onore femminile; o quella della vergine Claudia, la Vestale, che stringendo fra le braccia il padre impedì ad un tribuno della plebe, suo nemico, di trarlo giù dal carro trionfale? Perché poterono su di te più i vizi fraterni che le virtù paterne e avite, che si rinnovano, a partire da me, di generazione in generazione, fra uomini e donne? E’ per questo, dunque, che io ho impedito la pace con Pirro, perché tu potessi ogni giorno mercanteggiare amori indecenti? Per questo ho condotto l’acqua a Roma, perché tu la usassi per le tue sconcezze? Per questo ho aperto la via Appia, perché tu vi passeggiassi in compagnia d’ogni sorta di gente?”

Ad Familiares, IX, 23

Heri veni in Cumanum, cras ad te fortasse. Sed ubi id certum sciam, tibi paulo ante dicam, etsi M. Ceparius, cum mihi in silva Gallinaria obviam venit, dixit te in lecto esse atque ex pedibus laborare. Scilicet doleo, sed tamen constitui ad te venire, ut et viderem te et viserem et cenarem etiam. Non enim puto te coquum etiam arthriticum habere. Expecta igitur hospitem minime edacem inimicumque cenis sumptuosis.

Ieri sono andato nella villa di Cuma, domani forse -verrò- da te. Ma non appena lo saprò per certo, te lo dirò per tempo, anche se Cepario, quando mi incontrò nella Pineta Gallinaria, disse che tu eri a letto e che soffrivi di un malanno ai piedi. Naturalmente mi dispiace, ma ho deciso di venire comunque da te sia per vederti sia per visitarti sia per cenare. Infatti non credo che tu abbia anche un cuoco artritico! Allora aspetta un ospite molto poco ingordo e contrario alle cene sontuose.